Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Obama: 3 interpretazioni Analisi di Giovanni Sartori, Maurizio Molinari, Redazione del Foglio
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa Autore: Giovanni Sartori - La redazione del Foglio - Maurizio Molinari Titolo: «Il presidente guerriero - Lo stato della guerra - In trincea da solo contro tutti»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 29/01/2010, in prima pagina, l'editoriale di Giovanni Sartori dal titolo " Il presidente guerriero ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Lo stato della guerra". Dalla STAMPA, a pag. 1-32, l'editoriale di Maurizio Molinari dal titolo " In trincea da solo contro tutti ". Ecco i tre articoli:
CORRIERE della SERA - Giovanni Sartori : " Il presidente guerriero "
Giovanni Sartori
Nel suo primo messaggio sullo stato dell'Unione i l presidente Obama ha lasciato la politica estera in sordina ma ha ribadito, a proposito dell'Afghanistan, il progetto che sappiamo: nuove truppe oggi ma inizio del loro ritiro a metà del 2011. Capisco che questa logica distorta (se annunzi che te ne vai perdi più che mai) sia imposta dall’impopolarità della guerra, di qualsiasi guerra. La guerra è di per sé orribile. L'Occidente (salvo eccezioni balcaniche) lo ha capito e ne è profondamente convinto. Ma non è sempre evitabile. E dobbiamo tutti cominciare a capire che la guerra che resta inevitabile sarà diversissima da tutte le guerre che sono state combattute dall'inizio dei tempi.
Le vecchie guerre venivano combattute da eserciti identificabili per conquiste territoriali e anche per bottino, per saccheggio. È solo da pochi secoli che il bottino è venuto meno, ed è solo dopo le due ultime guerre mondiali che la conquista territoriale ha perduto senso.
Ciò premesso, qual è il senso, oggi, della classica distinzione tra guerra giusta e guerra ingiusta? Mi dispiace per i «ciecopacisti» — i pacifisti accecati dalla loro ossessione — ma un Paese che si difende dall'attacco di un altro Paese combatte una guerra giusta.
Però la nozione di guerra giusta non include soltanto la guerra difensiva. Per esempio una guerra che si propone di abbattere un tiranno e di instaurare la democrazia è una guerra giusta? Questa è sempre stata l'ideologia missionaria degli Stati Uniti invocata da ultimo dal presidente Bush jr per giustificare, in mancanza di meglio, l'assalto all'Iraq. Ma è una dottrina che non ci possiamo più permettere; senza contare che in moltissimi casi è destinata a fallire. Nel caso dell'Iraq il successo è stato di abbattere un tiranno sanguinario e pericoloso per tutti; ma il «successo democratico» di quella guerra è molto dubbio.
E in Afghanistan? Anche lì guerra giusta per imporre democrazia? Per carità, scordiamocene. Lì si tratta di pura e semplice guerra necessaria resa obbligatoria ai fini della salvezza di tutto l'Occidente. Per decenni abbiamo temuto l'annientamento nucleare. Ma il pericolo delle armi atomiche è fronteggiabile. E comunque il pericolo maggiore è diventato quello delle armi chimiche e batteriologiche «tascabili». Qui la cattiva notizia è che mezzo chilo di tossina botulinica potrebbe uccidere un miliardo di persone. E l'Afghanistan conquistato (riconquistato) dai talebani, e al servizio di Al Qaeda, pone questo problema. Pertanto scappare non è una soluzione. Ma è anche vero che la guerra come viene combattuta oggi in Afghanistan, la guerra di occupazione e controllo del territorio contro un nemico invisibile, non può essere vinta. Il problema è nuovo e impone soluzioni nuove.
L'alternativa, propongo, è di abbandonare il territorio e di creare una zona militare fortificata (senza popolazione civile al suo interno) in grado di controllare e di distruggere dall'alto, con i droni militari americani, qualsiasi installazione sospetta di produzione di armi chimiche e batteriologiche. Questa «fortezza» dovrebbe essere collocata al confine con il Pakistan. E il punto è, in generale, che la tecnologia per difenderci dalla nuova tecnologia del terrorismo esiste. I generali, si dice, sono preparati a combattere la guerra del passato. Occorrono generali che si preparino alle guerre necessarie del futuro.
Il FOGLIO - " Lo stato della guerra "
Barack Obama ha dedicato gran parte del suo discorso sullo stato dell’Unione alle questioni di politica interna, in particolare alle misure per combattere la disoccupazione, ridurre il deficit pubblico, bacchettare le banche, aiutare il ceto medio e riformare la sanità. La scelta di puntare su questi temi non è stata una sorpresa, perché sono i punti su cui negli ultimi mesi si è logorato il suo consenso e intorno ai quali si è consolidato l’inaspettato revival repubblicano. Obama ha offerto più o meno le stesse ricette di sempre (leva pubblica e regole dettate dall’alto) anche se con meno baldanza rispetto al passato. I suoi toni sono stati una punta più demagogici e populisti, a cominciare dalla proposta di congelare per tre anni la spesa federale (tranne che per sicurezza, previdenza e sanità). Il discorso non è stato tra i più entusiasmanti della sua carriera, ma l’obiettivo non era far sognare (per quello ha provveduto Steve Jobs con l’iPad). A colpire, però, è stata la scarsa attenzione dedicata alla sicurezza nazionale e alla politica estera. L’America è impegnata in una guerra al terrorismo su più fronti: Iraq, Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia. I suoi soldati muoiono ogni giorno, la libertà di milioni di persone dipende dal loro sacrificio, ma non s’è sentita una chiara spiegazione dei motivi per cui l’America è impegnata in questo conflitto. Obama ha rivendicato le uccisioni dei militanti di al Qaida, ha promesso “conseguenze crescenti” contro gli ayatollah atomici e ha ribadito che “l’America deve sempre schierarsi dalla parte della libertà e della dignità”, eppure ha sbrigativamente annunciato di voler far rientrare le truppe. Accontentare tutti può essere utile politicamente, ma non è una strategia. Meno male che Bush ne aveva elaborata una, ancora oggi l’unica credibile, sensata e obtorto collo eseguita anche da Obama.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " In trincea da solo contro tutti "
Maurizio Molinari
Incalzato dalla disoccupazione che cresce e dall’economia che arranca, contestato dai leader del suo partito e irriso da quelli repubblicani, con la riforma della Sanità impantanata, i sondaggi in costante calo e tradito dalle roccaforti liberal come il New Jersey e il Massachusetts, Barack H. Obama sfrutta i 71 minuti dello Stato dell’Unione per sfidare a viso aperto tutti gli avversari. Con toni e termini che evocano la campagna vinta nel 2008 e aprono quella che si concluderà il 3 novembre con il voto per il rinnovo del Congresso. Lasciandosi alle spalle un 2009 nel quale ha invano tentato di governare Washington ricorrendo al pragmatismo, Obama affronta il 2010 rispolverando l’approccio lincolniano che lo aveva fatto vincere. «Portiamo avanti il sogno americano e rafforziamo una volta ancora la nostra Unione». La svolta è fotografata dal cambio di equilibrio nella West Wing, dove è in calo il finora onnipotente capo di gabinetto ex clintoniano Rahm Emanuel mentre torna in auge David Plouffe, l’architetto del «The Change We Can Belive In» (Il cambiamento in cui possiamo credere), la formula che portò alle urne milioni di giovani e che Obama ha ripetuto alla fine del discorso sullo Stato dell’Unione, dopo averla tenuta in soffitta per dodici lunghi mesi. L’impronta di Plouffe sul discorso scritto dallo «speechwriter» Jon Favreu e ritoccato più volte da Obama la si è vista nell’impostazione come nei contenuti. L’impostazione è quella di un leader che va incontro, da solo, a tutti gli ostacoli che l’America ha di fronte. Obama incalza entrambi i partiti. Ai democratici dice: «Vi ricordo che abbiamo ancora la più ampia maggioranza delle ultime decadi e la gente si aspetta che governiamo, non che ci diamo alla fuga». Come dire, niente scuse. E ai repubblicani aggiunge: «Dire di no a tutto può essere utile nei giochi politici di corto termine ma non significa possedere qualità di leadership». Ovvero, non basta stare alla finestra. Sul piano dei contenuti, l’avversario che Obama indica alla nazione in diretta tv è il Senato di Washington ovvero l’aula dove i repubblicani grazie alla vittoria di Scott Brown in Massachusetts hanno tolto ai democratici la supermaggioranza di 60 seggi - su 100 - potendo contare oggi su 41 voti che gli consentono di bloccare leggi e nomine. La sfida al Senato è l’ossatura del discorso in un alternarsi di affondi politici, ironie feroci e battute in slang popolare. Obama rimprovera al Senato di fare resistenza sulla nuova legge sull’occupazione, sulla riforma finanziaria per porre limiti alle grandi banche, sulla task force anti-debito, sul taglio delle emissioni nocive, sugli sgravi fiscali agli studenti. E in ogni occasione mette in rilievo come invece «la Camera ha già votato» o «ha già deciso». Sono le premesse per una campagna elettorale nella quale Obama si prepara a additare la minoranza repubblicana al Senato, e forse anche la debolezza dei democratici, come responsabili del ritardo delle riforme. E’ una strategia di pressing sugli avversari, esterni e interni, sulla quale la Casa Bianca punta per riuscire a centrare l’obiettivo che più ha a cuore: la nuova Sanità pubblica. Non a caso è per discutere di questo che Obama tende la mano ai leader del Congresso: «Vorrei avere ogni mese incontri con democratici e repubblicani». L’intento del presidente è di passare i prossimi 11 mesi in trincea a Capitol Hill dando vita ad un confronto a tutto campo con il Congresso destinato a trasformare il voto di novembre in un referendum sul suo operato. Forse non è un caso che Plouffe, secondo il tam tam di Pennsylvania Avenue, sta già rimettendo mano ai nomi dei candidati per scegliere volti più nuovi, obamiani, anziché democratici vecchia maniera. In tale cornice gli attacchi frontali, e con accenti populisti, alle grandi banche «che devono pagare una tassa», alle lobbies degli «interessi particolari» e alla Corte Suprema colpevole di «rovesciare un secolo di finanziamento alla politica» sono le avvisaglie di una campagna lunga e dura, dalla quale il presidente punta a uscire con un Congresso a lui assai più affine. La scelta di andare all’attacco contro tutti ricorda, secondo il politologo E. J. Dionne, quanto fece il repubblicano Ronald Reagan nel 1982 riuscendo a risollevarsi con successo da un primo anno di brutte sorprese e sondaggio in calo. Resta da vedere se Obama riuscirà a centrare lo stesso risultato: sulla carta è una scommessa tutta in salita, complicata dalle due guerre in corso e dalle minacce di Al Qaeda, mentre lo scontento della classe media per la disoccupazione resta la mina più difficile da disinnescare.
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