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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Foglio-Il Giornale-La Stampa Rassegna Stampa
09.01.2010 Terrorismo: Yemen,Giordania e nel mondo
in forte sviluppo mentre l'Occidente sottovaluta

Testata:Il Foglio-Il Giornale-La Stampa
Autore: Redazione del Foglio-Redazione del Giornale-Francesca Paci
Titolo: «In Yemen l'intelligence più affidabile è legata agli ex di Saddam-La vedova del kamikaze giordano: sono orgogliosa di lui- Nelle periferie del mondo il nuovo cuore dell'islam»

Terrorismo, Yemen, palestinesi/giordani, sono i protagonisti degli articoli oggi, 09/01/2010. Sul FOGLIO, con una analisi sullo Yemen,  sul GIORNALE, con l'intervista alla vedova del kamikaze giordano fattosi saltare nella base americana in Afghanistan, sulla STAMPA, con Francesca Paci, che richiama la scomparsa del conflitto israelo-palestinese dalle copertine dei giornali a vantaggio di quello che definisce "periferico".
Ecco gli articoli:

Il Foglio- " In Yemen l'intelligence più affidabile è legata agli ex di Saddam "

Milano. Se lo Yemen è lo stato con cui nessuna democrazia vorrebbe allearsi, i servizi segreti dello Yemen sono la struttura a cui nessuno vorrebbe chiedere informazioni. Anche perché di agenzie di intelligence Sana’a ne ha due, ovviamente in conflitto fra loro. Il Daily Telegraph ha ricostruito la storia duplice dei servizi yemeniti, rivelando la piroetta delle alleanze: la National Security Agency (Nsa), quella voluta e appoggiata dall’America, è nelle mani di ufficiali di Saddam Hussein e di vari luogotenenti baathisti che dopo il collasso del regime iracheno si sono riciclati nella notte yemenita dove tutte le fazioni sono uguali. Oggi l’agenzia che ha rimesso in circolazione gli uomini del Mukhabarat – i servizi iracheni – è paradossalmente l’unica sacca di affidabilità in un ricettacolo che raccoglie uomini di al Qaida, ribelli appoggiati dall’Iran e impenitenti separatisti che vogliono un regime indipendente nel sud del paese. La Nsa dovrebbe essere l’alternativa “buona” alla Political Security Organization (Pso), i servizi segreti originari, infestati dalla presenza di al Qaida e in stretto contatto con servizi sauditi e pachistani. Negli anni Ottanta il compito fondamentale del Pso era reclutare guerriglieri da spedire contro l’Armata rossa in Afghanistan. Dopo l’11 settembre l’America ha fatto pressione sul presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh, perché istituisse una nuova agenzia, tanto per dare una ripulita al paese che ha dato al mondo la famiglia Bin Laden. Non era facile in quel momento per Saleh trovare agenti preparati nel paese, quelli a disposizione erano già stati assunti e deviati dal Pso, ma con l’arrivo degli americani in Iraq, la situazione cambia. Improvvisamente si riversa sul mercato una classe dirigente amica in cerca di lavoro. Prima della caduta, le relazioni fra Saddam e Saleh stavano attraversando un momento felice e l’analista di politica yemenita Jane Novak è certa che negli ultimi tempi Saddam e Saleh fossero “in rapporti particolarmente stretti”. I due leader non lo erano sempre stati, ma Saleh aveva preso ad ammiccare a Saddam già durante la prima guerra del Golfo, prendendosi come contropartita l’appoggio non ufficiale degli americani alla sanguinosa ribellione nel sud dello Yemen. Dopo il 2003 lo Yemen è diventato un posto sicuro per i baathisti in fuga, che incrociavano la rotta con il via vai degli uomini di al Qaida da e per l’Iraq. Saleh alternava cerimonie per il ritorno dei guerriglieri yemeniti dal fronte iracheno – diverse fonti parlano di oltre mille effettivi coinvolti – all’offerta di asilo per le famiglie dei pezzi grossi del potere baathista. Primi fra tutti Tariq Aziz e Izzat Ibrahim al Douri, comandante militare del regime di Saddam e nuovo leader del Baath. Negli ultimi anni il militare con i baffi rossicci e le lentiggini è stato dichiarato ciclicamente morto, ferito o catturato, salvo poi costringere tutti alla smentita con interventi pubblici. La prima segnalazione del suo trasferimento nello Yemen è del 2006 e due anni fa un anonimo deputato iracheno ha confermato al quotidiano al Masdar che il Parlamento aveva “informazioni certe sulla presenza di al Douri in Yemen”. Tanti altri ufficiali e agenti di vario calibro hanno trovato nello Yemen un asilo sicuro e oggi i transfughi del potere di Saddam sono l’asse portante di quel servizio di sicurezza che dovrebbe tenere a bada il servizio originale, che sicuro non è. Almeno dal 2000, il Pso ha creato una subdola alleanza con al Qaida che lo stato ha finto di non vedere. Il caso più clamoroso è del febbraio 2006, quando i servizi hanno lasciato scappare 23 detenuti dalla prigione di massima sicurezza della capitale, una struttura gestita esclusivamente dal Pso. Evasione impossibile da impedire: un tunnel di 70 metri che sbucava in una moschea (in realtà il tunnel era lungo quasi il doppio e dalla moschea arrivava alla prigione, non il contrario). Nove detenuti sono stati riacciuffati, ma nessuno tra i tredici responsabili incriminati per l’attentato suicida alla nave americana Cole che nel 2000 ha ucciso 17 militari americani. Le evasioni estemporanee di terroristi sono la specialità del Pso. Il responsabile dell’attentato alla Cole, Jamal al Badawi, nel giro di qualche mese ha visto la sua condanna a morte tramutarsi per decreto presidenziale in 15 anni di reclusione. Meno di un anno più tardi Badawi è scappato, con la complicità del colonnello del Pso Hussein al Anzi, amico di Badawi. L’agente corrotto è stato licenziato e Badawi ha trovato un paradossale accordo con il governo che gli concede la libertà. I contatti fra i gruppi di al Qaida e il Pso sono gestiti direttamente dal numero uno della sicurezza, Gamil al Qamish, che ha rapporti regolari con Rashad Mohammed Saeed Ismael, chierico vicino al cuore di al Qaida. E’ stato lui a presentare la sua studentessa Amal al Saddah a Osama bin Laden, che poco dopo ne ha fatta una delle sue mogli. Anche l’attentato all’ambasciata americana del settembre 2008 è frutto della collusione fra al Qaida e il Pso: la mente dell’attentato, Ali Saleh al Dhayani, ha detto che “alcuni attacchi sono stati pianificati in collaborazione con il Pso, per ottenere il sostegno dell’opinione pubblica e per consentire allo stato di confermare agli americani che loro stanno davvero guidando la guerra al terrorismo”. Dhayani è anche il principale sospettato per i colpi di mortaio lanciati a marzo contro l’ambasciata e per l’uccisione di otto turisti spagnoli a Mareb. Per fermare la dinamica di corruzione e omertà a sfondo qaidista, Saleh ha pescato nello stagno di un altro nemico, con un profondo inchino all’alleato americano.

Il Giornale- "La vedova del kamikaze giordano: sono orgogliosa di lui  "


Defne Bayrak, vedova del kamikaze,cittadina giordana, il paese dove il 70% dei cittadini sono palestinesi.

Amman«Sono orgogliosa di mio marito, il martirio è una priorità della mia famiglia». Lo dice, in un’intervista telefonica al sito del quotidiano spagnolo El Mundo, Defne Bayrak, moglie di Jalil Abu Mulal al-Balawi, il giordano doppiogiochista che il 30 dicembre scorso si è fatto saltare in aria nella base americana di Khost, in Afghanistan, provocando la morte di sette agenti della Cia e di uno dei servizi di Amman.
«Non tocca a me dire se Jalil è o no un martire, ma io sono orgogliosa di lui», racconta ancora la donna, che vive a Istanbul, dove ieri è stata interrogata dall’Unità antiterrorismo turca, presenti alcuni funzionari della Cia, che stanno indagando per capire i legami del kamikaze giordano con Al Qaida.
Laureato in medicina, originario di Zarqa, la città natale di Abu Musab al Zarqawi, il leader di Al Qaida in Irak ucciso dagli americani nel giugno del 2006, Balawi era stato reclutato dai servizi giordani e poi da quelli americani - dopo essere stato arrestato ad Amman per incitamento alla “Guerra santa” - con l’obiettivo di ottenere informazioni su Ayman Al Zawahiri, il vice di Osama Bin Laden.
Secondo quanto raccontato ancora dalla vedova del kamikaze, che a Istanbul fa la giornalista, il loro ultimo incontro risale al marzo scorso, quando al-Balawi aveva lasciato la Turchia diretto in Pakistan, sostenendo di voler seguire un corso di perfezionamento in medicina. Nel dirsi sconvolta per quanto successo, la Bayrak - che ha sposato l’agente giordano nel 2001 e da lui ha avuto due figlie - ha precisato tuttavia di «non vergognarsi» affatto per l’azione da lui compiuta. «Lo ha fatto perché ci credeva», ha detto alle televisioni turche la donna, che ha scritto un libro nel quale paragona Osama Bin Laden a Che Guevara.
Intanto, riferisce il New York Times, ancora ieri, sul sito muslm.net è apparso un post a firma di Abu Dujana al-Khorasani - pseudonimo di al-Balawi sul web - in cui si legge: «Le mie parole moriranno se io non le salverò con il sangue... Uno deve morire per far vivere l’altro. Mi auguro di poter essere io quello che morirà».
Nel 2007, il medico giordano di origine palestinese era stato arrestato dai servizi di Amman - che lo avevano poi trasformato in un informatore - proprio per frasi di questo tipo. «Avevo una predisposizione per la jihad e il martirio sin da quando ero piccolo. Se l’amore per la jihad entra nel cuore di un uomo, non lo lascerà neanche se lo vuole», diceva nel settembre dello scorso anno in un’intervista ad una rivista legata ad Al Qaida in Afghanistan, «Vanguards of Khorasan». Incredibile che con queste premesse a un personaggio come al-Balawi sia stato dato pieno credito dalla Cia, che ha esposto a un rischio mortale - poi diventato drammaticamente realtà - sette dei suoi uomini migliori in Afghanistan.
 
La Stampa-Francesca Paci: " Nelle periferie del mondo il nuovo cuore dell'islam"
La mezzaluna islamica ha affilato le estremità. Mentre il conflitto israelo-palestinese, classico cavallo di battaglia della jihad post moderna, scompare dalle copertine delle riviste di geopolitica interessate al massimo al potenziale economico dell'emergente e non ideologizzata borghesia araba, l'ultima sfida all'occidente arriva dalla periferia della galassia musulmana. «L'islam contemporaneo non si capisce guardando il vecchio centro mediorientale ma i margini, Yemen, Somalia, Pakistan, Afghanistan» osserva l'irano-americano Reza Aslan, ricercatore al Global and International Studies di Santa Clara e autore del volume «How to win a cosmic war», come vincere una guerra cosmica. Per questo, sostiene, Barack Obama ha sbagliato a lanciare dal Cairo la battaglia per i cuori e le menti sedotte dal Corano: «L'Egitto non è più il centro del mondo musulmano da almeno un secolo».
Se gli 007 setacciano le strade di Sana’a alla ricerca delle tracce fresche di Al Qaeda, gli studiosi lavorano a quelle sedimentate. «Washington ha promesso al presidente Ali Abdullah Saleh di raddoppiare i 70 milioni di dollari versati all'antiterrorismo yemenita nel 2009 mettendo l'importanza strategica del piccolo paese davanti al Pakistan, che ne riceve 112 l'anno» spiega Fawaz Gerges, docente di politiche mediorientali alla London School of Economics. Ad allarmare la Casa Bianca è la saldatura tra l'ambizione nichilista di Osama bin Laden e la crisi politica e sociale dello Yemen, dove un abitante su due vive in assoluta povertà e due su tre hanno meno di vent'anni. Una miccia visibile fino a Gerusalemme.
«Il nuovo terrorismo che si diffonde dalla periferia dell'islam germoglia come quello vecchio nella fragilità istituzionale del mondo arabo» nota Benny Morris, uno dei maggiori storici israeliani. Solo che al pari d'Egitto e Giordania vent'anni fa, Yemen e Pakistan non possono farcela da soli: «Gli Stati Uniti sono delusi dallo stallo del conflitto israelo-palestinese e preferiscono concentrarsi su altre zone. Con la jihad globale all'attacco dei valori occidentali i palestinesi sono usciti di scena e in breve resteranno un problema esclusivamente nostro». Come l'Iran, si mormora negli ambienti del Mossad, alla cui minaccia Israele è sempre più tentato di rispondere autonomamente. Lo Yemen insomma sembra diventato lo scacchiere su cui le potenze internazionali, che ancora un anno e mezzo fa puntavano su Gaza, giocano le loro ultime mosse. «La causa palestinese non è più attivamente sostenuta da nessuna potenza araba e ha sviluppi geopolitici limitati» ragiona il professor Antonio Giustozzi, del Crisis States Research Centre della London School of Economics, autore del saggio «Koran, Kalashnikov, and Laptop», Corano, kalashnikov e laptop. Molto meglio investire su Sana’a: «Il regime yemenita è alle corde, con tre movimenti antigovernativi in azione simultanea il momento è propizio per un sommovimento profondo». Non ci sono solo i 300 militanti di al Qaeda, «parassiti» che si nutrono dell'instabilità politica e della mancanza di leggi: «Si parla di aiuti iraniani ai ribelli del nord, dove la rivolta ha attualmente un dinamismo considerevole. Ma se Teheran è potenzialmente interessato a un cliente nella penisola arabica, Riad non resta certo a guardare e sfruttando l'avversità al governo in carica potrebbe essere dietro l'afflusso ingente di fondi ai secessionisti del sud».
Mentre l'America e i suoi alleati cercavano la quadratura del cerchio delle guerre afghana e irachena, gli uomini di Osama hanno arato la terra della regina di Saba forgiando le nuove leve del terrore. «L'ideologia jihadista radicale si è emancipata dall'idea di centro e si è diffusa grazie a internet e a predicatori individuali fino a consolidare l'immagine di un occidente antimusulmano» chiosa Mark Juergensmeyer, direttore del Dipartimento di Studi globali e internazionali dell’Università della California.

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