Molti scrittori, molta letteratura israeliana e ebraica oggi 22/10/2009. Yehoshua Kenaz, Primo Levi, Dalia Sofer, Lizzie Doron, Boris Zaidman. Ecco le cronache e i commenti:
Yehoshua Kenaz
La Stampa- Elena Loewenthal: " Israele, vita vera contro i miti "
Yehoshua Kenaz non ha nulla dello stereotipo cui dovrebbe assomigliare. È uno scrittore israeliano, ma niente affatto militante, per nulla sanguigno, né ammantato di un’aura sofferta. È un uomo mite e straordinariamente colto. Conosce la letteratura francese come pochi altri, ne ha tradotto i classici in ebraico. È una grande voce d’Israele, classico egli stesso. Nato a Petach Tikwah nel 1937, appartiene a pieno titolo a quella generazione di grandi autori ormai famosi in tutto il mondo, ma coltiva da sempre una vocazione intimistica, domestica. Attraverso essa, l’Israele di Kenaz diventa qualcosa di molto diverso dal solito. Una casa di riposo per anziani, un condominio «sventrato» sulla pagina, un dimesso salotto di qualche decennio fa: questi sono i suoi territori narrativi. Lo spazio intimo diventa, nei suoi libri, un animato scenario di sentimenti e avvenure. È pubblicato in italiano da Nottetempo e dalla Giuntina.
Yehoshua Kenaz sarà a Roma il 28 ottobre, per il Festival Internazionale di Letteratura Ebraica. Parlerà della «sua» Tel Aviv.
Lei è uno dei «cantori» di Tel Aviv, la città che ha compiuto cent’anni. Il suo sguardo sulla città va nel profondo, come in Ripristinando antichi amori (di prossima ristampa per la Giuntina). C’è molto Perec, in questo libro. Che cosa ci racconta del suo rapporto con Tel Aviv?
«Sono nato a Petach Tikwa, che all’epoca era un villaggio contadino (ora è inglobata quasi nella metropoli, da cui dista una decina di chilometri). A Tel Aviv sono arrivato che avevo vent’anni, e da allora è lo scenario di molte mie storie. Il condominio - e in particolare quello del romanzo qui citato (l’accostamento con Jacques Perec, sì, ma aggiungo subito: “toute proportion gardée…”) - rappresenta per me un microcosmo della realtà più grande. Tel Aviv è diventata ben presto una città “letteraria”, fonte di ispirazione per molti scrittori: il più grande resta Yaakov Shabtai. La mia Tel Aviv è il luogo del presente continuo, della vita quotidiana, con le sue brutture ma anche con la sua passeggera bellezza, le sue speranze effimere. È così che la amo».
Nell’immaginario offerto dai media Israele è soltanto il luogo del conflitto. Per contro, i suoi libri abitano in una normalità quotidiana che sorprende il lettore. Ci racconta un poco di questa condizione che è il teatro delle sue storie?
«Il fatto che Israele sia quel luogo rappresentato in televisione e sui giornali (del resto anche noi ci immaginiamo così altri paesi, di qui), spiega molti pregiudizi e stereotipi che nemmeno il più efficace dei libri potrebbe sradicare. Israele è sì un luogo di conflitto - anche se sarebbe meglio usare il plurale: di molti conflitti. Ma fra l’uno e l’altro si vive. Non sono sicuro che nei miei libri si trovi una “normalità” - non di rado mi è stato detto che contengono troppa follia. Che peraltro fa parte anch’essa della normalità…».
Uno dei temi che il convegno di Roma affronterà è quello dello scrivere nel presente. Si sente dentro questa definizione? O preferisce delineare il passato?
«Non sono sicuro di scrivere nel presente. Le mie storie possono essere ambientate nel passato remoto e in quello prossimo. Spesso non hanno tempo. Non so nemmeno dire se esse abbiano un qualche riflesso sul presente. Esiste una letteratura ebraica contemporanea, di giovani autori, che faccio del mio meglio per seguire, malgrado il fatto che se ne pubblichino così tanti. Quanto agli scrittori del passato, due li sento sicuramente miei: Y. Agnon e S. Yzhar. Sono i due capisaldi della letteratura israeliana, il primo sullo sfondo della cultura diasporica, il secondo profondamente “indigeno”».
Torniamo al presente, e non solo quello dei libri. Come lo vede, qui in Israele? Quali prospettive si aprono secondo lei nel conflitto israelo-palestinese?
«In apparenza, ci stiamo addirittura allontanando dalla possibilità di giungere a un accordo, un compromesso con i palestinesi: lo stallo è cronico. In questo senso, non sono ottimista. Eppure, voglio sperare in qualcosa. Nella possibilità, se non altro, che entrambe le parti arrivino ad accantonare i propri miti religiosi, in cambio di una prospettiva di vita vera».
La Stampa- Maurizio Molinari: "E adesso Primo Levi parla anche all'islam "
Primo Levi
New York si prepara a celebrare domenica i 90 anni di Primo Levi (1919-1987) nel segno della traduzione in arabo e in persiano di Se questo è un uomo. La novità è visibile sin dal cartellone che annuncia gli eventi del «Primo Levi Center», perché include una grande scritta in arabo proprio per evocare il libro-simbolo del ricordo della Shoah.
Il messaggio è quello dell’«universalità della sofferenza» e a discuterne alla Casa Italiana della New York University (Nyu) saranno Talal Asad, docente di «religione e secolarismo» della City University newyorkese, Salem Joubran, scrittore e traduttore in arabo di Se questo è un uomo, Ernesto Ferrero, scrittore e biografo di Levi, il poeta sefardita americano Ammiel Alcalay, il romanziere algerino Boualem Sensal, il direttore del Centro per il dialogo della Nyu Mustapha Tilili e Abraham Radkin, direttore del «Progetto Aladino» nato in Francia sotto l’egida dell’Unesco al fine di diffondere una maggiore sensibilità e conoscenza sulla Shoah nel mondo arabo-musulmano.
È la prima volta che le nuove traduzioni si affacciano sul mercato internazionale e per gli animatori del Centro Primo Levi, dal torinese Dario Disegni alla newyorkese Natalia Indrimi, è l’occasione per sottolineare l’universalità del messaggio contenuto nelle pagine dello scrittore piemontese che ricordano la tragedia perpetrata dalla Germania di Hitler. «Con queste traduzioni si apre un nuovo mondo di possibili letture di Primo Levi - suggeriscono gli organizzatori -, con i conseguenti interrogativi su quanto Se questo un uomo sarà rilevante per i lettori in lingua araba e persiana», che risiedono in nazioni dove spesso l’Olocausto di sei milioni di ebrei viene messo in dubbio, se non del tutto negato come nel caso dell’Iran di Mahmud Ahmadinejad.
La risposta alla sfida delle traduzioni tasterà il polso all’approccio del mondo arabo-musulmano alla questione della memoria. Se i risultati dovessero essere positivi, il «Progetto Aladino» è pronto a dare luce verde alla pubblicazione in arabo e in persiano di altri testi che raccontano la Shoah.
Corriere della Sera-Alessandra Farkas: " Io, condannata a essere straniera"
Dalia Sofer
NEW YORK — «Sofer in ebraico significa scriba. Dal nome di coloro, uomini, che redigevano la Torah. Dal lato di mia nonna paterna erano tutti intellettuali, anche se lei, in quanto donna, non poté studiare». Parla sottovoce Dalia Sofer, col suo inglese elegante dalla lieve inflessione francese e la gestualità aristocratica che riportano ad un’era e a un luogo ormai lontani di fasti e ricchezza. Oggi l’autrice di La città delle rose (traduzione di Caterina Lenzi, Piemme, pp. 316, e 11), definito dal «New York Times» uno dei 100 libri più importanti del 2007, vive in un piccolo appartamento a due passi dall’Onu col suo gatto rosso tigrato Leo, «il monarca assoluto della casa». «Scrivere il libro è stato doloroso — racconta l’autrice alla vigilia del suo viaggio a Roma per partecipare al Festival internazionale di letteratura ebraica — nella mia vita c’era così tanto straziante silenzio, che ho scelto la scrittura per dar voce al dolore mio e dei miei familiari, alla nostra odissea di esuli». Il libro — la storia poetica e struggente di una famiglia iraniana nel periodo immediatamente successivo alla Rivoluzione khomeinista, quattro vite spezzate dalla follia della Storia che cercano disperatamente di riallacciarsi — è semiautobiografico.
Il protagonista Isaac Amin è incarcerato con l’accusa di spionaggio perché ebreo. Proprio come suo padre, che quando Dalia aveva otto anni fu arrestato col sospetto di essere una spia sionista. «Non sapevamo dove si trovasse. Mia madre lo cercava disperatamente. Tornò all’improvviso, un mese più tardi». Dopo una lunga malattia, il vecchio patriarca è scomparso cinque mesi fa, a 86 anni.
«La sua morte è un trauma da cui non riesco a riprendermi», confessa l’autrice, gli occhi ancora lucidi e rossi, «papà era un intellettuale finissimo e schivo, che da giovane aveva tradotto le poesie di Lord Byron in arabo. Anche se non mi ha mai raccontato cosa gli fosse successo quando fu arrestato dalla Guardia rivoluzionaria, era segretamente un mio fan e ho scoperto che regalava il mio libro a tutti i suoi medici, dicendo loro che leggendolo avrebbero potuto conoscere meglio la sua storia».
Nel 1982, a 10 anni, Dalia si è trasferita a New York con la famiglia, dopo un breve e traumatico soggiorno in Israele. «Gli altri bambini israeliani mi prendevano in giro per il fatto di essere iraniana e perché non parlavo ebraico — rievoca —. Anche in Israele c’è una gerarchia tra ebrei, per cui gli Askenaziti sono considerati migliori dei Sefarditi». Ma in fondo lei si sente una outsider da sempre. «Alle elementari, in Iran, facevano commenti sulla gerarchia delle religioni e sul fatto che l’Islam fosse molto migliore dell’Ebraismo ». Il senso di estraneità continua anche in America («il mio accogliente hotel, non ancora patria», spiega) quando frequenta il liceo francese di New York e per ben quattro anni ha un boyfriend francese e cattolico. «La sua famiglia mi accolse a modo, ricordandomi sempre che ero una straniera — ironizza —. I francesi ti accettano, ma fino a un certo punto».
Nel suo nuovo libro, ambientato tra Parigi, la campagna francese e l’Italia, la Sofer esplora il tema dell’ambiguità: nella storia, nei rapporti, nei sentimenti, nei ricordi. «È un racconto al maschile, padre-figlio. Il padre è un cattolico molto ambiguo, che durante la Seconda guerra mondiale ha fatto cose terribili alla moglie ebrea e ora lotta contro i ricordi». Nel libro affronta anche le due facce dell’Iran, «un Paese quasi schizofrenico, dove vita pubblica e privata delle persone sono agli antipodi».
«A Teheran le donne vanno in giro col velo, ma alle feste private si scatenano.
Moltissime iraniane sposate hanno amanti e addirittura battono selvaggiamente i marciapiedi, la notte, in cerca di avventure occasionali». In Iran nulla è ciò che appare. «Nella nostra lingua abbiamo addirittura un vocabolo, taruf , per esprimere questa ipocrisia mista a insincerità. I francesi sono il nostro opposto: adorano lo scontro ed esprimono sempre la propria opinione. Gli americani sono politically correct , ma più diretti nell’esprimere i propri sentimenti. Gli italiani ben più teatrali e viscerali di noi».
Ma anche in casa ci si può sentire alieni. «Essere single alla mia età mi rende un outsider rispetto alla cultura ebraica iraniana, per la quale il matrimonio è centrale». Dalia non frequenta la folta comunità di iraniani di origine irachena (come i suoi genitori). «Non sento di appartenervi. Li trovo socialmente molto limitati: conservatori, materialisti». Sugli scaffali della sua grande libreria gli intellettuali di origine iraniana come Reza Aslan, Azar Nafisi, Haleh Esfandiari e Shirin Ebadi si alternano agli autori classici e contemporanei.
«Adoro Tolstoj, Proust, Hugo, Zola e Thomas Mann, ma anche Pynchon, De Lillo, Bellow, Roth e Marilyn Robinson. Sono una fan di André Aciman mentre Jonathan Franzen non mi appassiona. Tra gli italiani, amo Pavese, Bassani e Calvino, ma devo ancora esplorarne molti». Uno dei libri che l’ha lasciata fredda è Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini. «Trovo che cominci bene, ma poi si perde. Alcune parti sembrano quasi forzate». Anche lei è in trattativa con alcuni producer per portare La città delle rose sul grande schermo. «Vorrei che il regista del film fosse italiano, oppure francese, o iraniano. Credo che un americano me lo rovinerebbe, infarcendolo di cliché sul Medio Oriente».
Informazione Corretta-Giorgia Greco: " Da Israele in Italia, Lizzie Doron e Boris Zaidman "
Lizzie Doron
Boris Zaidman
Nella prestigiosa Sala Maggiore della Camera di Commercio di Trieste si è svolta lunedì 19 ottobre la cerimonia di premiazione del IX° Premio Adei Wizo Adelina Della Pergola. Ospiti d’onore sono i due scrittori israeliani Lizzie Doron e Boris Zaidman. La Doron, prima classificata con il romanzo autobiografico “Perché non sei venuta prima della guerra” edito da Giuntina ama definirsi una scrittrice “per caso” perchè - ci spiega - voleva fare la docente universitaria ma il successo di questo suo primo romanzo le ha cambiato completamente la vita. Ha deciso di interrompere la sua carriera di ricercatrice e di dedicarsi completamente alla scrittura. In Italia è già uscito il suo secondo romanzo “C’era una volta una famiglia” ed ora è alle prese con il suo sesto romanzo. Grazie alla sua straordinaria arte compositiva Lizzie Doron ricostruisce con estrema sensibilità i silenzi e le sofferenze della madre sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti. “Il libro – racconta – è nato perché mia figlia stava preparando un lavoro per la scuola sulle radici familiari. Ho pensato che uno scritto che narrasse la mia infanzia le sarebbe stato utile. Così ho preso un periodo di congedo dall’università e mi sono messa al lavoro”. Eppure dopo l’uscita del libro per lungo tempo non sono riuscita a entrare in una libreria perché questo è un testo molto intimo e personale”. Boris Zaidman, presente alla cerimonia, con il meraviglioso romanzo autobiografico “Hemingway e la pioggia di uccelli morti” edito da Il Saggiatore , è entusiasta dell’Italia e della gente che incontra e gli testimonia grande apprezzamento per il suo libro. In questo romanzo d’esordio Boris Zaidman che è nato a Kishinev nel 1963 e si è trasferito in Israele con la famiglia all’età di dodici anni, ripercorre con una prosa sorretta da un tenue filo di nostalgia e da un sottile umorismo, i luoghi e le atmosfere della sua infanzia in Russia. Giocato su due registri temporali, quello del protagonista Tal, adulto in Israele e quello del piccolo Tolik ovvero Tal negli anni dell’infanzia sovietica, il libro ricalca le tensioni di cui è intessuta la biografica dell’autore: un’infanzia a ridosso dei fantasmi della guerra, una fede sincera nei miti del sistema sovietico e al tempo stesso la consapevolezza di essere in qualche modo estraneo alla madrepatria. Se nell’opera di Lizze Doron il tema dell’antisemitismo è una costante che percorre tutta la narrazione, per Boris Zaidman si tratta di un’esperienza diretta che ha vissuto e sofferto in prima persona come i suoi genitori e che li ha spinti alla complessa decisione di emigrare in Israele. E’ con l’arrivo in questo paese che la sua vita muta drasticamente e si apre ad una nuova identità. Sul tema della nostalgia l’autore afferma che è uno stato mentale e che gli immigrati sono dei veri campioni di “gaaguim” (termine ebraico che indica nostalgia. Per Zaidman si tratta in realtà di una idealizzazione del passato, un desiderio di ritrovare nelle pieghe della mente il ricordo di situazioni che spesso non sono neppure esistite. E’ un meccanismo – conclude lo scrittore - che ci permette di vivere meglio e di sentirci più vivi. Con la loro presenza questi “cantori d’Israele” hanno mostrato ancora una volta come la letteratura israeliana sia un mondo ampio e variegato con una pluralità di voci, a volte discordanti ma profondamente ricche e che può aspirare a diventare un vero strumento di dialogo e di pace.
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