Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Iran non rinuncia al nucleare e non accetta compromessi Analisi di Carlo Panella, Glauco Maggi, Guido Olimpio, Vittorio Emanuele Parsi. Intervista a Daniel Pipes di Arturo Zampaglione
Testata:Libero - Corriere della Sera - La Stampa - Il Foglio - La Repubblica Autore: Carlo Panella - Glauco Maggi - Guido Olimpio - Vittorio Emanuele Parsi - Arturo Zampaglione Titolo: «Il valzer nucleare dell’Iran fa ballare Obama»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 20/10/2009, a pag. 21, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Il valzer nucleare dell’Iran fa ballare Obama ", l'articolo di Glauco Maggi dal titolo " Mosca si schiera con gli ayatollah. Barack tentenna ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 17, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Jafari «l’architetto»: un occhio alla piazza l’altro ai piani nucleari ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Strano attentato ". Dalla STAMPA, a pag. 1-11 l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Iran, la strana coincidenza ". Dalla REPUBBLICA a pag. 14, l'intervista di Arturo Zampaglione a Daniel Pipes dal titolo " E' troppo tardi per negoziare. Gli ayatollah vogliono la bomba " preceduta dal nostro commento. Ecco gli articoli:
LIBERO - Carlo Panella : " Il valzer nucleare dell’Iran fa ballare Obama "
Obama
Mohammed el Baradei si è assunto il non difficile compito di spiegare al mondo - e a Barack Obama - cosa significhi essere insignito del Nobel per la Pace, che ricevette nel 2005: giocare alle tre carte, barando, naturalmente. Non si è smentito ieri, quando, a conclusione del secondo incontro sul nucleare iraniano che si è tenuto a Vienna, tra la delegazione di Teheran e Stati Uniti, Russia, Francia e Germania (“quattro più uno”), ha annunciato trionfante: «È stato un buon inizio»! Questo, ignorando la provocazione di una riunione preceduta dalla minaccia di Ahmadinejad, poi ribadita da Khamenei, di «punire militarmente Usa e Gran Bretagna» per l’appoggio che avrebbero dato ai terroristi che hanno sterminato il vertice dei pasdaran in Baluchistan. Ancor peggio, dopo che Ali Shirizadian, portavoce iraniano, ha annunciato che lo spostamento dell’arricchimento dell’uranio all’estero «punta solo ad un contenimento dei costi, ma che non significa affatto la fine dei programmi d’arricchimento sviluppate in Iran o il trasferimento integrale di queste operazioni al di fuori del paese». Insomma, l’Iran non trasferirà mai l’intero processo nucleare fuori dalle sue frontiere (e quindi sarà liberissimo di arrivare all’uranio pesante che gli serve per la bomba atomica) e si limiterà a spostarne una parte all’estero, ma solo per risparmiare. Una solenne presa per i fondelli, a cui si aggiunge un secco calcio nei denti alla Francia che l’Iran accusa di avversare la trattativa, per cui mai e poi mai accetterà di trasferire nessun processo di arricchimento in quel paese. Una umiliazione ad uno dei principali paesi seduti al tavolo della trattativa, che segue decine di altre provocazioni similari. Il segreto di Pulcinella del gioco delle tre tavolette di el Baradei è presto svelato: la trattativa di ieri - che riprenderà stamani - è stata rigorosamente mantenuta sul piano tecnico e non si è neanche sfiorato il nodo reale della questione. Non si è discusso dell’unico punto dirimente: lo spostamento integrale fuori dall’Iran, con ispezioni a tappeto nei siti iraniani, del processo di arricchimento, unica garanzia per bloccare il palese cammino verso la bomba atomica (tutti i missili intercontinentali sinora sperimentati dai pasdaran hanno senso solo se armati di atomica). La trattativa di Vienna si conferma dunque per quel che l’Iran voleva che fosse: una perdita di tempo, che permette ai pasdaran di procedere indisturbati a dotarsi dell’atomica. È l’ennesima conferma del fallimento della “svolta” impressa da Obama, della fine della politica della carota e del bastone avviata da George W. Bush e il risultato ovvio della fine di ogni minaccia di ritorsione all’Iran - inclusa quella militare - che il nuovo presidente ha voluto. Di rinvio in rinvio, Obama ha dato al programma militare atomico iraniano più di un anno di tempo per svilupparsi indisturbato (Bush sospese la sua politica basata su trattative, ma anche concrete minacce militari, nell’autunno 2008, proprio nell’eventualità che Obama vincesse le elezioni e che la vanificasse) e ora continua a spostare in avanti la data per una verifica finale. Prima indicò fine settembre, poi fine ottobre, ora si andrà a dicembre e poi si continuerà temporeggiando. Una prova di debolezza straordinaria e di cecità assoluta che Obama sta dando al mondo, dimostrando però di essere pienamente meritevole del Nobel per la Pace. Come el Baradei.
LIBERO - Glauco Maggi : "Mosca si schiera con gli ayatollah. Barack tentenna"
Dmitry Medvedev
Anche Mosca tende la mano all’Iran, come ha fatto Obama, ma è per aiutare il presidente Ahmadinejad nella lotta al “terrorismo”. Cioè contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che il governo di Teheran ha accusato di essere gli ispiratori ed organizzatori dell’attentato che ha decapitato una buona fetta dei vertici della Guardia rivoluzionaria, i soldati islamici che sostengono il regime. Il presidente russo Dmitry Medvedev ha scritto ieri al collega iraniano che «la lotta contro la minaccia del terrorismo e dell’estremismo, da qualunque parte venga, richiede uno sforzo da parte di tutti i paesi. Noi siamo pronti a cooperare con l’Iran nel combattere queste minacce». Anche la Cina, che ha in casa i ribelli islamici uiguri che cercano l’indipendenza come i ceceni in Russia e i beluchi in Iran, si è unita al fronte dei governi autoritari e antidemocatici contro il cosiddetto “terrorismo” globale. In realtà, per quanto riguarda Iran, Cina e Russia, esso è costituito da fette di popolazioni e gruppi etnici repressi da regimi che si distinguono per negare o restringere la libertà ai propri cittadini. Dalle accuse di Teheran ai governi democratici di Washington e Londra di essere i registi occulti dell’opposizione interna, prima con le manifestazioni di piazza contro i brogli elettorali e ora con le bombe del gruppo sunnita Jondollah, si capisce che il regime punta ad una impossibile condanna parificata dei terrorismi. L’obiettivo è duplice. All’interno scaricare le tensioni sociali e politiche sul nemico estero, usando falsità, classica tattica delle dittature. E sul fronte internazionale guadagnare alleanze tra chi è storicamente in lotta con il potere e con i valori occidentali, segnatamente la Cina e la Russia, nella delicata partita militare-economica delle centrali e degli ordigni atomici. Usa, Francia, Gran Bretagna, Germania sanno che i piani nucleari di Ahmadinejad non sono per dare elettricità nelle campagne, ma per armare i razzi per distruggere Israele. I quattro paesi democratici lo sanno, ma hanno strategie diverse.Obama, dopo aver regalato al buio la sua disponibilità da buonista mondiale a Teheran, ha scoperto che l’Iran teneva da anni in attività un impianto segreto per arricchire l’uranio, e ha fatto la voce grossa, annunciando sanzioni economiche severe se l’Iran non fermava i suoi piani. La fiammata è durata qualche giorno, con gli alleati europei che hanno espresso un certo accordo con Obama, ma solo perchè non costa loro nulla. Tanto a dire no, esplicitamente, ci pensano o Mosca, o Pechino, o entrambi: detentori del potere di veto al consiglio di sicurezza, i due ex colossi rossi si alternano nel dire che «di sanzioni non se ne parla», che la «via per convincere l’Iran è solo quella del dialogo». Gli interessi economico-politici che legano i due a Teheran sono decisivi. Ma il “multilateralista di Chicago” insiste sulla linea del dialogo. L’ultima trovata è di offrire “incentivi” persino al premier del Sudan, criminale condannato per le atrocità in Darfur, sperando che sia un po’ meno genocida. E intanto può misurare nei numeri quanti alleati veri sa tirarsi dietro nel Palazzo di Vetro. Al consiglio dei diritti civili dell'Onu, contro la risoluzione che condanna Israele per aver risposto ai razzi di Hamas, con gli Usa hanno votato solo Ucraina, Ungheria, Olanda, Slovacchia e Italia, mentre 5 stati non hanno votato (tra cui Francia e Gran Bretagna), 11 si sono astenuti (Giappone, Sud Corea e vari altri paesi europei) e 25 hanno votato a favore (su un totale di 47). Gli Usa sono più isolati di prima, altro che riconquistarsi la stima e la leadership di tutti.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Jafari «l’architetto»: un occhio alla piazza l’altro ai piani nucleari "
Alì Jafari
WASHINGTON — Mohammad Alì Jafari non è solo il comandante dei 130 mila Pasdaran. Aziz, come lo chiamano gli amici, sposa le capacità del tecnico con una visione politica che non lascia spazio al dissenso. Una fede nell’ortodossia non nuova. Già nel lontano 1999 Jafari, insieme ad altri 23 generali, aveva minacciato un intervento per fermare i riformisti. Un diktat seguito da un golpe strisciante che ha posto definitivamente i Guardiani al centro del sistema iraniano. Una presa sul Paese poi favorita dalla presidenza Ahmadinejad e dalla nomina di Jafari, nel settembre 2007, alla guida del Corpo. Una scelta mirata. Il generale è considerato un ottimo pianificatore, è pronto alla repressione, porta le stimmate della Rivoluzione. Nato nel 1957 a Yazd, Jafari si è unito ventenne alla rivolta khomeinista e — secondo alcuni — ha partecipato alla presa d’ostaggi nell’ambasciata Usa di Teheran. Sono anni di sangue e di lotta, senza respiro. Viene mandato al fronte per la «Sacra difesa », la guerra contro l’Iraq (1980-88). La biografia ufficiale racconta che «è rimasto ferito più volte» in scontri nel Kurdistan e nel Kuzestan. Durante il conflitto, il futuro generale ha imparato a conciliare pochi mezzi con la grande determinazione di Pasdaran e basiji, la milizia volontaria. Poi ha ripreso gli studi di architettura senza abbandonare la carriera di soldato. Ufficiale dei Pasdaran, è stato spinto in alto da sponsor convinti del suo fervore rivoluzionario. Ha diretto i reparti a difesa della capitale e assunto la guida del dipartimento ricerche. Ha subito chiarito che Pasdaran e basiji «non devono limitarsi alla dimensione militare» ma hanno un ruolo politico mirato a contrastare le sfide interne e la «rivoluzione morbida» proposta dai riformisti. Sotto il suo comando, i Guardiani hanno ampliato il ruolo di camicia di ferro del regime, capace di respingere sul piano ideologico e nelle piazze i contestatori. Per questo ha lavorato molto per integrare i basiji con i Pasdaran. Non meno interessanti i risvolti sul campo. Sono i Guardiani ad avere la supervisione sui programmi nucleari e missilistici e a vigilare sul Golfo. Sono state create 31 unità regionali per controllare meglio il territorio, ed è stato intensificato l’addestramento per la guerra asimmetrica: per Jafari i Pasdaran devono battersi come gli Hezbollah libanesi. Quindi azioni di guerriglia, sabotaggi, attacchi a sorpresa, attività clandestine usando buon materiale. Ai Guardiani non mancano certo i fondi. Oltre ai soldi del budget, possono usare le risorse prodotte da più di 100 grandi imprese che si occupano dal petrolio alla telefonia. Dunque, quando Jafari lancia minacce di vendetta, è meglio prendere nota.
Il FOGLIO - Carlo Panella : " Strano attentato"
Carlo Panella
Roma. Nulla regge, e tantomeno convince, nella versione ufficiale dell’attentato che ha decapitato in Baluchistan il vertice dei pasdaran, uccidendo il vicecomandante delle forze di terra, Nurali Shushtari, e l’intero apparato delle Guardie rivoluzionarie nella regione. I fattori sospetti sono: prima di tutto il fatto che sia stato possibile, in una zona ad altissimo rischio terroristico, spostare agevolmente l’immensa carica di esplosivo necessaria a fare una cinquantina di morti senza che il servizio di sicurezza dei pasdaran lo impedisse. In secondo luogo, il fatto che tra le vittime eccellenti vi siano soltanto generali, e nemmeno un’alta carica politica, anche locale. In terzo luogo il contesto: il Baluchistan – una regione compresa tra Afghanistan, Pakistan e Iran – è considerata la “Colombia” d’Asia, vi passa un immenso traffico di droga (i tossicodipendenti da oppio sono in Iran, ufficialmente, due milioni, in realtà più del doppio, forse il triplo) e necessitano di quintali di oppio al giorno che penetrano nel paese soltanto dall’Afghanistan. Questo traffico è canalizzato proprio da settori di pasdaran il cui “cartello” (che finanzia le attività rivoluzionarie, non le loro tasche) è contrastato da altri pasdaran. Jundallah, il gruppo terrorista che ha rivendicato l’attentato, è perfettamente inserito in questo quadro, con una logica non dissimile a quella dei “mescaleros” boliviani, e i pure certi appoggi che arrivano dal Pakistan non sono certo superiori a quelli che – in un groviglio inestricabile di mujaheddin e trafficanti di droga, la cui filiera inizia con molti capi talebani afghani – riceve da settori dei pasdaran stessi. L’opacità di Jundallah è tale che appare del tutto possibile la tesi espressa dal generale Mohsen Sazegara, fondatore dei pasdaran oggi in esilio negli Stati Uniti, che indica il complotto interno come causa dell’attentato di domenica: “E’ possibile che sia collegato a un nuovo conflitto all’interno dei pasdaran piuttosto che a una nuova capacità di Jundallah”. Infine, ma non per ultimo, è necessario ricordare le tempeste che hanno coinvolto negli ultimi mesi il blocco militar-rivoluzionario iraniano, di cui le Guardie rivoluzionarie costituiscono l’apice e di cui il presidente, Mahmoud Ahmadinejad, costituisce lo speaker. La moria di pasdaran e soprattutto dei loro generali è sempre stata consistente, a partire dai 273 miliziani morti in un incidente aereo il 19 febbraio 2003, mentre tornavano a Teheran, appunto, dalla frontiera afghana; per continuare col generale Ahmad Kazemi e il suo stato maggiore morto il 9 gennaio 2006 su un elicottero in Kurdistan; con i tre generali Ghahari, Shohada, e Dorosti morti sempre in elicottero in Kurdistan e per finire, con i 35 pasdaran morti nell’aeroporto di Teheran il 27 novembre 2006. Ma oggi, l’uccisione del generale Nurali Shushtari a Sarbaz si colloca anche in un altro contesto, ancora più scottante, e non sono pochi gli indizi che permettono di ipotizzare una specie di “notte dei lunghi coltelli” interna al vertice iraniano. A quanto risulta Shushtari faceva parte della componente riformista dei pasdaran, quella stessa che aveva espresso la candidatura presidenziale di Mohsen Rezai, ex comandante in capo dei pasdaran, e che aveva spinto il generale Sahid Qasemi a inviare, assieme ad alti ufficiali dei pasdaran, il 23 giugno scorso una lettera al sito dell’opposizione Peiknet in cui i firmatari sostenevano che “la linea di condotta del governo nei confronti dei manifestanti negli ultimi giorni è molto distante dagli ideali dell’imam Khomeini”. Subito dopo circa dieci dei firmatari – tutti generali o alti ufficiali pasdaran e bassiji – sarebbero stati arrestati. Infine, il terremoto ai vertici: due settimane fa, il 5 ottobre, la Guida Suprema, Ali Khamenei, ha deciso l’improvvisa destituzione del comandante dei bassiji, Hossein Taeb, sostituito con Reza Naghdi, in prima fila nella repressione delle manifestazioni dell’“onda verde”. L’unica cosa evidente è che la Cia e i servizi britannici, chiamati in causa da Ahmadinejad e da Ali Larijani, presidente del Majlis, il Parlamento, pur infiltrando Jundallah dal Pakistan, non avevano alcun interesse politico a questo attentato. Nonostante l’abituale irrazionalità di azione dei servizi americani, è paradossale che questi abbiano potuto aiutare, o favorire una iniziativa terroristica così devastante, proprio alla vigilia di quei colloqui sul nucleare iraniano di Ginevra, cui Barack Obama ha legato tanta della sua credibilità internazionale, eccitando una reazione negativa e addirittura minacce militari dirette a Stati Uniti e Inghilterra da parte di Ahmadinejad e dei vertici iraniani.
La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " Iran, la strana coincidenza "
Vittorio Emanuele Parsi
Più che la chiamata di correo nei confronti di Gran Bretagna e Usa per gli attentati nel Beluchistan, ciò che preoccupa è un’accusa. Preoccupa maggiormente l’accusa rivolta ai Servizi di Intelligence pachistani (Isi) di essere i veri e propri mandanti della strage, corredata dalla minaccia iraniana di «condurre operazioni ovunque si dimostrassero necessarie», compreso il «territorio pachistano». La preoccupazione risiede nel fatto che, al di là della capacità iraniana di provarle, le accuse non risultano totalmente inverosimili. Non può sfuggire come tra i «complici» indicati da Teheran non compaia Israele (che il regime definisce “amabilmente" il Piccolo Satana, per distinguerlo dal Grande Satana americano), quasi ad attestare lo sforzo da parte iraniana di avvalorare la verosimiglianza delle insinuazioni sollevate nei confronti di Islamabad. Che il potentissimo Isi, da anni, stia conducendo una propria politica estera, al di fuori del controllo delle stesse autorità pachistane, è d’altronde ben più di un sospetto. Le stesse critiche condizioni in cui versa il Waziristan, dove solo dopo essere stato apertamente sfidato e umiliato dai talebani locali, l’esercito sembra aver deciso di provare (almeno in apparenza) a chiudere la partita, attesta di una connivenza tra intelligence pachistana e forze estremiste in cui non si riesce nemmeno più a capire «chi è il pupo e chi è il puparo». Per i vertici dell’Isi, che hanno foraggiato prima i talebani e poi il loro regime anche in chiave anti-iraniana, qualunque coinvolgimento dell’Iran in un’intesa sulla sicurezza regionale che avesse il nulla osta americano significherebbe la vanificazione di decenni di sforzi. La strategia perseguita e attuata dall’Isi si era fin qui tradotta in un gioco estremamente rischioso: da un lato partecipare, svogliatamente, alla lotta contro i talebani in Afghanistan; dall’altro mantenere i contatti con la galassia che si riconosce nel Mullah Omar, per lasciar intendere di essere gli unici a poter intraprendere i passi esplorativi preliminari necessari per la cosiddetta «soluzione politica» del puzzle afgano. Ora, il rischio di un ballottaggio e quello della ricerca di una possibile soluzione della questione nucleare iraniana, che preveda un accordo complessivo sulla sicurezza regionale con l’Iran in veste di comprimario, sembrano sommarsi e mandare a monte l’intero disegno. Come che sia, quella tra il probabile annuncio del ballottaggio afgano e l’attentato nel Beluchistan iraniano sembra essere qualcosa di più di una straordinaria coincidenza temporale. Il fatto è che, come molti altri, i servizi pachistani sembrano non credere che la comunità internazionale voglia e possa davvero bloccare la corsa nucleare di Teheran, per cui sabotare qualunque ipotesi di riavvicinamento tra Usa e Iran resta la sola ipotesi realisticamente, e pericolosamente, percorribile.
La REPUBBLICA - Arturo Zampaglione : " E' troppo tardi per negoziare. Gli ayatollah vogliono la bomba "
Zampaglione presenta Daniel Pipes come falco guerrafondaio, cosa che non è. Ha, invece, il pregio di analizzare razionalmente la situazione iraniana. Ma è evidente dalla descrizione che precede la sua intevista, che Zampaglione non ne condivide le opinioni. Nella stessa pagina di Repubblica, la cronaca non firmata è titolata " L'Iran minaccia, ma tratta sul nucleare ". Leggendo tutti gli altri articoli, sugli altri quotidiani, risulta evidente che l'Iran non ha intenzione di negoziare sul nucleare, che non accetterà uranio arricchito dalla Francia e che se non rimarrà soddisfatto dell'incontro, arricchirà ancora più uranio. Il titolo di Repubblica è fuorviante per il lettore. Ecco l'intervista:
Daniel Pipes
NEW YORK - A dispetto del «cauto ottimismo» di Mohamed El Baradei sui nuovi colloqui con l´Iran, Daniel Pipes resta convinto che non sia più tempo di negoziati, minacce o sanzioni. «Forse una combinazione del genere avrebbe avuto qualche risultato nel passato se fosse stata condotta con decisione», spiega il direttore del Middle East forum e personaggio di punta dei neocons americani. «Ma ora è troppo tardi: la leadership iraniana punta ad avere armi nucleari e non c´è nulla che potrà fermarla se non un´azione di forza dall´esterno». Anche Pipes, dunque, a favore di un attacco alle centrali nucleari iraniane? Non c´è da stupirsi: sessanta anni, docente universitario, autore di 18 libri, è sempre stato un vero "falco". Certo da quando George W. Bush ha lasciato la Casa Bianca, Pipes e gli altri neocons si trovano più isolati, non hanno più lo stesso peso nei processi decisionali, né la stessa audience televisiva. Eppure continuano ad avere un seguito in settori importanti del paese, in particolare nelle forze armate. I colloqui di ieri a Vienna sono stati preceduti dall´attacco kamikaze dei Jundallah. Teheran ha subito accusato Stati Uniti, Gran Bretagna e Pakistan. Come valuta l´episodio? «L´Iran presenta oggi due problematiche-chiave: la prima riguarda le ambizioni nucleari dei vertici; la seconda nasce dalla crescente insoddisfazione all´interno del paese, dovuta alle condizioni economiche e al sistema repressivo: non dimentichiamoci infatti che l´Iran è in pratica un impero». Il generale Mohammad Ali Jafari, capo delle guardie rivoluzionarie, ha promesso di «schiacciare» i responsabili dell´attentato e ha accusato l´intelligence straniera di complicità. «E´ una risposta da manuale: non ho dubbi sulla crudeltà della repressione che seguirà, ma mi paiono fuorvianti gli attacchi ai britannici e agli americani. Non credo neanche che Teheran vorrà alzare la voce con il Pakistan: ha già tanti nemici, non ne ha bisogno di uno in più. La realtà è che, come abbiamo visto dopo le elezioni, il popolo iraniano è sempre più insofferente». Torniamo al nucleare e alle ipotetiche azioni di forza. Chi prenderebbe l´iniziativa? Non penso che lei si faccia illusioni sulla Casa Bianca di Barack Obama. E per gli israeliani non sarebbe semplice come lo fu nel 1981 contro il reattore di Saddam: adesso i suoi bombardieri avrebbero bisogno di attraversare l´Iraq e quindi di ricevere il nullaosta americano per quello spazio aereo controllato dal Pentagono. «Non conosco i piani predisposti dal capo di stato maggiore israeliano: mi stupisce però che non si presti abbastanza attenzione all´ipotesi di un attacco missilistico lanciato dai sottomarini israeliani. Al di la di questi aspetti operativi, il vero nodo è capire se il negoziato diplomatico sia utile oppure se - come io sono convinto - sia solo una perdita di tempo visto che Teheran capisce solo il linguaggio della forza».
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