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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Corriere della Sera - La Stampa - L'Unità Rassegna Stampa
19.10.2009 Grane in Iran per Ahmadinejad
Cronache, analisi e interviste di Maurizio Molinari, Cecilia Zecchinelli, Viviana Mazza, Umberto De Giovannangeli

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - L'Unità
Autore: Cecilia Zecchinelli - Maurizio Molinari - Viviana Mazza - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Uccisi due generali dei Pasdaran Gli iraniani accusano l’Occidente - Forse un complotto contro gli ufficiali meno intransigenti - Guerriglieri arabi e spie occidentali - Settarismo e povertà, un cocktail esplosivo - Il regime inasprirà la repressione ve»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/10/2009, a pag. 2, la cronaca di Cecilia Zecchinelli dal titolo " Uccisi due generali dei Pasdaran Gli iraniani accusano l’Occidente  ", a pag. 3, l'intervista di Viviana Mazza a Mohsen Sazegara, fondatore dei pasdaran, dal titolo " Forse un complotto contro gli ufficiali meno intransigenti ". Dalla STAMPA, a pag. 3, l'analisi di Maurizio Molinari dal titolo " Guerriglieri arabi e spie occidentali " e la sua intervista a Juan Cole dal titolo " Settarismo e povertà, un cocktail esplosivo  ". Dall'UNITA', a pag. 27, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Pietro Marcenaro dal titolo " Il regime inasprirà la repressione verso l’opposizione ". Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Uccisi due generali dei Pasdaran Gli iraniani accusano l’Occidente  "

 Pasdaran

Una sfida aperta ai sempre più potenti Pasdaran, l’esercito creato da Khomeini nel 1979 per difendere la Rivoluzione. O forse solo un attacco al potere centrale sciita della Repubblica Islamica oggi impersonato ap­punto, sempre più, dai Guardia­ni della Rivoluzione. O magari un regolamento di conti inter­no a questi ultimi. Comunque sia, uno dei più audaci e morta­li attentati avvenuti in Iran: 49 morti tra cui almeno sei coman­danti dei Pasdaran. Ucciso il ge­nerale Nurali Shushstari, co­mandante vicario delle forze di terra e tra i leader delle truppe d’élite; decapitato l’intero verti­ce dei Guardiani del Sistan-Be­lucistan, a partire dal capo. Tra le vittime alcuni capi tribali e molti altri civili; almeno una trentina i feriti.
L’attacco suicida è avvenuto ieri mattina nella cittadina sper­duta di Sarbaz, a pochi chilome­tri dal confine pachistano, du­rante una visita dei Pasdaran— che da aprile hanno assunto il controllo militare della provin­cia — ad alcuni capi tribali im­pegnati in una conferenza. Il Si­stan- Belucistan, sunnita come il Khuzestan all’Ovest, è una del­le regioni più turbolente del­l’Iran. Provincia poverissima, dal clima infernale, divisa solo sulla carta dal Pakistan e dall’Af­ghanistan da cui arrivano valan­ghe di armi e gran parte dell’op­pio consumato nel mondo. Dal 1979 Teheran vi ha perso oltre 3 mila uomini, morti nel combat­tere le potenti mafie della droga locali. Negli ultimi sei anni si è aggiunta la guerra con il grup­po terrorista indipendentista Jundallah che ieri — secondo i media iraniani — ha rivendica­to l’azione kamikaze.
Sono un iraniano e amo l’Iran, voglio solo più diritti per i sunniti, discriminati, e i belu­ci, dimenticati e impoveriti», sostiene da tempo Abdolmalek Rigi, il leader di Jundallah, più volte dato per morto. Ma lo scorso maggio il gruppo ha ri­vendicato un attacco a una mo­schea sciita (25 morti); nel 2007 aveva ucciso in uno scon­tro a fuoco 11 Pasdaran. E, sep­pur manchino prove, molti ac­cusano Rigi e i suoi 2 mila uo­mini di alleanze con i talebani e Al Qaeda. Che sarebbero dietro all’attentato di ieri insieme — sostiene Teheran — ad altri «elementi stranie­ri » da cercare in Occi­dente.
«Criminali, terroristi, — ha dichiarato il presidente Mah­mud Ahmadinejad, vicinissimo ai Pasdaran dai cui ranghi per altro proviene — i colpevoli avranno presto la nostra rispo­sta ». Dai Guardiani della Rivolu­zione è arrivata la promessa di «vendetta», unita all’accusa contro gli «oppressori mondia­li », ovvero Usa e Gran Breta­gna, di aver orchestra­to l’attacco. Dal presi­dente del Parlamento Ali Larijani una denuncia più esplicita: «Consideriamo le re­centi azioni terroristiche un ri­sultato delle mosse america­ne ». Affermazione subito smen­tita da Washington e particolar­mente pesante, alla viglia del­l’incontro sul nucleare che si terrà oggi a Vienna tra i negozia­tori dell’Iran e quelli dei Paesi del Consiglio di Sicurezza più la Germania. Ma non è finita: in un secon­do momento Ahmadinejad ha aggiunto un altro imputato, l’ar­cinemico Pakistan, il cui incari­cato d’affari a Teheran veniva in­tanto convocato dal ministro de­gli Esteri. «Siamo stati informa­ti che alcuni agenti pachistani hanno cooperato con i responsa­bili dell’attentato, chiediamo a Islamabad che questi elementi ci vengano consegnati», ha di­chiarato il presidente citato dal­l’agenzia Fars secondo cui i pa­chistani avrebbero assicurato «ampia collaborazione».
Nessun arresto in Beluci­stan, almeno fino a ieri notte. Ma la «risposta» e la «vendet­ta » promesse ieri da Ahmadi­nejad e alleati fanno prevedere che i Pasdaran non staranno a guardare. Un ulteriore timore, condiviso da molti anche in Iran, è che quanto avvenuto ie­ri renda ancora più dura la re­pressione già in atto in tutto il
Paese.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Guerriglieri arabi e spie occidentali "

 Abdel Malek Rigi

Esplosioni, agguati, sequestri e una raffica di misteriosi disastri aerei. Da almeno quattro anni gli apparati di sicurezza della Repubblica Islamica sono bersagliati da attacchi e incidenti.
Una strategia che due reporter investigativi, l’americano Seymour Hersh e l’israeliano Ronen Bergman, riconducono a una guerra segreta che i servizi occidentali avrebbero iniziato per indebolire i pilastri militari che sorreggono il potere dell’ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema della rivoluzione.
Ciò che accomuna la tesi di Hersh, il primo a parlare delle «Black Operations», e quella di Bergman, autore del libro «The Secret War with Iran», è il punto di partenza: la decisione del Congresso di Washington di rendere pubblica nel 2008 una spesa di 400 milioni di dollari a sostegno delle operazioni clandestine in Iran, da condurre in solitudine o con gli alleati. Avvenne nell’ultima fase dell’amministrazione Bush ma la Casa Bianca di Barack Obama non ha finora chiesto a Capitol Hill di bloccare quei fondi. Trattandosi di operazioni clandestine non vi sono fonti disposte, pur coperte dall’anonimato, a parlarne. E’ tuttavia possibile, seguendo i tracciati di Hersh e Bergman, ricostruire quella che assomiglia ad una morsa di attività aggressive, i cui protagonisti sono numerosi perché ciò che conta per i servizi occidentali è aiutare chiunque possa indebolire il potere di Khamenei.
Fra i protagonisti di questa guerra clandestina il più loquace è senza dubbio Abd Al-Malek Rigi, l’emiro del Beluchistan alla guida del «Movimento di resistenza popolare in Iran» meglio noto come Jundallah, che in un’intervista ad Al Arabiya nel 2008 si è definito leader di un "movimento islamico simile ai taleban e Al Qaeda" ed è riuscito a mettere a segno i colpi più duri contro Teheran. Sono stati infatti i suoi mujaheddin nel 2005 ad attaccare la carovana d’auto sulla quale si trovava il presidente Mahmud Ahmadinejad, nel 2007 ad uccidere 18 pasdaran in un agguato a Zahedan, nel 2008 a sequestrare 16 agenti, in giugno ad assaltare una moschea a Zehdan e ieri a firmare l’attacco di Pishin in cui sono morti diversi comandanti pasdaran.
La capacità militare di Jundallah viene attribuita ai legami con i taleban afghani, con cui condivide i proventi del traffico della droga e dai quali riceverebbero armi ed esplosivi seguendo uno schema di collaborazione militare simile a quello che, nel nord-ovest dell’Iran, unisce i guerriglieri curdi del Pjak ai pashmerga iracheni ed ai turchi del Pkk. Ma se Jundallah mette a segno attentati, il Pjak è capace di vere e proprie operazioni belliche come l’abbattimento di elicotteri e, nello scorso aprile, l’assalto in forze ad una stazione di polizia nel Kermanshah.
Il terzo fronte di guerriglia è nel sud-ovest, dove a ridosso del confine iracheno operano diversi gruppi per «la liberazione dell’Ahwaz» che nel 2005 hanno rivendicato gli attentati dinamitardi con cui è iniziata la «intifada» arabo-sunnita mirata a staccare la provincia del Khuzestan dall’Iran. Per Bergman queste guerriglie sarebbero una sorta di «guerra per procura», guidata da unità di élite inglesi ed americane posizionate in Iraq e Afghanistan. Il sospetto però è che anche Parigi sia divenuta parte delle «Black Operations», potendo disporre da maggio di proprie basi ad Abu Dhabi - una aerea e una navale - da dove far operare le truppe speciali.
D’altra parte il metodo di ricorrere ai commando per sostenere guerriglie interne fu inaugurato con successo dal Pentagono nell’autunno 2001, rovesciando il regime dei taleban a Kabul.
Un tassello a parte delle «Black Operations» è quello degli incidenti aerei che dal 2002 bersagliano scienziati, militari e pasdaran, in maniera talmente misteriosa da suggerire una matrice israeliana. Si tratta di oltre una dozzina di incidenti, la cui sequenza è impressionante: nel 2002 cade un Antonov uccidendo 46 scienziati aerospaziali russi e ucraini, nel 2003 è la volta di un Ilyushin con 276 pasdaran, nel 2005 un C-130 militare si schianta a Teheran, nel 2006 tocca ad un velivolo dei pasdaran 11 alti ufficiali, nel 2008 è la volta di un Boeing kirghizo affittato da Teheran e lo scorso luglio di un Tupolev in viaggio verso Erevan, a bordo del quale vi sarebbero stati 9 scienziati nucleari iraniani e 3 russi. La guerra continua.

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " Forse un complotto contro gli ufficiali meno intransigenti "

 Mohsen Sazegara

«Puzza di bruciato». C’è qualcosa che non torna nell’atten­tato di ieri in Iran, dice Mohsen Sazegara. Il 1˚ febbraio 1979, Sazegara tornò a Teheran con l’ayatollah Khomeini e per lui fondò i Pasdaran (o Guardiani della Rivoluzione). Oggi, dis­sidente a Washington, resta un attento osservatore delle atti­vità del potente corpo militare d’élite. Sazegara non è convin­to che il gruppo sunnita Jundallah sia tanto forte da sferrare da solo un attacco micidiale contro alcuni dei più alti coman­danti dei Guardiani della Rivoluzione.
Cosa c’è dietro quest’attacco?
«E’ molto strano. C’erano così tanti comandanti di alto rango. E’ possibile che sia legato a un conflitto all’interno dei Pasdaran piuttosto che a una nuova capacità di Jundallah».
Crede cioè che qualcuno nei Pasdaran abbia aiutato Jun­dallah?
«E’ possibile che ci sia qualcosa sotto: informatori, una cospirazione. Anche se non ne ho la conferma».
Su cosa sono fondati questi sospetti?
«Mohsen Rezai è stato comandante in capo dei Guardiani della Rivoluzione (e poi rivale di Ahmadinejad nelle ultime elezioni
ndr ). Nei giorni scorsi il suo sito web diceva che al­cuni generali, membri dei Guardiani sin dai tempi della guer­ra Iran-Iraq, non sono d’accordo con i comandanti più in­transigenti come Hossein Tayeb, che dopo le elezioni ha re­presso le proteste popola­ri. E dopo che Rezai dice questo, il generale Shu­shtari, vicario delle forze di terra, viene ucciso. Sen­to puzza di bruciato... E non ricordo operazioni in cui siano stati assassinati comandanti di così alto rango».
Shushtari era più mo­derato?
«Ho letto che era tra i comandanti ai quali non piacciono le nuove attività dei Guar­diani della Rivoluzione».
Che nuove attività svolgono i Pasdaran in quella zona?

«Hanno da sempre basi in ogni città in Iran. E la forza Qo­ds (della quale Shushtari era pure un comandante,
ndr ), che svolge le operazioni all’estero, ha basi nelle province del Kur­distan e Belucistan, per le sue attività in Iraq, Afghanistan e Pakistan. Negli ultimi mesi, però, il ruolo dei Pasdaran nella sicurezza è aumentato. Non solo in quella zona. Il loro repar­to d’intelligence sta diventando il ministero d’Intelligence dell’Iran. Tayeb (ex vice-capo dei basiji nella repressione del­le proteste contro Ahmadinejad, ndr ) è ora il vice-capo del­l’intelligence dei Guardiani. Il nuovo ministro dell’intelligen­ce, Muslehi, è visto come un loro burattino. Per quello che ne so, manderanno via 6 mila persone, il 20% dello staff, dal ministero. Tutto è nelle mani dei Guardiani, incluse le opera­zioni contro i terroristi. Nelle zone di confine, hanno assun­to anche i compiti della polizia contro il traffico di droga e di persone: il nuovo comandante della polizia, Ahmadi Mo­ghaddam, ha un passato di Pasdaran. Due settimane fa han­no preso il controllo della compagnia delle telecomunicazio­ni nazionale. Ma ad alcuni comandanti tutto questo non pia­ce. Credono che i Pasdaran dovrebbero proteggere l’Iran da attacchi nemici, non uccidere la gente in strada, e che la poli­tica, i soldi e la corruzione rovineranno l’istituzione».
La tv di Stato ha detto che Shushtari era nel distretto di Pishin come mediatore in un incontro tra sunniti e sciiti.
«Non so che cosa facessero lì, ma non sono certo che si tratti di questo, perché la maggioranza in quella zona è sun­nita, i gruppi sciiti si trovano nel Nord della provincia».

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Settarismo e povertà, un cocktail esplosivo "

 Juan Cole

«Sono le minoranze che sommano differenze religiose e linguistiche a porre un serio grattacapo alla Repubblica Islamica». Parola di Juan Cole, l’islamista dell’Università del Michigan considerato fra i migliori conoscitori dell’Iran, autore del saggio «Engaging the Muslim World» cui spesso si richiama il presidente Obama.
Le minoranze in Iran che rapporto hanno con il regime?
«Ci sono due tipi di minoranze: linguistiche e religiose. Non hanno tutte lo stesso rapporto con il regime. A comporre quelle linguistiche è il terzo di cittadini iraniani che parla idiomi di origine turca, dai turkmeni agli azeri, che sono molto numerosi. Ma gli azeri sono sciiti, a loro appartiene anche il Leader Supremo Ali Khamenei, e non sono separatisti. Quando l’identità turcofona si unisce alla fede sciita, l’identificazione con la Repubblica Islamica resta forte».
Dove sta allora il problema?
«Nelle minoranze linguistiche che sono anche religiose, ovvero di fede sunnita».
Di quali gruppi si tratta?
«I turkmeni sono circa due milioni, i beluchi 800 mila, poi ci sono gli arabi nel Kuzhenstan e i curdi nel Kurdistan. Si arriva a circa il 10 per cento della popolazione. Ciò che accomuna queste minoranze linguistico-religiose è il fatto di risiedere nelle regioni a ridosso dei confini: territori difficili da raggiungere e più poveri dell’altopiano centrale, abitato dalla maggioranza persiana sciita, di gran lunga più ricca».
Sono dunque le minoranze sunnite a prendere le armi?
«Sì, avviene in più località. In Kurdistan esiste un partito separatista, il Pjak, legato al Pkk curdo, che punta a strappare a Teheran una larga autonomia, simile a quella che hanno i curdi in Iraq. Il Pjak è un’organizzazione paramilitare, combatte e lancia attacchi. Nel Kuzhenstan i separatisti sono guerriglieri arabi, che hanno messo a segno diversi attentati...».
E in Beluchistan, com’è la situazione?
«Al separatismo locale e alla fede sunnita bisogna aggiungere il detonatore della povertà. E la provincia iraniana con il reddito più basso, dove l’amministrazione centrale è poco presente e di conseguenza l’insoddisfazione monta. Non è un caso che proprio qui siano avvenuti gli attacchi più sanguinosi».
Che approccio ha il governo iraniano con le minoranze nazionali?
«E’ un regime di ispirazione rivoluzionaria, non considera troppo le minoranze. L’ideologia che lo ispira è quella del pan-sciismo».
Da un punto di vista storico, invece, che rapporto ha avuto la maggioranza persiana con le minoranze etniche?
«Dipende dal tipo di governo che esprimono gli sciiti. Lo scià, Rezha Pahlavi, era un laico e dunque dava molto spazio alle minoranze. Fra le accuse che l’ayatollah Khomeini lanciò contro lo scià c’era proprio quella di difendere troppo le minoranze, a scapito della maggioranza sciita. La rivoluzione islamica cancellò l’approccio che lo scià aveva avuto».
Lei crede che le minoranze possano destabilizzare la Repubblica islamica come avvenne nel caso dell’Unione Sovietica?
«Non credo che potranno avere lo stesso impatto, per due motivi convergenti. Primo: è una questione di numeri, rappresentando solo il 10 per cento di una popolazione di oltre 70 milioni di anime non sono in grado di mettere in difficoltà i persiani sciiti. Secondo: essendo molto più poveri dell’altopiano centrale non possono causare seri problemi economici. I focolai separatisti sono un serio grattacapo per il regime. La minaccia vera arriva dai persiani-sciiti. Come hanno dimostrato i disordini di piazza dopo le recenti elezioni presidenziali».

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Il regime inasprirà la repressione verso l’opposizione "

Pietro Marcenaro

Con l’Iran non c’è solo il nucleare da discutere. La premio Nobel per la pace Shirin Ebadi ha dettounacosa molto importante: che la democratizzazione dell’Iran non ha solo un valore per i cittadini iraniani,masarebbe anche la maggiore garanzia per le prospettive della sicurezza e della pace». A sostenerlo è Pietro Marcenaro, presidente della Commissione straordinaria Diritti Umani del Senato. «La democratizzazione dell’Iran è possibile - rimarca Marcenaro - perché è matura nella società iraniana. C’è bisogno di unsostegno esplicito all’opposizione che fino ad oggi è mancato sia da parte del governo italiano, sia dell’Europa ed anche dell’amministrazione Obama». Nel sud dell’Iran un attentato suicida haprovocatodecine di vittime, tra cui sei alti ufficiali dei Pasdaran, il braccio armatodelpotereiraniano.Comeleggere questo fatto? «Innanzitutto l’orrore di fronte a un terrorismo che ignora il valore della vita umana. Un terrorismo stragista che non può avere alcuna giustificazione. La seconda considerazione riguarda le conseguenze cheunattentato del genere avranno sul piano politico, rendendo più difficile all’opposizione democratica e pacifica che si è sviluppata in Iran in questi mesi di poter continuare ad agire. Unregime che aveva già scelto la strada della repressione, troverà in questo sanguinoso attentato ragioni e giustificazioni per inasprire ancora di più la propria azione, magari accusando l’opposizione di essere parte di un complotto internazionale orchestrato da Stati Uniti e Gran Bretagna». Le notizie che giungono dall’Iran segnalano una repressione inarrestabile e nuove condanne a morte comminate ed eseguite. Cosa indica questa realtà? «Indica tre cose: un potere - quello dell’asse Maidenhead-Kamenny - che pensa di essere in grado di regolare i conti con l’opposizione e per questo fa fare un salto di qualità ad una repressione che non si è mai fermata, con torture, esecuzioni capitali, violazioni sistematiche della legalità. A questa pratica brutale fa da contraltare il coraggio dei leader dell’opposizione - Mousavi, Karoubi e Khatami -, gente che rischia la vita e che dimostra una coerenza e una determinazione che meriterebbero il rispetto e il sostegno del mondo democratico. La terza cosa, forse la più importante da sottolineare è che nonostante un controllo totale sugli apparati dello Stato, il governo iraniano dimostra di non riuscire ad ottenere un consenso sociale. Il problema rimane aperto proprio perché è la società iraniana che non accetta questa situazione, Quello che avviene in Iran non può essere ridotto ad uno scontro tra palazzi del potere, tra nomenklature. La novità è la società civile che si organizza, che rivendica spazi di libertà, che pratica la non violenza. Questa situazione chiede all’Occidente una prova di coraggio, di lungimiranza. Ci chiede cosa intendiamo fare per sostenere quella battaglia di libertà e democrazia». Cosa fare al dunque? «Con l’Iran non c’è solo il nucleare da discutere. Nei giorni scorsi Shirin Ebadi ha detto una cosa molto importante: che la democratizzazione dell’Iran nonha soloun valore per i cittadini iraniani,masarebbe anche la maggiore garanzia per le prospettive della sicurezza e della pace. E la democratizzazione dell’Iran è possibile perché è matura nella società iraniana e anche nelle dinamiche che attraversano gli stessi gruppi dirigenti, come i fatti di questi mesi dimostrano. La prima cosa da fare è agire in tutti i modi e in tutte le sedi deputate per fermare le condanne a morte e più in generale la repressione che colpisce, da un lato, gli esponenti dell’opposizione, e dall’altro le università, gli studenti, la società civile. E poi c’è bisogno di un sostegno esplicito all’opposizione. Fino ad oggi questo sostegno non c’è stato né da parte del governo italiano, né dell’Europa, e neppure dalla nuova Amministrazione Usa». L’Iran è una potenza militare ed ancheeconomica. Eciò valeancheper la Cina e la Russia. Viene qui al pettine in nodo cruciale, che riguarda il rapporto, nella politica estera dell’Italiaedell’Europa, trarealismo politico e difesa dei diritti umani. «Oggi l’ago della bilancia è tutto spostato verso la realpolitik. Bisogna modificare questo equilibrio. Equesto nonpotrà avvenire dall’alto. Occorre essere consapevoli che la forza che può ottenere questo risultato è una opinione pubblica informata e attiva, che sui temi delle libertà e dei diritti scenda in campo come è stata capace di fare in passato sulle grandi questioni della pace. Globalizzare i diritti e non solo i mercati: è questa la grande sfida che siamo chiamati ad affrontare ».

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