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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Giornale-Corriere della Sera-La Stampa Rassegna Stampa
11.10.2009 Un trattato e una firma non cancellano il genocidio armeno
Cronaca e commenti di Marta Allevato, Antonio Ferrari, Flavia Amabile, Antonia Arslan

Testata:Il Giornale-Corriere della Sera-La Stampa
Autore: Marta Allevato, Antonio Ferrari, Flavia Amabile
Titolo: «Ma questa firma non cancella le nostre ferite»
Un trattato di pace e una firma, tra Armenia e Turchia, ma la storia non si cancella. Riprendiamo dal GIORNALE di oggi, 11/10/2009, a pag.13, la cronaca di Marta Allevato. Dal CORRIERE della SERA il coomento di Antonio Ferrari,dalla STAMPA l'intervista di Flavia Amabile alla scrittrice Antonia Arslan.
Il Giornale-Marta Allevato: " Tra Turchia e Armenia è pace dopo l'ultimo litigio"
 
Festa rovinata. Protocollo sconvolto. L'Università di Zurigo, dove ieri era in programma la firma dello storico accordo tra Turchia e Armenia per la normalizzazione dei rapporti bilaterali, sembrava a un tratto una chiesetta di campagna dove illustri ospiti aspettano più del dovuto una sposa titubante. Nell'Aula magna dell'ateneo svizzero c'erano alcuni dei massimi esponenti della diplomazia mondiale, protagonisti più o meno diretti del riavvicinamento tra le due nazioni dopo un secolo di gelo per il genocidio armeno e oltre tre lustri di blocco economico per la guerra in Nagorno Karabach. Il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, il ministro russo degli Esteri Sergej Lavrov, quello francese Bernard Kouchner e l'Alto rappresentante per la politica Estera della Ue Javier Solana. Tutti in attesa del capo del dicastero armeno degli Esteri Edward Nalbandian, che con la controparte turca, Ahmet Davutoglu, doveva siglare i due protocolli per la riapertura delle frontiere e la restaurazione di rapporti diplomatici, annunciati da un mese. Un «intoppo dell'ultimo momento», però, modifica i piani. Nalbandian non gradisce qualcosa nelle dichiarazioni finali. Rimane in albergo. Lo stesso dove la Clinton inganna l'attesa, mentre la delegazione Usa tenta di salvare il salvabile limando un po' qua e un po' là. Dopo «momenti di tensione», il segretario Usa e Nalbandian tornano all'Università. Pace è fatta. La firma arriva con tre ore di ritardo.
Anche se ha comportato solo un posticipo, l'«intoppo» è indice della tensione che circonda il dossier turco-armeno. Molti gli interessi in gioco e forti le opposizioni al disgelo tra la Turchia e l'ex Repubblica sovietica. I protocolli di Zurigo abbattono l'ultima frontiera ancora in piedi della Cortina di ferro, ma soprattutto segnano un passo importante per la pace nel turbolento Caucaso, condizione indispensabile per consolidare il ruolo della regione come corridoio per i rifornimenti energetici diretti in Occidente. A contribuire alla distensione tra i due vicini, gli Usa e la Russia che ha avuto un brusco cambiamento di rotta dopo la mini-guerra con Tbilisi dell'agosto scorso. Il Cremlino ora è più interessato a marginalizzare la Georgia che a mantenere la sua influenza su Erevan; l'Armenia, incastrata nel Caucaso e senza risorse petrolifere, spera di uscire dall'isolamento economico e commerciale che la rende dipendente dalle rimesse e dagli investimenti della diaspora; Ankara, vera vincitrice del riavvicinamento, gioca la carta delle risorse naturali per abbattere le resistenze ed accelerare l'agognata adesione all'Ue.
Ma la partita è ancora aperta. Se in Turchia i nazionalisti sembrano essersi rassegnati alla pace col piccolo vicino, la potente comunità degli armeni all'estero punta i piedi. Discendenti per lo più delle vittime dei massacri del 1915, i nove milioni di armeni sparsi nei cinque continenti continuano a opporsi agli accordi con il governo Erdogan, senza il riconoscimento ufficiale del genocidio. Il fronte del no raccoglie consensi anche nell'opposizione politica in patria. Per essere applicati i protocolli necessitano ora della firma di entrambi i Parlamenti. E il lieto fine non è garantito.
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Corriere della Sera-Antonio Ferrari: " Turchia-Armenia, quando la pace riaccende le passioni "

Che fatica. Quanti brividi nella piovosa Zurigo per la tribolata firma del trattato che normalizza le rela­zioni tra Turchia e Armenia. Dopo due rinvii, la cerimonia è cominciata. Tre ore di ritardo, e il sorriso è tornato sul volto della testimone più importante, il segretario di Stato americano Hillary Clinton. Alla fine, l’accordo è fatto, do­po un compromesso sulle parole e sul­la loro traduzione. Quanti accordi e ri­soluzioni si sono conclusi affidandosi alle suggestioni dell’ambiguità!

No, non è dunque il primo risultato che serve a onorare l’assegnazione del premio Nobel per la pace a Barack Oba­ma. Ma certamente l’impegno del presi­dente, coniugato con gli interesse geo­politici degli Stati Uniti nella regione, ha contribuito a superare anche gli ulti­mi ostacoli, almeno per evitare un falli­mento. Che sarebbe stato esiziale per le due parti e umiliante per gli ospi­ti- sponsor: dalla ministra degli Esteri svizzera Calmy-Rey, instancabile media­trice dell’accordo, alla Clinton, al suo omologo russo Lavrov, al francese Kou­chner, al rappresentante dell’Unione Europea Solana.

Un successo risicato a livello diplo­matico, ma i nodi del pesante conten­zioso non sono stati sciolti. Al contra­rio, le passioni si sono riaccese fra gli oppositori nazionalisti del trattato: a Erevan le manifestazioni di protesta continuano e nel mondo della diaspora armena i contrari alla normalizzazione sono probabilmente la maggioranza. Che pretende, da Ankara, il riconosci­mento del genocidio armeno, avvenuto alla caduta dell’impero ottomano.

Ma anche in Turchia i contrasti sono aspri, perché c’è chi chiede l’immedia­ta soluzione del problema del Nagor­no- Karabach, enclave cristiana nel terri­torio dell’Azerbajan, storico alleato di Ankara. Ma la pace si fa fra nemici, non fra amici, e la buona volontà ha vinto, nonostante le difficoltà. Meglio un ac­cordo fragile o un non accordo? Meglio il primo, non c’è dubbio. Anche perché il coraggio di chi lo ha voluto può diven­tare la spinta per consolidarlo.

La Stampa-Flavia Amabile: " Ma questa firma non cancella le nostre ferite"

 Antonia Arslan

Se qualcuno immagina che la firma dell’accordo tra Armenia e Turchia di ieri sera a Zurigo possa cancellare il primo genocidio del Novecento, il milione e mezzo di morti da parte dei Giovani Turchi, sbaglia. Quest’accordo però può essere anche un’occasione, spiega Antonia Arslan, scrittrice. È suo il romanzo «La masseria delle allodole» portato sul grande schermo dai fratelli Taviani. Ed è suo il seguito «La strada di Smirne», che raccontano le vicende di una famiglia armena dai massacri al loro arrivo in Italia.
L’accordo è giunto soltanto in serata dopo un rinvio, molti ripensamenti e una strenua mediazione statunitense.
«Per giudicare davvero quello che è avvenuto a Zurigo dovremmo conoscere la parte non ufficiale di quest’accordo. Ma è necessario ricordare che chi è andato a firmare si è assunto una responsabilità enorme. Immagino l’angoscia di chi sa di avere su di sé il peso della storia di un popolo. È comprensibile quindi che ci siano state pause o momenti di riflessione».
Quando è stato deciso il rinvio gli armeni di tutto il mondo hanno pensato che l’accordo fosse saltato.
«C’è un tale passato di sangue che penso sia normale che la diffidenza regni sovrana. Per gli armeni questo era un passo storico e quindi la cautela era necessaria. Avranno calibrato ogni parola».
La firma non è un vero via libera ma la parola ora passa ai Parlamenti.
«Questo è molto importante da sottolineare. La firma a Zurigo è stato solo il primo passo e quest’accordo non vuol dire per nulla dimenticare il passato, la memoria deve essere conservata, e lo sarà per sempre da parte degli armeni, anche con la firma sotto quest’accordo che non a tutti piaceva».
Da oggi si apre una fase diversa. Che cosa accadrà?
«I turchi non possono pensare di rinviare ancora a lungo l’esame della storia. D’altra parte sui giornali turchi non si è mai parlato così tanto di armeni come in questi due anni. Io credo che il passaggio in Parlamento vorrà dire aprire per la prima volta in Turchia un dibattito vero sul genocidio. E penso che questo sia un passo avanti».
La Turchia è anche quella che ha condannato tre giorni fa lo scrittore Ohran Pamuk, premio Nobel, per aver ammesso che i suoi connazionali hanno ammazzato un milione di armeni. E ha anche ampliato questa condanna dando la possibilità a qualsiasi cittadino turco di chiedergli i danni.
«Di sicuro si tratta di un siluro che non ha aiutato nella firma dei protocolli a Zurigo. D’altra parte se il governo ha spinto per un accordo è anche vero che esistono altre forze all’interno della Turchia: sono forze conservatrici, con legami fra la magistratura e nell’esercito».
La firma dell’accordo provocherà tensioni in un Paese così diviso?
«Provocherà tensioni, ma permetterà anche la circolazione delle informazioni. Per gli armeni è la fine del grande silenzio che per quasi un secolo ha segnato la loro esistenza. Lo scorso anno in tutte le scuole turche è stato imposto un documentario che rappresentava gli armeni come ladri, assassini, persone di cui non fidarsi. È stato un avvocato turco - non la voce dei tanti armeni che hanno protestato - a ribellarsi e a ottenere il ritiro di questa vergogna. Se da oggi parlerà di armeni, come prevedo, sarà sempre meno possibile che si possano creare situazioni simili in Turchia».
Che cosa cambia davvero dopo questa firma?
«Per gli armeni la riapertura delle frontiere rappresenta un respiro indispensabile e anche per i turchi è un grande vantaggio economico. Non cambiano però i nodi aperti: la questione del Nagorno-Karabakh e il riconoscimento del genocidio»

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