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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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La Stampa - Il Foglio Rassegna Stampa
08.10.2009 Obama non esclude l'opzione militare contro l'Iran e il suo nucleare
Cronache e analisi di Maurizio Molinari, della redazione del Foglio

Testata:La Stampa - Il Foglio
Autore: Maurizio Molinari - La redazione del Foglio
Titolo: «L'America dà la caccia ai nostri scienziati atomici - Più bombe e meno soldi per la democrazia in Iran. E' il realismo, bellezza - Il dialogo frustrato con Teheran - Teheran esporta l’antisemitismo rivoluzionario»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 08/10/2009, a pag. 16, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " L'America dà la caccia ai nostri scienziati atomici ". Dal FOGLIO, in prima pagina l'articolo dal titolo "  Più bombe e meno soldi per la democrazia in Iran. E' il realismo, bellezza", a pag. 3,  l'editoriale dal titolo " Il dialogo frustrato con Teheran " e l'articolo dal titolo " Teheran esporta l’antisemitismo rivoluzionario ". Ecco gli articoli:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " L'America dà la caccia ai nostri scienziati atomici  "

 Shahram Amiri, lo scienziato in fuga

Due scienziati nucleari iraniani scomparsi nel nulla e altri sette morti in un incidente aereo misterioso. A suggerire lo scenario che sia in atto una guerra segreta contro Teheran è il ministro degli Esteri della Repubblica islamica, Manoucher Mottaki, che afferma di avere «prove del coinvolgimento americano» nella scomparsa, lo scorso maggio, di Shahram Amiri, un tecnico nucleare che si era recato in Arabia Saudita per l’annuale pellegrinaggio alla Mecca, da dove non è più tornato. A dare la notizia del rapimento - o forse della fuga - di Amiri è stato il giornale Asharq Al-Awsat, di proprietà saudita ma stampato a Londra, per il quale anche un secondo scienziato, che di cognome fa Ardebili, avrebbe fatto perdere le proprie tracce in circostanze simili. Mottaki ha protestato con Riad, ritenendo i sauditi responsabili della sorte di Amiri e si dice pronto a mostrare «documenti» che avvalorerebbero la pista americana.
A rendere ancora più intricato il giallo ci sarebbe il fatto che, secondo fonti riportate dal giornale israeliano Haaretz, Amiri, ricercatore all’Università Malek Ashtar di Teheran, sarebbe stato molto coinvolto nelle attività dell’impianto nucleare iraniano di Qom, realizzato in segreto negli ultimi anni. I leader di Usa, Gran Bretagna e Francia ne hanno svelato l’esistenza durante il recente summit del G20. Non si tratta dei primi vip iraniani a sparire: nel 2007 fu il viceministro della Difesa, e alto ufficiale delle Guardie Rivoluzionarie, Ali Reza Asgari, a dileguarsi durante una visita in Turchia. Da allora di lui non si è più saputo nulla e il fatto che anche Amiri e Ardebili abbiano subito la stessa sorte lascia aperta ogni ipotesi: il rapimento da parte di servizi americani, europei o israeliani intenzionati a carpire i segreti nucleari di Teheran, l’eliminazione fisica per indebolire il programma iraniano oppure una loro decisione di fuggire, vendendo magari per cifre da capogiro le informazioni classificate di cui dispongono. A confermare che Mottaki aveva avuto sentore che qualcosa di anomalo poteva essere avvenuto a Amiri e Ardebili c’è il fatto che durante la recente sosta a New York per i lavori dell’Assemblea Generale dell’Onu aveva chiesto a Ban Ki moon di «adoperarsi per scoprire la loro sorte».
L’ipotesi che siano in atto operazioni clandestine per indebolire il «know how» nucleare di Teheran è suggerita anche da due recenti episodi. Primo: in luglio un aereo iraniano è esploso per cause ancora da accertare sulla pista di Mashad, provocando la morte di 17 persone, inclusi nove scienziati iraniani e tre russi. Secondo: il 7 settembre il premier israeliano Benjamin Nethanyau, secondo il Sunday Times londinese, si è recato in visita segreta a Mosca per consegnare di persona al presidente Dmitri Medvedev la lista con i nomi degli scienziati russi attivamente coinvolti nella corsa iraniana all’atomica. D’altra parte l’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), in un rapporto segreto trapelato pochi giorni fa sui media americani, aveva affermato che «Teheran dispone delle informazioni per realizzare un’arma nucleare», lasciando intendere che proprio il fattore umano è l’elemento di maggiore forza del programma proibito.
Lo scenario di una caccia segreta ai tecnici iraniani riporta alla mente quanto avvenne fra gli Anni 80-90 nei confronti degli scienziati, iracheni e stranieri, che Saddam Hussein impiegava nello sviluppo di armi di distruzione di massa. Fra i casi più noti vi fu l’ingegnere canadese Geral Vincent Bull, che aveva progettato per Saddam un «super-cannone» capace di lanciare ogive non convenzionali e satelliti a grande distanza, il cui corpo venne trovato senza vita nel suo appartamento di Bruxelles nel marzo 1990, con i sospetti che si indirizzarono verso i servizi segreti israeliani.
Il Pentagono chiede al Congresso fondi straordinari per 88 milioni di dollari al fine di realizzare «con urgenza» la «Massive Ordnance Penetrator», una super-bomba da 15 mila kg capace di distruggere bunker fino a 100 metri sottoterra. Al Pentagono ne servono quattro, e c’è chi suppone che Washington stia preparando i piani per colpire gli impianti dell’Iran.

Il FOGLIO - "  Più bombe e meno soldi per la democrazia in Iran. E' il realismo, bellezza"

Roma. La strategia dell’Amministrazione Obama nei confronti dell’Iran si presta a letture contrastanti. La mano tesa non ha sortito grandi risultati contro il pugno chiuso dei mullah e se la Casa Bianca continua a sostenere la necessità di colloqui diretti, al contempo non fa mistero di spingere sul capitolo sanzioni (importanti funzionari del dipartimento di stato, del Tesoro e del Commercio hanno confermato martedì in un’audizione al Congresso che l’Amministrazione fa sul serio al riguardo). Pur criticando la brutale repressione delle manifestazioni della scorsa estate, Washington si è ben guardata dall’adottare il popolo delle piazze di Teheran, l’Iran Democracy Fund è stato trasformato nel più generico Near East Regional Democracy Fund e parallelamente al cambio di nome sono state tagliate le sovvenzioni destinate alle organizzazioni per i diritti umani in Iran. Di contro l’Abc offre un’altra interpretazione dei disegni obamiani su Teheran, portando le prove che l’Amministrazione si prepara anche all’opzione militare contro le installazioni nucleari dei mullah. La caleidoscopica politica iraniana di Obama riflette considerazioni di scuola realista sulla tenuta del regime e sul suo peso nel medio oriente allargato. Washington sembra rassegnata al fatto che l’Iran prima o poi avrà la bomba – e non sarebbe la fine del mondo scrive Fareed Zakaria su Newsweek – e si prepara a contrastare i mullah atomici con i classici schemi del contenimento e della deterrenza. Per i realisti non è esecrabile parlare con i dirigenti iraniani: gli Stati Uniti devono prepararsi a vivere con il regime così com’è, il che non implica acquiescenza bensì il tentativo di convincere gli ayatollah che cambiare rotta sia la scelta più conveniente. L’operazione di persuasione ha le sue carote e i suoi bastoni. La promozione della democrazia in Iran non è una priorità dell’Amministrazione Obama. I consiglieri del presidente hanno invocato un atteggiamento più soft nei confronti dei leader iraniani convinti che l’approccio dell’Amministrazione Bush abbia avuto l’unico effetto di fare degli attivisti iraniani un comodo bersaglio per il regime. Il presupposto è che gli unici in grado di fare qualcosa sul fronte dei diritti umani siano gli iraniani stessi, ecco perché l’“abbandono di Obama” non stupisce. La prima vittima è stato l’Iran human rights documentation centre (Irhdc) che, grazie al finanziamento del dipartimento di stato, ha fornito nomi, numeri e dati sugli abusi del regime dal 1979 a oggi. L’Irhdc stava entrando nel vivo di un’indagine sulla repressione delle manifestazioni della scorsa estate. “Se mai c’è stato un tempo per ricevere finanziamenti è questo”, dice Rene Redman, il direttore esecutivo del gruppo. Ma per la prima volta dalla fondazione, i previsti 2,7 milioni di dollari per i prossimi due anni non arriveranno e i rubinetti stanno per chiudersi per molte altre organizzazioni. Secondo Michael Rubin dell’American Enterprise Institute, il rifiuto è motivato dalle prove di engagement dell’Amministrazione: “Non vogliono che queste informazioni li ostacolino in questo percorso”. Il dipartimento di stato nega e ribadisce quanto stia a cuore all’Amministrazione la causa dei diritti umani in Iran, ciò nonostante non c’è una parola sul tema nel budget del 2010. Sembrano lontane le battaglie dell’ex segretario di stato, Condoleezza Rice, per stanziare 75 milioni di dollari per la società e la democrazia iraniana. La commessa milionaria L’altro volto della politica di Obama è decisamente più inquietante per i dirigenti iraniani. Secondo Abc, nel 2007 il Pentagono aveva ottenuto dal Congresso 88 milioni di dollari destinati alle campagne in Iraq e in Afghanistan, ma aveva anche investito nello sviluppo di bombe potentissime pensate per distruggere bunker, le massive ordinance penetrator (mop), ordigni poco utili in Iraq e in Afghanistan e adattissimi a colpire le installazioni atomiche di Teheran. Ora, con un documento di 93 pagine definito di “riprogrammazione”, il Pentagono ha chiesto alla commissione Forze armate di Camera e Senato di accelerare un cambio di destinazione di fondi a favore delle mop. Il Pentagono ha pianificato di spendere 19,1 milioni di dollari per procurarsi questi ordigni; 28,3 milioni per portarne avanti “sviluppo e test”; e 21 milioni per accelerarne l’integrazione sui bombardieri invisibili B2. La richiesta è stata sostenuta dal Comando dell’area dell’Oceano Pacifico (che ha responsabilità sulla Corea del nord) e dal Comando centrale (che è responsabile dell’Iran). Venerdì scorso la McDonnell Douglas ha ricevuto un contratto da 51,9 milioni di dollari per fornire “massive penetrator ordinance integration” sui B2.

Il FOGLIO - "  Il dialogo frustrato con Teheran"

Verrà il giorno in cui comprenderemo che le dichiarazioni sui negoziati atomici con l’Iran sono spesso come le dichiarazioni rilasciate da giocatori e allenatori prima di una partita di calcio. Frasi messe in fila, che fanno parte del rito e devono essere dette ma non contano nulla. Quello che conta davvero succede sempre sul campo. E quello che conta in questi negoziati è che l’Iran non rinuncerà mai a possedere la bomba atomica. E di certo ha già l’uranio arricchito e le conoscenze tecniche necessarie a fabbricarne una – lo dice l’Aiea, l’agenzia atomica delle Nazioni Unite, non i servizi segreti di Bush o di Israele. Serve sapere altro? I giornali hanno scritto che la settimana scorsa al primo giorno di trattative tra l’iraniano Saad Jalili e i 5+1 c’era “un clima cordiale, un’atmosfera costruttiva che fa sperare in una buona riuscita della diplomazia”. Ma l’Iran non è arrivato all’ultimo anno di un programma nucleare segreto che dura da almeno una decade per fermarsi a un soffio dal traguardo, dal diventare la superpotenza egemone del Golfo. E a Teheran c’è un’attesa di tipo religioso sul possesso della bomba atomica, è il destino di potere della Rivoluzione khomeinista intrapresa dagli studenti straccioni che finalmente si compie. Figurarsi se ora tornano indietro perché così chiedono gli occidentali alla Villa Le Saugy di Ginevra. Basta fare finta di essere un po’ d’accordo, soprattutto questa volta che c’è tanta attesa. Per ora, gli iraniani hanno detto che l’accordo di Ginevra sarà – se sarà – sui principi. Ma “principi” è la parola più viscida della diplomazia per rimandare la vera ciccia dei negoziati a tempo indefinito. Tanto, come dice la copertina di questa settimana di Newsweek, bisogna pur cominciare ad abituarsi all’idea di un Iran nucleare. Teheran non ha intenzione di siglare il protocollo aggiuntivo del Trattato di non proliferazione (Tnp), ha annunciato ieri il ministro degli Esteri, Manouchehr Mottaki. Il protocollo aggiuntivo del Tnp è un documento che garantisce all’Aiea l’autorità di condurre ispezioni ai siti e di verificare le attività dichiarate e quelle non dichiarate. Conta quello che succede sul campo, ma non ce lo fanno nemmeno vedere.

Il FOGLIO - " Teheran esporta l’antisemitismo rivoluzionario "

 Ahmadinejad e il suo amico Chavez

Roma. Fra gli ayatollah di Teheran e i “rivoluzionari” dell’America Latina non c’è soltanto un idillio fatto di espansionismo, sostegno al terrorismo e durissima repressione interna. C’è soprattutto il negazionismo dell’Olocausto e l’incitamento all’odio antiebraico. Ne sono un esempio le dichiarazioni del portavoce dell’ex presidente honduregno Manuel Zelaya, David Romero, che è anche tra i fondatori della People’s Revolutionary Union. In qualità di direttore di Radio Globo, Romero ha tenuto un discorso pieno di odio nei confronti della comunità ebraica dell’Honduras. “A volte mi chiedo se Hitler non avesse ragione nel volere farla finita con questa razza, con il celebre Olocausto… Dopo essermi informato mi chiedo perché non abbiamo lasciato che Hitler finisse la sua missione storica… Credo che sarebbe stato giusto e corretto che Hitler avesse terminato la sua missione storica”. Anche il presidente Zelaya, quando già si era rinchiuso nell’ambasciata brasiliana in Honduras, aveva parlato dell’esistenza di un “complotto giudaico-sionista” per ucciderlo con gas e “radiazioni ad alta frequenza”. Il Wall Street Journal denuncia espressamente questo “antisemitismo rivoluzionario” e lancia l’allarme Sud America. In questi anni Teheran vi ha esportato, assieme a un cospicuo giro di affari, anche il mito negazionista e il dileggio dell’Olocausto attraverso fondi, uomini e infrastrutture (da Hezbollah a Hamas). A Caracas, storicamente una città pacifica verso gli ebrei, si registrano attacchi alle scuole ebraiche da oltre due anni. “Ecco due paesi fratelli uniti come fossero le dita di una mano”, aveva detto il socialista Hugo Chávez, nel corso di una visita a Teheran nel novembre 2007, per celebrare la sua alleanza con l’islamista rivoluzionario Mahmoud Ahmadinejad. Camillo Guevara, il figlio del Che, anch’egli in visita a Teheran lo scorso anno, ha detto che suo padre avrebbe “appoggiato il paese nella sua attuale lotta contro gli Stati Uniti”. Sulla stampa chávista e zelayista, gli ebrei sono chiamati sempre “sionisti” e indicati come il simbolo del capitalismo e dell’imperialismo. Il leader venezuelano Chávez e il suo alleato Zelaya hanno più volte paragonato Israele ai nazisti e Hitler accusandolo di genocidio degli arabi. Quindici poliziotti di Chávez, a volto scoperto, alcuni mesi fa sono arrivati alla sinagoga Tiferet, la più antica di Caracas, hanno sfondato i portoni, ammanettato le guardie e sono penetrati nella sala di preghiera, dissacrandola: i rotoli della Torah sono stati gettati in terra, gli arredi e i libri sacri strappati, i tallit (scialli di preghiera) usati per pulirsi le scarpe, urinandoci sopra.

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