Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 05/10/2009, a pag. 14, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Assalto taleban, uccisi otto marine " e quello di Henry Kissinger dal titolo " Obama è a un bivio. Ora deve ascoltare i suoi generali ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 11, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Malumori e accuse. Mc Chrystal non convince i soldati ". Ecco gli articoli:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Assalto taleban, uccisi otto marine "
Maurizio Molinari
Otto soldati americani e tre afghani morti, decine di feriti e il capo della polizia locale catturato: è il risultato di una delle più cruente battaglie dall’inizio della guerra in Afghanistan. È iniziata nella notte di sabato, quando almeno trecento mujaheddin hanno dato l’assalto a due postazioni Usa nel distretto Kamdesh del Nuristan, nel Nord-Est, a ridosso del confine pakistano. Subito dopo il tramonto i taleban sono usciti da una moschea vicina e hanno rovesciato sulle due piccole basi Usa un diluvio di razzi e proiettili, ripetendo la tattica usata nel luglio 2008 in un’area poco distanze, quando a cadere furono nove soldati americani.
Il Nuristan è una roccaforte dei mujaheddin islamici dai tempi della guerriglia antisovietica: è una delle poche regioni dell’Asia del Sud dove si pratica il wahabismo - versione particolarmente rigida dell’Islam -, molti dei volontari arabi di Al Qaeda vi si sono insediati, sposandosi, e le comunicazioni sono inesistenti, non funzionano i cellulari né vi sono linee telefoniche terrestri. Sorpresi dal massiccio attacco, gli americani hanno chiesto l’intervento dell’aviazione e solo al mattino di ieri i taleban si sono ritirati, lasciandosi dietro «perdite molto pesanti», secondo la ricostruzione del comandante Usa dell’area, colonnello Randy George. Il blitz è comunque riuscito a sorprendere le forze Usa per la seconda volta in poco più di un anno con una tattica identica - che richiama alla memoria gli assalti dei pellerossa contro i fortini delle giubbe blu nel Far West - alla quale il generale David Petraeus, comandante delle truppe in Medio Oriente, ha risposto ordinando di eliminare le postazioni isolate in aree ad alto rischio. Anche quella aggredita sabato era previsto da tempo che fosse smantellata.
Il pesante bilancio della giornata, aggravato da altri due soldati Usa uccisi in diverse località, coincide con il dibattito in corso nell’Amministrazione Obama sulla richiesta di ingenti rinforzi di truppe, presentata dal generale Stanley McChrystal. Il presidente è al centro di un braccio di ferro che oppone il Segretario di Stato Hillary Clinton, favorevole a dare a McChrystal tutti i 30-40 mila uomini che chiede, e il vicepresidente Joe Biden, che vorrebbe affidare il grosso delle operazioni anti-terrorismo alle truppe speciali e ai droni della Cia. Anche il Congresso appare diviso: i repubblicani, a cominciare da John McCain, sostengono Hillary e McChrystal, mentre molti leader democratici, come Carl Levin capo della commissione Forze Armate al Senato, sono con Biden.
«Alla fine il presidente avrà di fronte più opzioni e sarà solo lui a decidere», ha detto il generale Jim Jones, consigliere per la sicurezza, intervenendo ai talk show domenicali. Jones ha però sottolineato che il contingente afghano è «al momento robusto» e che «la soluzione passa anche per l’aumento delle forze afghane», lasciando intendere che Obama potrebbe non accogliere del tutto il suggerimento di McChrystal. Da qui la domanda che più si rincorre a Washington: «Che farà McChrystal se Obama rifiuterà i rinforzi?». Jones esclude l’ipotesi di clamorose dimissioni: «McChrystal resterà a lungo».
La STAMPA - Henry Kissinger : " Obama è a un bivio. Ora deve ascoltare i suoi generali "
Henry A. Kissinger
La richiesta di ulteriori rinforzi, fatta dal comandante delle truppe Usa in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal, pone il presidente Barack Obama di fronte a un atroce dilemma. Se decide di ignorare la richiesta, argomentata con l’inadeguatezza del contingente attuale ai compiti della missione, verrà accusato delle drammatiche conseguenze. Se accetta, i suoi avversari potranno parlare di una «guerra di Obama». Se infine cerca un compromesso, rischia di fare troppo poco per compiere progressi sul terreno, e fare comunque troppo per accendere una polemica. Per di più, la sua scelta si deve basare su assunti che non si possono dimostrare.
Questa è l’angoscia insostenibile della presidenza, per la quale Obama merita rispetto da tutti. Devo premettere che sono a favore di un «sì» alla richiesta del comandante, con una modifica delle strategie. Ma spero comunque che stavolta si eviterà la traiettoria demoralizzante che ha contraddistinto le precedenti controversie sulle guerre contro avversari che usano le tattiche della guerriglia, soprattutto in Vietnam e in Iraq. Entrambe erano iniziate con un vasto sostegno dell’opinione pubblica. Entrambe sono finite in un vicolo cieco, in parte per la strategia della guerriglia di esasperazione psicologica. Lo stallo innesca un dibattito sulla «vincibilità» della guerra, parte dell’opinione pubblica diventa scettica e comincia a interrogarsi sulle basi morali del conflitto. Inesorabilmente, si levano le rischieste per una exit strategy, con molta più enfasi sull’«exit» che sulla «strategy».
La «exit strategy» è in fondo una metafora per il «ritiro», e una ritirata senza che si cerchi di sostenere i risultati già raggiunti equivale all’abbandono. La forma meno ambigua della exit strategy è la vittoria, come ha dimostrato la Corea, dove le truppe americane restano dal 1953, anche se proprio la vittoria spesso impedisce il ritiro. Un paradosso apparentemente inevitabile: il dibattito interno preme per un complomesso diplomatico, ma il fanatismo dei guerriglieri non accetta intese. Questo, a sua volta, implica la necessità di un «surge», un aumento dell’impegno, che mette a dura prova la pazienza degli americani. Si può risolvere?
La strategia che prevale in Afghanistan si basa sulla classica dottrina anti-guerriglia: costruire un governo centrale, spingerlo a impegnarsi per la gente e proteggere la popolazione fino a quando le forze governative saranno in grado, con il nostro addestramento, di sostituirci. La richiesta di nuove truppe è un’ammissione che le forze attuali non bastano, e implica tre opzioni: continuare o ridimensionare l’impegno abbandonando la strategia McChrystal; continare con una nuova strategia; incrementare l’impegno con una strategia incentrata sulla sicurezza della popolazione. La prima verrebbe interpretata come un passo verso il ritiro. La seconda ridurrebbe la missione essenzialmente all’antiterrorismo rinunciando all’impegno anti-guerriglia, con l’argomento che l’obiettivo strategico per l’America è impedire che l’Afghanistan torni a essere una base del terrorismo internazionale, e quindi una sconfitta di Al Qaeda e della jihad è una priorità. Questa visione colloca i taleban tra le minacce locali e non globali. Un negoziato con loro isolerebbe Al Qaeda e porterebbe alla sua sconfitta, in cambio non si sfida la presa dei taleban sul Paese.
Questa teoria mi sembra troppo contorta. Sono stati proprio i taleban a fornire le basi per Al Qaeda. Inoltre è improbabile che azioni di vita civile sulle quali si basano le nostre politiche possano venire realizzate in aree sotto il controllo talebano. Perfino i cosidetti realisti, come me, riderebbero di una tacita cooperazione degli Usa con i taleban nel governo.
I responsabili della catena di comando in Afghanistan, ciascuno con qualifiche eccezionali, sono stati tutti nominati dall’amministrazione di Obama. Respingere i loro consigli significherebbe far trionfare la politica interna sulle logiche strategiche. Il candidato Obama parlava dell’Afghanistan come di una guerra necessaria. Da presidente ha mostrato notevole coraggio mantenendo la promessa di incrementare le truppe. La marcia indietro in un processo portato avanti, con visioni differenti, da due amministrazioni, può generare il caos, con un maggiore impegno americano e una perdita di fiducia verso gli Usa come conseguenze finali.
La strategia militare tradizionale esige il controllo della maggior parte di territorio possibile. Ma la strategia della guerriglia, come la descrive Mao, è di trascinare l’avversario in una resistenza popolare, facendo diventare il suo obiettivo principale districarsene. In una guerriglia spesso è meglio controllare il 75% del territorio per il 100% del tempo che tutto il terreno per tre quarti del tempo. Un problema cruciale è definire quale parte del territorio afghano può essere controllato efficacemente secondo questi criteri.
Contemporaneamente, è necessario un impegno diplomatico per contrastare la maggiore anomalia della guerra afghana. Di solito, infatti, non c’era alternativa alla leadership americana: nessun altro Paese disponeva della combinazione di risorse e interessi nazionali necessaria. La peculiarità dell’Afghanistan sono i suoi potenti vicini: Pakistan, India, Cina, Russia, Iran. Ciascuno di essi viene minacciato in un modo o in un altro e, sotto certi aspetti, ben più di noi, da un Afghanistan-base del terrorismo. Ciascuno dispone di notevoli capacità per difendere i propri interessi, e ciascuno ha scelto, finora, di tenersi lontano. Un vertice di Paesi limitrofi (o vicini) dell’Afghanistan, proposto dal segretario di Stato americano, potrebbe - insieme con gli alleati della Nato - cercare una soluzione e cancellare tentazioni miopi di trarre beneficio dall’imbarazzo degli avversari. Altrimenti, gli Stati Uniti potrebbero non avere altra scelta che adeguare l’impegno in Afghanistan a obiettivi che rilevano innanzitutto per la loro sicurezza. Per il futuro immediato, è essenziale evitare nuove profonde divisioni all’interno dell’America e cercare di condurre l’inevitabile dibattitto con tutto il rispetto per la sua complessità, e le scelte difficili da fare.
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Malumori e accuse. Mc Chrystal non convince i soldati "
Gen. Stanley McChrystal
In genere è raro trovare soldati apertamente critici dei comandanti e pessimisti sugli esiti della loro missione. Ma oggi lo scoramento di fronte al numero crescente di commilitoni uccisi, il malcontento sulla mancanza di coordinamento tra i 42 componenti del contingente Nato-Isaf e la necessità di ridare un senso alla presenza in Afghanistan sono talmente diffusi e profondi che le lamentele arrivano molto più facilmente alla superficie. È successo, per esempio, la sera del 30 settembre nella vallata di Musahi, a sud di Kabul, dove una quindicina di istruttori appartenenti alla Compagnia «Alfa» del 121˚battaglione Fanteria Usa erano presenti assieme ad una settantina di poliziotti afghani venuti a rilevare la base avanzata, che dopo tre anni viene lasciata dagli italiani. «L’errore del generale Stanley McChrystal è di applicare le stesse strategie ideate da David Petraeus in Iraq due anni fa. Vorrebbe aumentare il numero dei soldati alleati. Però gli manca il sostegno della popolazione. In Iraq i capi sunniti ci avevano chiesto aiuto per debellare il terrorismo di Al Qaeda. Ma in Afghanistan è diverso, la società civile è molto più primitiva », sostenevano apertamente un sergente ed un tenente americani.
E a un pranzo due giorni dopo a Kabul tra alcuni alti ufficiali Nato e pochi giornalisti occidentali si è discusso animatamente del grande dilemma posto da McChrystal: meglio aumentare le truppe straniere tra gli afghani, oppure ridurle a piccoli corpi scelti mirati a combattere Al Qaeda? Il confronto si è fatto serrato tra un maggiore canadese e un colonnello tedesco sulla questione dei rispettivi caveat. «Ogni contingente deve rispettare il mandato concesso dal rispettivo parlamento nazionale. Noi tedeschi siamo qui in missione di pace», diceva il colonnello. Netta la replica del maggiore: «In questo modo prevarranno talebani. Se non applichiamo tutti gli stessi metodi di lotta aggressiva alla guerriglia, saremo perdenti ».
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