Sul CORRIERE della SERA di oggi, 04/10/2009, a pag.19, con il titolo " Namjoo, il Bob Dylan d'Iran, canto la pazzia dei giovani ", Viviana Mazza intervista il cantaurore esule dall'Iran Moshen Namjoo, condannato nel suo paese a 5 anni di carcere perchè "blasfemo".
Moshen Namjoo
TREVISO — Il setar è un delicato liuto persiano. La parola vuol dire «tre corde». Ma sono quattro. Il musicista ne pizzica tre, l’ultima risuona per le vibrazioni delle altre. Mohsen Namjoo lo suona come una chitarra blues e canta influenzato da Jim Morrison e Kurt Cobain i versi dei poeti persiani misti ai propri sulla vita in Iran. Un gioco, tra ribellione e amore per la tradizione, che non piace a tutti nel suo Paese. A luglio, mentre il cantautore era a Treviso per lavorare a un cd prodotto da Fabrica, il laboratorio creativo di Benetton, un tribunale iraniano lo ha condannato a cinque anni di carcere per la canzone Shams , in cui recita un passo del Corano in versione rock. «Blasfema».
Mohsen ha 32 anni, ma il fisico esile, i gentili occhi scuri, i lunghi, crespi capelli grigi raccolti in una coda arruffata gli danno l’aspetto di un uomo anziano e avvezzo alla solitudine. Il New York Times lo definisce il «Bob Dylan iraniano» perché è riuscito a esprimere lo spirito del suo tempo. Seduto nella biblioteca di Fabrica, spiega che la sua priorità è la musica. In Shams voleva esplorare la musicalità del Corano. Non si considera un attivista, ma è diventato popolarissimo tra i giovani in Iran (il suo primo cd Toraj, che non ha passato la censura, è stato diffuso senza sua autorizzazione sul mercato nero ed è cliccatissimo su YouTube ).
Poi a giugno, dopo la vittoria di Ahmadinejad nelle contestate elezioni, è come se la quarta corda del suo setar abbia iniziato a vibrare al suono della piazza. «Due milioni di persone in strada in silenzio. Mi sento parte di questa nuova gioventù iraniana », dice. «Sono i miei leader ». Oltre a Shams , ha incluso nell’album italiano, intitolato Oy (espressione di dolore ma pure di gioia in farsi), canzoni influenzate dalle proteste. « Avevo scritto Gladiatori anni fa sui problemi del traffico in città. Ora i motociclisti hanno assunto un’altra identità». « Gladiatori — canta — che attaccate le nostre donne e coprite i loro volti ... ». In Qashqai , l’espressione «polvere e spine» usata dal padre della poesia persiana moderna Nima Yoshij coincide col termine colloquiale usato da Ahmadinejad per denigrare i manifestanti. Namjoo lo contesta: «Polvere e spine è chi proibisce e inibisce, non chi dice ciò che pensa». I giovani iraniani sono andati oltre la depressione collettiva, vivono in uno «stato di euforica pazzia», dice il cantautore. «Vanno in strada sapendo che potrebbero non tornare ma girano video coi cellulari. Si tuffano nel caos e conservano la speranza. Immagina un adolescente che se solo si avvicina a una ragazza può essere punito come un criminale. Sai quanto ti fa innamorare di più? E’ impossibile fermarli».
Dopo un concerto gratuito giovedì al conservatorio di Milano, Namjoo andrà a Stanford in America a fare ricerca, e insegnare forse. E l’Iran? Una malinconia nuova lo invade, lo fa piangere a tavola davanti ai piatti tipici iraniani. La quarta corda continua a vibrare.
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