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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.09.2009 Per capire che cosa succede in Afghanistan: chi è il nemico
Analisi di Davide Frattini, redazione del Foglio

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: La redazione del Foglio - Davide Frattini
Titolo: «I talebani sono invincibili? No, ma hanno una strategia formidabile - Più caos meno amici»

Riportiamo dal FOGLIO del 19/09/2009, a pag. 1-3, gli articoli titolati " I talebani sono invincibili? No, ma hanno una strategia formidabile " e " Più caos meno amici". Dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/09/2009, a pag. 8, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " Il piano di disarmo si è arenato. E gli ex talebani tornano ai kalashnikov ". Ecco gli articoli:

Il FOGLIO -  " I talebani sono invincibili? No, ma hanno una strategia formidabile "

Roma. I talebani non sono invincibili. Sono pochi, non più di ventimila, potrebbero sedersi tutti dentro il palazzo dello sport di una piccola città italiana. I soldati occidentali schierati in Afghanistan oggi sono cinque volte di più, e sono pure destinati ad aumentare. I talebani sono poco addestrati – spesso poco più che adolescenti che combattono per dieci dollari al giorno – e perdono ogni confronto in campo aperto. Sebbene vantino di essere gli eredi dei leggendari mujaheddin che sconfissero l’Unione Sovietica, nel 2001 non hanno quasi opposto resistenza a poche squadre delle forze speciali americane e all’avanzata dell’Alleanza del nord (quella sì, in gran parte, composta da ex mujaheddin oggi diventati fieri oppositori dei talebani). Sono riusciti a ricostituirsi soltanto grazie a quattro anni di distrazione politica e militare e agli aiuti che ricevono dall’esterno, in denaro dai regni sunniti del Golfo e sul piano militare da settori irrecuperabili dell’intelligence del Pakistan. Ma hanno dalla loro la formidabile strategia della guerra d’attrito, come hanno dimostrato due giorni fa, contro i paracadutisti italiani della Folgore. L’attentatore ha aspettato al sicuro per giorni, mescolato alla popolazione afghana, e poi ha ottenuto il massimo del risultato politico: scuotere per l’ennesima volta la fiducia occidentale nella possibilità di chiudere la partita afghana. Roma. La guerra contro i talebani è vincibile? Sì. I guerriglieri sono meno numerosi delle truppe occidentali impegnate in Afghanistan, e anche meno dei poliziotti e dei soldati afghani. Le stime sulla loro consistenza variano a seconda delle fonti, ma non si supera mai il numero di ventimila combattenti. Pari a un quinto del contingente americano e Isaf: i talebani sono così pochi che potrebbero sedersi tutti nel palazzetto dello sport di una piccola città italiana. Il loro controllo sul territorio non è così esteso come si percepisce dall’Europa. L’International Council on Security and Development passa ai giornali mappe prive di senso “sull’infestazione talebana del paese”. Per esempio, una provincia è dichiarata in pieno controllo dei talebani e colorata di rosso se c’è almeno un fatto violento ogni settimana. Ma l’Afghanistan è un narcostato pieno di armi, i fatti violenti sono all’ordine del giorno: e applicando questo standard anche una grossa città americana risulterebbe “in controllo dei talebani”. Un altro problema è il livello di preparazione dei guerriglieri. Molto scarso, a detta di chi li ha affrontati in combattimento, e sicuramente non paragonabile a quella dei soldati. “Sono assoldati a dieci dollari al giorno, ma non valgono molto di più”, dicono le truppe britanniche giù a Helmand, che parlano per esperienza diretta: nei fondovalle coltivati a granturco i combattimenti sono così ravvicinati che i nemici si ascoltano a vicenda mentre parlano nelle radio. I talebani non coincidono tutti con i leggendari mujaheddin che sconfissero i sovietici negli anni Ottanta. Molti di quelli appartengono all’etnia del nord, i tagichi, che però oggi si oppone fieramente ai talebani, che arrivano da sud. In molti casi, i talebani sono la generazione ventenne nata dai tre milioni di profughi afghani che cercarono scampo dalla brutalità dell’Armata Rossa e crebbe nei campi, dove l’unica istituzione benevola era quella degli enti religiosi islamici e dove non c’erano scuole, ma madrasse: da qui il nome, talebani, gli studenti. Nel 2001 questi talebani hanno sgualcito, per non dire peggio, quell’aura di coriacea invincibilità ereditata dai loro padri sgombrando subito il campo davanti a poche squadre di forze speciali americane – che si limitavano quasi a guidare gli aerei e gli elicotteri sugli obbiettivi – e davanti all’avanzata della ringalluzzita Alleanza del nord. Fino al giugno 2002 i soldati stranieri in Afghanistan erano meno di 10 mila: un decimo rispetto a oggi. Ci sono voluti quattro anni di distrazione da parte dell’occidente e di non sorveglianza militare per aprire ai talebani – finalmente riorganizzati oltreconfine, in Pakistan – la strada del ritorno. Un paio di sandali ai piedi e in mano un Kalashnikov, spesso una replica cinese o egiziana. “Negli scontri diretti ne uccidiamo a decine – dicono gli inglesi – tutti quelli che si fanno avanti”. Il problema generale è questo: negli scontri diretti. Ma i talebani hanno naturalmente scelto la strategia opposta. L’attacco contro i paracadutisti della Folgore ne è l’esempio più chiaro: il terrorista ha atteso il momento giusto, prima aspettando per giorni all’interno di una casa sicura e poi nel traffico, mescolato alla popolazione di Kabul, indistinguibile tra le altre macchine; a dispetto dell’equipaggiamento sofisticato a disposizione degli italiani – comunicazioni satellitari, elicotteri d’attacco, blindati – l’attacco è stato letale e ha sortito il massimo effetto politico con uno sforzo bellico ridotto. E’ la guerra d’attrito. I talebani non riescono a prevalere sui soldati, ma riescono a proiettare su di loro e sulla popolazione afghana l’ombra di un conflitto disperante, vischioso, eterno. All’esterno, puntano a logorare l’appoggio politico in patria alle missioni militari occidentali, con uno stillicidio di blitz violenti e di sabotaggi. Sperano di isolare il presidente Karzai dal resto del mondo, tengono d’occhio i soldati stranieri aspettando il loro ritiro. All’interno, come una confederazione di cosche criminali, esercitano un’intimidazione silenziosa ma opprimente. Si dileguano davanti a un assalto frontale, ma impongono lo stesso la loro presenza. Raccolgono tasse, reclutano nuovi volontari in pubblico, nominano governatori ombra che esercitano un potere parallelo a quello dei governatori legittimi, costringono le forze di sicurezza locale a passare la maggior parte del proprio tempo dentro stazioni fortificate, fanno chiudere le scuole, minacciano, ostacolano le elezioni, spadroneggiano dal tramonto all’alba. I talebani sono più reti alleate tra loro, colpirne una non indebolisce le altre. Hanno anche una gerarchia piatta, locale, che non è mai scossa più di tanto dall’eliminazione dei leader. I talebani riescono a trascinare questa guerra d’attrito a basso costo grazie a due fattori materiali. I soldi del narcotraffico – le zone dove i combattimenti sono più intensi coincidono con quelle dove si coltiva più oppio – e l’aiuto da paesi stranieri. Dai regni sunniti del Golfo parte un flusso costante di denaro, e dal Pakistan arriva ogni tipo di aiuto da settori irriducibili dell’intelligence militare. Le guerre d’attrito hanno soluzioni più politiche che militari: convincere il governo di Kabul a colpire il narcotraffico, e Islamabad a tagliare il cordone ombelicale con gli estremisti. A meno che non si voglia una campagna “cecena”: riguadagnare il controllo del territorio a spese della popolazione civile.

Il FOGLIO - " Più caos meno amici "

 Obama

Milano. E’ ancora troppo presto per trarre conclusioni definitive sulla politica estera di Barack Obama, ma l’approccio pragmatico promesso dal nuovo presidente americano per il momento sembra costellato da una serie di mosse azzardate senza la certezza di contropartite valide e da un’assenza di visione strategica globale, che denota la difficoltà di formulare un’alternativa multilaterale seria ed efficace, dotata di un linguaggio chiaro e coerente, da contrapporre alla chiarezza morale dell’unilateralismo di George W. Bush. Il caso dello scudo spaziale negato a Polona e Repubblica ceca, motivato nei corridoi del potere di Washington dall’esigenza di assecondare le richieste di Mosca, è soltanto uno degli esempi. L’esito della nuova politica estera americana è ancora tutto da verificare e dagli eventi delle prossime settimane dipenderà il successo o meno della presidenza Obama, ma la cosa certa per adesso è che la promessa di convincere gli avversari ad adottare comportamenti virtuosi non è stata mantenuta. Non solo. L’America di Obama desta preoccupazioni e diffidenze tra i più fedeli alleati degli Stati Uniti degli scorsi anni, sia nell’ex Europa dell’est, sia in Israele. Il primo test sarà all’Assemblea generale e al Consiglio di sicurezza dell’Onu (23 e 24 settembre), poi al vertice del G20 di Pittsburgh (24 e 25 settembre). Milano. A che punto è la politica estera di Barack Obama? E’ ancora troppo presto per trarre conclusioni definitive, ma l’approccio pragmatico promesso dal nuovo presidente americano per il momento sembra costellato da una serie di mosse azzardate senza la certezza di contropartite valide e da un’assenza di visione strategica globale che denota la difficoltà di formulare un’alternativa multilaterale seria ed efficace, dotata di un linguaggio chiaro e coerente, da contrapporre alla chiarezza morale dell’unilateralismo di George W. Bush. La sintesi, perfetta, è di un editoriale del Wall Street Journal: “Il presidente Obama ha promesso che avrebbe conquistato amici dell’America laddove a causa di George W. Bush aveva solo antagonisti. La realtà è che l’America sta lavorando sodo per creare antagonisti laddove prima aveva amici”. Il riferimento è alla decisione della Casa Bianca di smantellare il progetto di scudo spaziale formalmente anti iraniano, ma nella sostanza a protezione da eventuali politiche espansioniste russe, che avrebbe dovuto essere installato in Polonia e Repubblica ceca. La cosiddetta “new Europe” dell’era Bush, quella parte di giovane Europa affrancatasi dal comunismo e dalla sfera d’influenza moscovita si era legata all’America e aveva chiesto protezione a Washington. Bush gliel’ha garantita, e quelle orientali erano le uniche piazze europee dove veniva accolto da eroe. Con Obama alla Casa Bianca, questa relazione speciale non c’è più. Non solo per lo sgarbo a polacchi e cechi, ma anche per una maggiore diffidenza nei confronti di Ucraina e Georgia, altri due paesi vicini all’America ai tempi di Bush e più tiepidi adesso. La politica di Obama, ispirata alla scuola di pensiero realista, è di assecondare le esigenze di Mosca, anche a costo di sacrificare gli interessi dei paesi alleati, per ottenere il sostegno russo nella più ampia partita per fermare il nucleare iraniano. L’esito di questa svolta nella politica estera americana è ancora tutto da verificare e da questo dipenderà il successo o meno della presidenza Obama, ma la cosa certa per adesso è che laddove ai tempi di Bush c’erano amici dell’America, ora c’è gente infastidita e preoccupata. La stessa cosa capita in Israele. Oggi i rapporti sono più tesi che mai e i sondaggi svelano che soltanto il 4 per cento degli ebrei israeliani considera “pro israeliane” le politiche di Obama in medioriente. In Giappone, poi, è stato eletto un governo meno amico che ha promesso di chiudere le basi americane mentre le aperture alla Corea e i grandi discorsi sulla denuclearizzazione globale hanno provocato ulteriori test atomici e missilistici da parte del regime di Pyongyang. A giorni si saprà se la mossa russa di Obama gli avrà consentito di ottenere il sostegno di Mosca per una rosa di sanzioni internazionali più invasive per fermare il progetto atomico di Teheran. Obama aveva promesso che avrebbe aspettato la fine di settembre e, quindi, gli appuntamenti all’Assemblea generale e al Consiglio di sicurezza dell’Onu (23 e 24 settembre), oltre al successivo vertice del G20 di Pittsburgh (24 e 25 settembre), per capire se gli ayatollah iraniani, sempre meno credibili agli occhi dei governi e dell’opinione pubblica internazionale per la repressione sulle strade di Teheran, hanno reali intenzioni di negoziare un grande accordo con l’America e l’occidente. L’Iran ha già risposto di no, sul nucleare. E di sì su tutto il resto, inviando però come base di discussione un documento di cinque pagine valutato dalle cancellerie occidentali come un ulteriore tentativo di dilatazione dei tempi. Il primo ottobre, in Turchia, si apriranno i colloqui con l’Iran alla presenza degli americani. Non è una novità, visto che c’erano stati anche negli ultimi mesi di Bush, guidati addirittura dallo stesso William Burns che ora parteciperà per conto di Obama. Gli uomini del presidente lanciano messaggi poco chiari. C’è chi parla di grande opportunità per aprire un dialogo fecondo e chi, come Hillary Clinton, si aspetta che l’incontro si risolva nel momento decisivo per smascherare i traccheggi di Teheran. Resta da capire che cosa farà Obama di fronte a un ulteriore rifiuto degli ayatollah sul nucleare, se i russi non daranno il via libera alle sanzioni internazionali. In Israele c’è forte agitazione. E c’è chi, come Bret Stephens del Wall Street Journal, crede che le scelte della Casa Bianca stiano costringendo Gerusalemme ad agire unilateralmente, per supplire alla mancanza di leadership mostrata da Washington. I problemi obamiani si estendono ovunque. In Afghanistan ha avviato una mini escalation militare e ha appena consegnato al Congresso un memo con chiari obiettivi antiterrorismo e anti talebani. Ma, privo di quella visione strategica d’insieme che legava le iniziative bushiane, non riesce a decidere se assecondare le richieste dei generali di inviare più truppe o se tenere un atteggiamento più prudente.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Il piano di disarmo si è arenato E gli ex talebani tornano ai kalashnikov "

KABUL — Il palazzo della Pace e della Riconciliazione sta avvolto nel filo spinato come un regalo fat­to alle persone sbagliate. Le guardie si proteggono dietro ai sacchi di sabbia e alle barriere di cemento, anche se in questa villa nella parte occidentale di Kabul gli afghani do­vrebbero venire per depositare le ar­mi, non per usarle.
La sala della cerimonia è sempli­ce come il passaggio burocratico per sotterrare il kalashnikov di guer­ra. Da quando il progetto è stato lan­ciato nel 2005, da qui sono passati in 23 mila, persuasi e raccomandati dai loro capi clan. In cambio del fuci­le mitragliatore e della promessa «di sostenere il governo», hanno ri­cevuto una lettera di immunità e il rimborso per il taxi collettivo che li ha portati giù dalle montagne. «Non paghiamo per la resa» assicu­ra Akram Mir Hazar, direttore ammi­nistrativo dell’operazione.
Per questo professore di chimica all’Università di Kabul la formula della serenità nazionale è semplice: tappezzare le strade polverose con poster e numeri di telefono da chia­mare per offrire il «pentimento», coinvolgere oltre 22 mila anziani nei villaggi e farne gli ambasciatori del piano voluto da Hamid Karzai e sorvegliato dal suo mentore Sibgha­tullah Mojaddedi, che è stato il pri­mo presidente dopo il ritiro sovieti­co e adesso è anche alla guida della
Meshrano Jirga, il Senato afghano. Elenca quelli che considera i succes­si: 950 prigionieri di Guantanamo e Bagram rilasciati sotto la garanzia dei boss tribali, 22 esponenti del re­gime talebano (e 8.300 combatten­ti) che hanno scelto di sottoscrive­re con il pollice bagnato d’inchio­stro la speranza di un futuro miglio­re per l’Afghanistan.
Eppure l’esercito integralista è ancora stimato tra gli 11 e i 20 mila uomini, controlla l’80% del Paese ed è in grado di colpire nel centro supercorazzato della capitale. Mir Hazar accusa il Pakistan e le «inge­renze straniere» («i terroristi vengo­no addestrati fuori dai nostri confi­ni »), la rivista americana
Time rico­struisce invece la storia del Mullah A (un nome fittizio): è la parabola negativa di un progetto che offre di costruire dighe nei villaggi come ba­ratto per il tritolo e invece sembra non arginare il fiume degli attacchi. Qualche anno fa, il comandante talebano si è presentato alla caser­ma della polizia di Kandahar. Nel ba­gagliaio della jeep, un arsenale di lanciagranate, le sue armi personali e il giuramento di non voler combat­tere più. La lettera di amnistia gli ga­rantisce l’immunità solo per poco. Vecchie rivalità e la smania di dolla­ri di leader tribali vicini a Karzai spingono — così racconta lui — il capo dei servizi segreti locali a per­seguitarlo perché gli riveli dove tie­ne nascosti gli Stinger (la Cia allora prometteva 100 mila dollari per ogni missile recuperato). «Ho detto che non ne avevo, mio cugino e mio fratello sono stati arrestati e tortura­ti. Mio cugino strangolato a morte». Per paura e voglia di vendetta — conclude Time — il Mullah A è tor­nato nelle fila dei talebani.
All’inizio gli americani hanno sponsorizzato la commissione per la Riconciliazione, tre milioni di dol­lari da distribuire per convincere i pastori-guerriglieri a rinunciare ai 6 dollari al giorno garantiti dai tale­bani o ai 12 pagati dai trafficanti di droga per coltivare i campi di op­pio. I finanziamenti occidentali — scrive
Time — sono stati bloccati perché Mojaddedi avrebbe speso il denaro per stipendiare i suoi fede­lissimi. «Non riceviamo più nulla — conferma Mir Hazar — e in ogni caso le cifre non erano alte, le abbia­mo usate per comprare mobili da ufficio».
Nel suo ufficio al ministero della Difesa, il generale Ahmad Aziz scac­cia l’idea della compravendita e le mosche fastidiose, anche se il pro­gramma Diag — che dirige — ha a disposizione 13 milioni di dollari l’anno, garantiti soprattutto dal go­verno giapponese.
Il Disbandment of Illegal Armed Groups si concentra sulla raccolta di armi e funziona in parallelo con l’iniziativa di Mojaddedi. Sotto la de­finizione di «gruppi armati illegali» vanno 1.500 cellule, in totale circa 125 mila uomini che Aziz non consi­dera talebani («sono formazioni gui­date da vecchi comandanti mujaheddin»). Con gli integralisti, il generale non tratta: «Nelle provin­ce di Helmand e Kandahar, siamo in guerra».
Nel palazzo della Pace e della Ri­conciliazione, i calendari sulle pare­ti mostrano i guerriglieri, uno al mese, sorridenti mentre restituisco­no i mortai e gli Rpg. La data della tregua non è segnata.

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