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Il Manifesto Rassegna Stampa
12.08.2009 Il quotidiano comunista incolpa di furto due famiglie ebree
Ma la casa era già loro. E' possibile rubare la propria casa?

Testata: Il Manifesto
Data: 12 agosto 2009
Pagina: 9
Autore: Michela Chimenti
Titolo: «Coloni ladri di case»

Riportiamo dal MANIFESTO di oggi, 12/08/2009, a pag. 9, l'articolo di Michela Chimenti dal titolo " Coloni ladri di case ".

La notizia è sempre la stessa, già riportata dalla STAMPA il 3/08 e dall'ANSA il 10/08: due famiglie ebree hanno ripreso possesso della propria casa a Gerusalemme est.
Dopo l'occupazione giordana di Gerusalemme, nel 1948, gli ebrei erano stati costretti a fuggire. Quando Gerusalemme è stata liberata nel 1967, alcune di queste famiglie hanno fatto richiesta per riavere le proprietà. Pochi giorni fa due famiglie hanno ripreso possesso della propria casa. Non si tratta di "furto", come c'è scritto nel titolo, e nemmeno di "coloni", ma dei normali proprietari che rientrano nella propria casa.

 Gerusalemme, capitale di Israele

La Corte civile israeliana aveva avvertito: «Se le famiglie Ghawi e Hanoun non abbandoneranno le loro case entro il 19 luglio, saranno perseguite con l’incarcerazione e gravi sanzioni penali». E così è stato. «Non hanno nemmeno dato il tempo a mia sorella di 70 anni di vestirsi e indossare il velo». Maher Hanoun parla malvolentieri, perché quella storia l’ha già raccontata e rivissuta mille volte.Domenica 2 agosto un centinaio di poliziotti israeliani sono arrivati alle 5 del mattino a Sheikh Jarrah, nel centro di Gerusalemme Est, e dopo aver spaccato tutto e svegliato lui e la sua famiglia, li hanno cacciati in mezzo alla strada, come cani. Dopo un’ora, con ancora in corso per strada scontri fra polizia e volontari internazionali e pacifisti israeliani, una famiglia di coloni ebrei è arrivata e ha preso possesso della casa. «I miei figli dormono ancora per strada e si svegliano di notte urlando per la paura». La famiglia Hanoun è composta da una trentina di persone di persone di cui 14 bambini. Mentre parliamo con Maher non ci accorgiamo che sua figlia e suo figlio stanno dormendo per terra proprio dietro di noi, sotto un ulivo. «Sono venuti poco dopo lo sfratto a dirmi che potevo andare a prendere lemie cose alla stazione di polizia, ma ormai era tutto rotto e da buttare. L’unico aiutomateriale che abbiamo adesso è quello che ci danno i vicini di casa, per il cibo e per fare una doccia ogni tanto, anche se purtroppo non ho più vestiti”. La vita di tante famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah sta diventando impossibile, giorno dopo giorno, perseguitate come sono da avvisi di sfratto e dall’arrivo di nuovi coloni ebrei. Se l’intento israeliano più ampio è quello di costituire una continuità territoriale fra Gerusalemme Ovest e gli insediamenti ebraici nella Gerusalemme araba ( Est) sotto occupazione - negli ultimi 30 anni sono state distrutte circa 8500 case palestinesi, spesso sostituite con nuovi insediamenti colonici (oltre 200 mila persone) - nei singoli quartieri palestinesi invece la meta da raggiungere è l’ebraicizzazione. Durante gli ultimimesi alcuni palestinesi hanno vissuto in una tenda situata in uno spiazzo a Sheikh Jarrah, circondato da case di coloni. La tenda è stata distrutta da polizia e settler ebrei così tante volte che le famiglie si sono rassegnate. «Non voglio più sentire nominare una tenda in vita mia. Basta. Io la mia casa ce l’ho ed è qui davanti ai miei occhi e non ci posso entrare. Combatterò fino alla morte perché so dov’è casa mia, non ho bisogno di trovarmene un’altra». Maher parla sottovoce, quasi a contenere l’impeto di alzarsi e correre fino alla sua porta, per rientrare e ricominciare la vita di tutti i giorni. Questa situazione è comune alla famiglia Ghawi (38 persone, 11 bambini). Quando chiedo a Nasser, il capofamiglia, dove fosse la sua casa mi dice «lì», e indica la casa di fronte a noi, dall’altro lato della strada. Sospira e racconta. «Siamo rifugiati del 1948, in seguito alla nascita dello Stato di Israele, e mio padre ci aveva portati aGeusalemme, che allora era un luogo sicuro in cui stare». Nel 1952 il ministero giordano per l’edilizia, insieme con l’Unrwa (agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi), costruirono 28 case da destinare ad altrettante famiglie palestinesi (circa 500 persone), vicine ad un ristrettissimo gruppo di coloni (30 persone). «Ci dissero - ricorda Nasser - che avessimo pagato un affitto simbolico per tre anni avremmo ottenuto il passaggio di proprietà. Purtroppo questa promessa non è mai statamantenuta». Nessuno ha reclamato né la terra né le case, fino al 1972 (cinque anni dopo l’occupazione israeliana). «Quell’anno abbiamo incominciato la battaglia, legale e non solo, per tentare con qualunque mezzo di tenerci quella che è stata sempre la nostra terra, la terra di mio padre –riferisce Nasser senza più tentare di nascondere la rabbia- «mi chiedo perché (gli israeliani) vogliano indietro la terra,mi chiedo dove siano stati in tutti questi anni. Loro rispondono che è loro da sempre, che la Terra santa è degli ebrei, e che non hanno bisogno di documenti per dimostrarlo. Israele non ha forse abbastanza terra per venire a rubare casa mia?». Gli israeliani in effetti cominciarono anche a fornire documenti durante i processi, che però in molti casi risultarono falsi, e questo ha bloccato per anni i procedimenti giudiziari. Nel 1982 Itzhak Toussia-Cohen, l’avvocato ebreo rappresentante delle famiglie palestinesi a rischio di espulsione, è arrivato ad un accordo: le accuse per occupazione illegittima sarebbero cadute se i palestinesi avessero iniziato a pagare l’affitto. «Perchè – domanda Nasser- dopo così tanti anni avrei dovuto pagare l’affitto a qualcuno che non disponeva nemmeno del diritto di proprietà?». Negli anni ’90 la situazione per la famiglia Ghawi è peggiorata perché, sebbene l’ordine di sfratto fosse solo riferito al nome del padre, anche gli altri sette appartamenti di proprietà dei fratelli hanno ricevuto lo stesso avviso di confisca. Dopo anni trascorsi in una sfida fatta a suon di carte e avvocati, nel 2002 si ricominciò da zero e le famiglie palestinesi unirono le forze mandando in Turchia (che ha controllato la Palestina fino alla prima guerra mondiale) il loro avvocato per riuscire a trovare gli atti di proprietà originali. «Dopo sette giorni e sette notti chiuso in un archivio, il nostro avvocato è riuscito a trovarli: eravamo felicissimi. Sai cosa ci hanno risposto quando li abbiamo presentati al giudice? Sono troppo vecchi. Non ti fa ridere – Nasser sghignazza quasi non fosse accaduto a lui-? E quando siamoandati al secondo grado di giudizio ci hanno detto che andavano bene, ma che li avevamo consegnati in ritardo. E al terzo grado ci hanno detto che si era già parlato troppo del caso e che non c’era bisogno che un altro giudice si esprimesse in proposito». L’ultimo capitolo della vicenda è stato scritto lunedì scorso. La Corte distrettuale israeliana ha deciso che non solo le famiglie Ghawi e Hanoun non riavranno indietro la loro casa ma che, avendo perso la causa, dovranno pagare le spese legali della controparte (i coloni): 10 mila shekel (circa 2000 euro). Alla fiaccolata improvvisata di lunedì sera davanti alle loro «ex» case,Maher sorrideva e ringraziava per la solidarietà, stretto vicino alla sua famiglia.Nasser, con l’immancabile sorriso, si è avvicinato a noi e, riferendosi alla sconfitta, ci ha domandato: «Come si dice quando tocchi il fondo e poi vai oltre?». Alla fiaccolata, blindata dalla polizia, hanno partecipato centinaia di persone, fra cuimolti israeliani, che chiedevano la fine della pulizia etnica di Sheikh Jarrah. Dopo un paio d’ore, un piccolo corteo ha iniziato a sfilare. Arik Asherman, presidente dell’associazione «Rabbini per i diritti umani», è stato spinto contro un muro, legato mani e piedi, e gettato in un furgoncino della polizia. Lamanifestazione è finita così, con la dispersione della folla, il rientro dei coloni nelle case che avevano occupato e le famiglie Hanoun e Ghawi che hanno preparato il letto sotto gli ulivi.

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