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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
11.06.2009 Non si vota davvero in Iran
Analisi di Maurizio Molinari, Tatiana Boutourline, reportage di Claudio Gallo

Testata:Il Foglio - La Stampa
Autore: La redazione del Foglio - Tatiana Boutourline - Maurizio Molinari - Claudio Gallo
Titolo: «Non si vota davvero in Iran - Il fattore O - Elezioni, arrivano le istruzioni per l’uso firmate Khamenei - Con lui andremo in Paradiso»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 11/06/2009, a pag. 3, l'editoriale dal titolo " Non si vota davvero in Iran ", a pag. 4, l'articolo di Tatiana Boutourline dal titolo "  Il fattore O ". Dalla STAMPA, a pag. 17, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Elezioni, arrivano le istruzioni per l’uso firmate Khamenei  " e il reportage di Claudio Gallo dal titolo " Con lui andremo in Paradiso ". Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - " Non si vota davvero in Iran "

Il risultato elettorale di Teheran non si giocherà domani nelle urne: è stato stabilito nelle lotte intestine che già si sono chiuse dentro la gerarchia iraniana. Non si può attribuire, come invece avviene, la parvenza di democraticità a un meccanismo elettorale privo di ogni elementare garanzia di controllo, nei seggi, negli uffici elettorali e ancor meno al ministero dell’Interno, che ha già predisposto tutti gli strumenti per la manipolazione dell’esito elettorale. Le elezioni in Iran s’inseriscono in un quadro istituzionale per nulla democratico, ma rivoluzionario: servono alla dirigenza e alle sue componenti interne a verificare quali siano le posizioni prevalenti “dentro il Partito di Dio” (chi ne è fuori non ha diritto né di voto né di pensiero) e a piegarle poi – questo è il punto dirimente – ai rapporti di forza del vertice, gli unici reali, gli unici che contino. Arbitro di questo gioco elettorale a piramide rovesciata (di ispirazione neoplatonica, e non è una battuta) è la guida suprema Khamenei, che ha dato segnali positivi – ma tiepidi – nei confronti di Ahmadinejad. La vittoria al primo turno o il ballottaggio saranno gli elementi di discussione post voto. La scala dei risultati attribuiti ai diversi candidati darà il segno dei rapporti di forza nella dirigenza: tanto al blocco militarfondamentalista di Ahmadinejad, tanto a quello militare puro dell’ex pasdaran Rezai, tanto ai “riformisti” di Karroubi (unico candidato con il turbante) e tanto all’ex premier delle purghe staliniane Moussavi, inserito tra le fila dei “riformisti”

Il FOGLIO - Tatiana Boutourline : " Il fattore O "

Roma. Alla vigilia delle presidenziali iraniane cresce la speranza che, dopo Beirut, l’effetto Obama lambisca anche Teheran. Leggere il contenimento di Hezbollah in Libano come una conseguenza diretta del discorso del presidente americano al Cairo è una forzatura, ma il suo stile sta cambiando un clima e muovendo delle aspettative. Dove condurranno queste attese nel quadro dei rapporti tra l’America e la dirigenza iraniana è il quesito geopolitico del momento e tutte le risposte sono ancora possibili. Nonostante l’offerta di negoziati senza condizioni preliminari, gli auguri di Obama per il Nowruz, il riconoscimento delle responsabilità della Cia nel rovesciamento di Mossadegh e, da ultimo, l’apertura delle ambasciate americane ai diplomatici iraniani per i festeggiamenti del 4 di luglio, Teheran si trincera dietro il silenzio o piuttosto una cacofonia di voci, utili a confondere i giochi. Sull’inerzia iraniana pesano la sospensione preelettorale e i dubbi dell’ayatollah Ali Khamenei sulla diplomazia empatica di Obama. In un’audizione al Congresso, il segretario di stato Hillary Clinton ha chiarito che l’offerta di dialogo non è un assegno in bianco e che il percorso negoziale ha il merito di rafforzare il “soft power” statunitense e la “moral suasion” nei confronti degli stati più riottosi a misure dure nei confronti di Teheran. Insomma, la mano di Obama non resterà tesa a tempo indeterminato e dietro la sua oratoria potrebbero sempre nascondersi nuove sanzioni. Eppure, nonostante le incognite, in Iran è già ascrivibile un effetto domino al nuovo inquilino della Casa Bianca. Obama ha spinto l’ayatollah Khamenei a prendere almeno in considerazione l’ipotesi di scaricare Ahmadinejad e ripiegare verso una presidenza meno aggressiva. Il candidato Mir Hossein Moussavi non è un riformatore e men che meno un democratico, ma il solo fatto che venga annoverato come una colomba e presentato alla stampa occidentale come un novello Khatami è la manifestazione più evidente del dilemma strategico in cui si arrovella la leadership iraniana. Un’altra conseguenza del travaso della retorica obamiana è che tutti e quattro i candidati – Mahmoud Ahmadinejad, Mir Hossein Moussavi, Mehdi Karrubi e Mohsen Rezai – si professano alfieri del “cambiamento”: c’è chi punta l’accento sulla lotta alla corruzione (Ahmadinejad), chi promette di salvare l’economia e restaurare l’onore della nazione iraniana dinnanzi alla comunità internazionale (Moussavi, Rezai e Karroubi), chi invoca più rispetto per i diritti civili (Karroubi), chi promette di limitare i poteri della polizia morale (Moussavi). Il tema delle relazioni con Washington è al centro del dibattito e nessuno dei quattro rifiuta a priori l’ipotesi di negoziati. Bandierine verde-speranza Appoggiato da settori del corpo dei Sepah- epasdaran ostili al dialogo, in un’eventuale trattativa Ahmadinejad – che ancora ieri diceva che i suoi avversari sono come i nazisti – rischia di far saltare il banco con richieste troppo ambiziose. Per condurre a buon fine il traghettamento fuori dall’alveo degli stati canaglia, poteri forti all’interno dell’establishment rivoluzionario stanno risollevando le sorti della pallida candidatura di Moussavi. Si tratta di eminenze grigie come Hashemi Rafsanjani, Nateq Nouri, Mohammed Khatami, i fratelli Larijani, Ali Akbar Velayati e nuove leve come il sindaco di Teheran Mohammed Bagher Ghalibaf. Mentre corre voce che i pretoriani di Ahmadinejad siano intervenuti per far stampare 59 milioni e 600 mila schede elettorali, contro i 57 milioni di schede necessarie, sollevando corposi sospetti sul loro utilizzo, la coalizione anti Ahmadinejad lo denuncia al Consiglio dei Guardiani e cerca di muovere le proprie pedine all’interno dell’intelligence. “Non possiamo gestire l’Iran come la Corea del nord – sottolinea il giornalista Said Leilaz – L’Iran non può compensare la sua mancanza di potere economico con tecnologia nucleare, missili e minacce per interposta persona al Libano e in Israele”. E’ l’annosa diatriba che anima le élite iraniane: modello cinese (finora osteggiato da Khamenei) o rivoluzione permanente, ma l’insistenza all’engagement di Obama spinge a riposizionamenti. I falchi iraniani sono divisi e non è un segreto che la candidatura di Rezai sia servita a lanciare un monito al presidente in carica. Se Ahmadinejad vincerà, dovrà tenere conto delle pressioni dei tecnocrati e del baazar ostile alla retorica dello scontro. Dovrà ascoltare di più Khamenei e c’è chi prevede una presidenza dimezzata. E mentre le cancellerie si attardano nel sogno di un rinnovamento targato Moussavi, la vigilia elettorale regala alle strade di Teheran l’effimera libertà di agitare bandierine verdesperanza anti Ahmadinejad.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Elezioni, arrivano le istruzioni per l’uso firmate Khamenei  "

Un dato sull’affluenza almeno del 65 per cento, stretto controllo sulle comunicazioni via Internet e poco risalto alle eventuali proteste contro i brogli: sono queste le principali «direttive sulle elezioni presidenziali» contenute in un documento top secret che Alì Khamenei, leader supremo della rivoluzione iraniana, ha inviato a Ali Reza Malkian, responsabile dell’informazione al ministero della Guida e Cultura islamica, chiedendogli di trasmettere una «corretta immagine della nazione al mondo» in occasione del voto di venerdì prossimo. La premessa di Khamenei è che «queste elezioni avranno grandi conseguenze per l’immagine internazionale dell’Iran perché ci stiamo avvicinando al dialogo con gli Stati Uniti e l’Occidente». Da qui le molteplici raccomandazioni a Malkian, da cui dipendono le informazioni che verranno diffuse sul voto.
La prima è che rendere note la «bassa affluenza alle urne» e le «alterazioni del voto» potrebbe «danneggiare la legittimazione dell’Iran». Per lo spesso motivo Khamenei chiede che non vengano rese pubbliche le dichiarazioni di Mesbah Yazdi, guida spirituale del presidente Mahmud Ahmadinejad, secondo il quale «il regime islamico non tiene conto delle aspirazioni del popolo». La richiesta di Khamenei è di «diffondere notizie sull’integrità del sistema elettorale e sull’affidabilità dei risultati al fine di respingere i sospetti sulla falsificazione dei voti». Non a caso un capitolo ad hoc del documento è dedicato alla «conta dei suffragi» e si spiega che tale responsabilità spetta solo al Consiglio dei Guardiani della rivoluzione «al fine di evitare quanto avvenne nel 2005» quando il candidato Mehdi Karroubi - che corre anche in questa occasione - denunciò apertamente brogli elettorali «creando ripercussioni negative per la nostra immagine nel mondo».
«L’affluenza alle urne è considerata una fonte di legittimazione della Repubblica Islamica e dunque ne influenza la stabilità» recita il testo, giunto in possesso di diplomatici occidentali. Da qui la richiesta che le percentuali della partecipazione al voto vengano arrotondate verso l’alto «almeno al 65 per cento», soprattutto nelle regioni dove la maggioranza dei votanti non è sciita come nel caso del Kurdistan o del Khuzenstan.
L’altra richiesta di Khamenei è di «aumentare la sorveglianza sulle comunicazioni online e via satellite» grazie all’opera di una nuova unità dei pasdaran incaricata di «combattere il crimine su Internet», alla cui opera però non deve essere dato particolare risalto perché ciò potrebbe danneggiare «la celebrazione della democrazia iraniana».

La STAMPA - Claudio Gallo : " Con lui andremo in Paradiso "

Una vecchia col chador tiene in braccio un bambino, dal nero pece che l’avvolge spunta solo l’ovale paffutello del viso, gli occhi sbilenchi e una barbetta ispida che le trafora il mento. Guarda nella direzione dove si dirigono migliaia di teste ondulanti che riempiono il grande corso tra piazza Engelab a piazza Azari, l’asse che taglia Teheran da Est a Ovest. Posa il bimbo a terra e guardando il cielo grigio urla: «Che il Mahdi protegga Ahmadinejad, l’uomo più coraggioso, il protettore della religione». Un gruppo di ragazzi dal look lumpenproletariat, avvolti nella bandiera tricolore iraniana si gira e grida: «Allahu Akbar», Dio è grande. Il Presidente l’aveva detto sprezzante durante il dibattito con l’ex comandante dei Pasdaran Moshen Rezai: «Andrò a fare un discorso all’Università», proprio il posto dove è meno amato. Così da un paio d’ore la gente col tricolore e i nastrini gialli si è incamminata verso l’ingresso Nord del Politecnico. Una folla da stadio allaga le strade, ingoiando macchine e motociclette che sembrano sprofondare nelle sabbie mobili. Un vecchietto su una Paykan, una copia della Hillman Hunter inglese del tempo dello Shah, fende la marea al rallentatore: è madido, pallido, trema come una foglia. Forse ce la farà a raggiungere piazza Azad, chissà.
All’Università c’è una sorpresa. Il palco di Ahmadinejad, una specie di lunga veranda trainata da un camion Mercedes, è fuori delle mura, davanti alla moschea. Non dentro. Nessuno sa niente. Che non l’abbiano voluto? Mistero. A differenza del comizio dell’altro giorno allo stadio Heydar Nia del candidato dell’opposizione Mousavi, qui manca la musica. Solo slogan e spesso religiosi. «Ya Hussein» - strepitano -, l’invocazione al grande martire sciita. Oppure scandiscono: «Il martirio è il nostro onore». Ironicamente, il motto di Ahmadinejad è quasi uguale al «Yes We Can» di Obama: «Mitavonim Mishavad», noi possiamo, si può. Saranno in 400 mila. Se per Mousavi si erano mobilitati i giovani e la classe media, qui ci sono soprattutto i più poveri. Nei quattro anni di governo il Presidente ha usato generosamente i 250 miliardi di dollari di entrate petrolifere per favorire il suo elettorato tradizionale con una politica assistenziale, anche a costo di far volare l’inflazione, ufficialmente è al 26 per cento ma probabilmente più alta.
Ali Tuhran, 45 anni, impiegato statale, tiene alto il suo santino. Dice: «Vincerà al primo turno perché è un uomo di parola. La crisi? Non è colpa sua, c’è in tutto il mondo». Ashraf, 46 anni, solita faccia che sbuca dal nero aggiunge trasognata: «È un uomo del Signore, aiuta i poveri, è coraggioso». Ali, 30 anni, camionista, è qui «perché lui è uno di noi, capisce la gente». Poi dice la battuta che stava covando da un pezzo: «Italiano? Io adoro Italia Uno». Anche qui un berlusconiano... Sotto il palco non si respira dalla calca, un giovane sui trent’anni si accascia. Arriva una barella issata sopra le teste. Lo portano verso un’ambulanza che non potrà mai partire, incastrata tra la folla.
Un boato fa tremare l’asfalto bollente: è arrivato Ahmadinejad. Veste il solito giubbetto beige da poveraccio e una camicia dello stesso colore. «Porta sempre le vecchie scarpe», dice Bita, 32 anni, inchadoratissima, casalinga laureata in Geomorfologia, come parlando di un santo. Nei cartelloni il Presidente è sempre sorridente ma la sua espressione più vera ricorda lo sguardo di un bambino triste. Se la prende subito con gli Stati stranieri che offendono il capo spirituale, cioè l’Ayatollah Khamenei. Ma poi il discorso si fa minaccioso: «Tutti gli altri candidati mi hanno offeso - dice - ma offendere il Capo dello Stato significa offendere la Costituzione. Un atto che ha conseguenze penali».
«Akbar vai in prigione», motteggia la folla riferendosi all’ex Presidente Rafsanjani, considerato l’emblema della corruzione. E ancora: «Ahmadi, ti proteggiamo noi». L'oratore incalza torvo: «Ci ricorderemo di loro quando sarò rieletto». Se il raduno per Mousavi comunicava un potente senso di speranza, magari ingenuo ma elettrizzante, qui il sentimento sotto la superficie sembra la paura. Ahmadinejad è l’ordine che attenua lo smarrimento, la certezza astratta che cura la disperazione, la semplificazione forzata del complicato. È un rifugio, non uno slancio verso il futuro. Non c’è un attimo di gioia in questo comizio.
Il nucleare è un suo pezzo forte. «Il mondo cerca di impedirci di avere l’energia nucleare - dice - ma noi la stiamo ottenendo lo stesso». «Il nucleare è un nostro diritto», fanno eco i fedeli. Poi cita il suo rivale scatenando un’ondata di «Mousavi dorughgu», Mousavi bugiardo. La parte centrale del discorso è dedicata alla corruzione. «Certa gente - declama di nuovo minaccioso nel persiano ritmico degli oratori - dopo le elezioni dovrà rispondere di ciò che ha fatto». Si leva un urlo corale: «Morte a chi ruba i soldi del popolo». Una donna con una kefià in testa lancia la sua benedizione: «Che il santo Abolfazl ti protegga». Abolfazl martire era il martire prediletto dal mitico campione di pesi Hossein Reza Zadeh, l’Ercole iraniano che sollevò 263 chili e mezzo in un solo colpo. Portava il suo nome sulla maglietta.
La gente è cotta dal sole quando Ahmadinejad intona la preghiera finale. Ai saluti, un contadino in vestito tradizionale gli porta un fascio di grano che lui come un dio dell’abbondanza offre alla massa in delirio. Sparisce nel retro del palco mentre i suoi intonano «ringraziamo il nostro Presidente». Si comincia a smobilitare. Perché la folla si sciolga ci andranno ancora un paio d’ore di parapiglia. Stanno tornando tutti a casa contenti, convinti che in questo mondo di fatica e dolore, c’è almeno un leader che li protegge.
La maggioranza dei 25 mila ebrei iraniani voterà per Ahmadinejad perchè preferisce stare dalla parte del vincitore. Lo sostiene il quotidiano israeliano «Ynet», citando alcuni esperti, tra cui il portavoce dell’Organizzazione centrale degli immigrati iraniani in Israele, David Mutai, secondo il quale l’attuale presidente iraniano «abbaia ma non morde», mentre il suo principale rivale Mousavi è «imprevedibile» e per questo realmente più pericoloso. «Fin dalla rivoluzione di 30 anni fa - dice Mutai - la comunità ebraica è riuscita a scansare i problemi tenendosi buono l’establishment politico».

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