Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Sul futuro governo israeliano Le cronache di Francesco Battistini e del Foglio, il profilo di Netanyahu e di Barak, un editoriale dal Foglio, l'analisi di A.B. Yehoshua
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa Autore: Francesco Battistini - Davide Frattini Titolo: «Barak dice sì a Netanyahu ma i laburisti si spaccano - Il 'freddo' e 'l'ansioso', insieme nei commando - Israele si dà un governo mentre si apre la crisi di coscienza di Tsahal - Barak di lotta e di governo»
Sulla decisione di Barak di accettare di entrare a far parte del governo riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 25/03/2009, a pag. 12, la cronaca di Francesco Battistini dal titolo " Barak dice sì a Netanyahu ma i laburisti si spaccano " e , a pag. 13, un ritratto scritto da Divede Frattini di Barak e Netanyahu dal titolo " Il 'freddo' e 'l'ansioso', insieme nei commando ", dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Israele si dà un governo mentre si apre la crisi di coscienza di Tsahal " e l'editoriale a pag. 3 dal titolo " Barak di lotta e di governo ", dalla STAMPA di ieri l'analisi di A. B. Yehoshua dal titolo " Israele voltafaccia a sinistra ". Ecco gli articoli :
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Barak dice sì a Netanyahu ma i laburisti si spaccano "
GERUSALEMME — E alla fine sì, va bene, turiamoci il naso: il rospo Lieberman si può baciare. Con una capriola politica che non stupisce, l'Ehud Barak che diceva «mai in questo governo» si fa convincere da Bibi Netanyahu ad allearsi con l'ultradestra e in meno di ventiquattr'ore riesce a convincere il suo partito, i laburisti, che è sempre meglio comandare che farsi sfottere: «Assicurarsi che non si perdano opportunità diplomatiche e non si venga trascinati in avventure militari irreversibili», scalda la platea, piuttosto che «fare la ruota di scorta dell'opposizione ». La base gli crede, 680 sì contro 507 no, ma a che prezzo: un partito spaccato in due, sette deputati su tredici che minacciano la scissione, il messaggio al mondo che una stagione s'è davvero conclusa, che i laburisti vanno verso il «suicidio assistito» (parole del Jerusalem Post) e che insomma cala il sipario dell'ultimo atto sulla sinistra israeliana, quella che una volta alla Knesset aveva 47 parlamentari su 120 e ha fatto almeno la metà della storia di questo Paese. Le Idi di marzo dei laburisti cominciano con un risveglio- choc. La notizia che Barak e Netanyahu hanno raggiunto l'accordo, nella notte. La sinistra parteciperà al governo Likud più Yisrael Beiteinu (ovvero Lieberman), più i religiosi dello Shas. Bibi concede a Barak cinque ministeri, soprattutto quelli della Difesa e per gli arabi, non molla gli Esteri che s'è ormai assicurato Lieberman, rassicura su alcuni punti del programma: piani di pace globali nell'area, buoni rapporti coi vicini (vedi Siria), rispetto degli impegni presi ad Annapolis (compresa la soluzione dei due Stati, finora invisa a tutta la destra) e sul ritiro dei coloni. La dote laburista è consistente: ora Netanyahu può contare su 66 deputati su 120 e presentarsi prima del 3 aprile al presidente Shimon Peres. Con un governo più presentabile all'estero (vedi Obama) e meno ricattabile dai piccoli partiti della destra. C'è un ma, però. Ed è la reazione che subito ha la metà del partito. L'ex leader ed ex ministro Amir Peretz con altri sei deputati — proprio quelli che farebbero ridiscendere la coalizione all'inutile quota 59 — scrive una lettera di fuoco a Bibi e a Lieberman: «Non contate su di noi in aula, l'impegno preso da Barak non è per noi vincolante». E l'annuncio della battaglia che si consuma il pomeriggio, al centro congressi di Tel Aviv, quando i 1.470 delegati sono chiamati a ratificare l'accordo. Volano parole pesanti, piovono lacrime copiose, battimani, cori da stadio, fischi. La minaccia della scissione: «Credo che sarà difficile lavorare ancora insieme» (Peretz). Il richiamo alle radici: «Rabin diceva che non abbiamo un Paese di riserva, ed è ancora così: pensate al partito, ma anche al Paese» (Barak). Alla fine «sono felice che passi la linea del governo», dice Ofer Eini, storico laburista, mentre i più giovani ritmano «di-sa-stro!». Barak «è come Nerone che suona la cetra mentre la sua Roma brucia?», scriveva stamane il quotidiano Ma'ariv. La risposta del leader arriva la sera, quando l'incoronazione è avvenuta: «La vita non è un film o un reality show. Ho fatto quel che il realismo m'imponeva di fare».
CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Il 'freddo' e 'l'ansioso', insieme nei commando "
Dieci minuti e tre parole — «Silence, ma chérie» —, rivolte alla hostess belga, bastano a Ehud Barak per liberare gli ostaggi del volo Sabena 572, dirottato da un commando palestinese. Trentasette anni fa. Lui è il comandante e Benjamin Netanyahu il suo vice, Sayeret Matkal le forze speciali più speciali dell'esercito israeliano. I due politici hanno speso molte parole e settimane di trattative per tornare nella stessa squadra, a gradi invertiti: Bibi, 59 anni, al comando da premier, Ehud (67) come ministro della Difesa. «Sono una coppia naturale — scrive Aluf Benn sul quotidiano Haaretz — al di là della passione comune per i sigari cubani, i miliardari e il lusso. Entrambi considerano Israele un'isola occidentale fortificata nel cuore di un oceano arabo-musulmano. Entrambi non amano le grandi operazioni militari e preferiscono le mosse clandestine». Lo stratega Barak privilegia i raid e le missioni lampo. «Mettetegli davanti una mappa del Medio Oriente — racconta chi ha lavorato con lui — e chiedetegli di segnare gli obiettivi: farà un cerchio attorno alla testa di Hassan Nasrallah o di Khaled Meshaal, piuttosto che guidare un'invasione del Libano ». Il politico Barak fatica ancora a togliersi di dosso la fama di premier più odiato nella Storia del Paese (al secondo posto viene proprio il nuovo alleato). Tutti e due hanno lasciato il potere prima di quanto volessero (Netanyahu è durato meno di tre anni, Barak meno di due). Tutti e due hanno usato il periodo da primi ministri in pensione per arricchirsi, tra conferenze internazionali e investimenti riusciti. Stroncato da Sharon alle elezioni del 2001, il leader laburista ha fondato una società che ha fatturato quasi sei milioni di euro, prima del suo ritorno in politica. La cena decisiva per le trattative sulla coalizione di governo si è svolta nell'attico di Barak, trentaduesimo piano dei grattacieli Akirov, torri extralusso nel nord di Tel Aviv. Nel 1973, erano sullo stesso volo di ritorno dagli Stati Uniti, neo-diplomati all'Mit (Netanyahu) e a Stanford (Barak) per combattere nella guerra del Kippur. Tre anni dopo, un'altra operazione del Sayeret Matkal segna le loro vite: Yonatan, fratello maggiore di Bibi, resta ucciso nel raid di Entebbe, in Uganda. Il piano era stato coordinato da Barak ed è Nava, la prima moglie, a chiamare la fidanzata di Yonatan per darle la notizia. Da allora, nell'anniversario dell'operazione, Ehud e Bibi si ritrovano davanti alla lapide sul Monte Herzl. Sfidanti nelle elezioni del 1999 (le ultime con il voto diretto del premier, vinte da Barak), si sono trattati molto meglio degli slogan aggressivi dei loro partiti. «Bibi non è malvagio e non è così superficiale quanto gli avversari, anche noi, cercano di dipingerlo», aveva detto Ehud al New York Times. Netanyahu aveva ricambiato: lo ammira e lo giudica un uomo di sostanza, che come lui ha relazioni complicate con i collaboratori. «Solo il carattere dei coniugi può rovinare questo matrimonio meraviglioso», continua Aluf Benn su Haaretz. E ricorda che Ehud Olmert aveva invitato Barak nel governo considerandolo un amico, per poi ritrovarsi un rivale sovversivo. Da giovane ufficiale, Barak tagliava le comunicazioni con il quartier generale qualche ora prima della missione: non voleva che i comandanti, più nervosi di lui, lo richiamassero indietro all'ultimo momento. Il freddo Ehud — prevedono gli analisti — metterà alla prova i nervi dell'ansioso Bibi.
Il FOGLIO - " Israele si dà un governo mentre si apre la crisi di coscienza di Tsahal "
Gerusalemme. L’offerta di Benjamin Netanyahu a Ehud Barak era “irrifiutabile”, aveva scritto Haaretz. Così, dopo il sì dei laburisti di ieri, il governo di unità nazionale prende forma in Israele. Il leader del Likud è riuscito in un’impresa che molti ritenevano impossibile, scardinando i pregiudizi sia sul “falco” Avigdor Lieberman e il suo partito Yisrael Beitenu sia su Barak e Avoda. Il governo che esce dalla sapiente diplomazia di Netanyahu rimette in discussione “la svolta a destra” tanto temuta dentro e fuori il paese, in un momento in cui Israele è alle prese con una crisi di coscienza che affonda le radici nella guerra di Gaza di inizio anno. E’ l’autocritica dentro a Tsahal, fatta da alcuni soldati, che ha portato l’esercito ad aprire un’inchiesta (oltre che un solerte funzionario dell’Onu a Ginevra a presentare un rapporto in cui si mette in dubbio la legalità delle operazioni di Gaza). Le testimonianze dei soldati hanno riaperto una ferita nel paese che s’interroga sulla guerra, su come farla e su come evitarla, mentre dalla Striscia di Gaza hanno ricominciato a volare i razzi sul territorio israeliano con cadenza giornaliera. I racconti, riportati dai giornali, descrivono regole d’ingaggio poco ferree e violenze contro civili. Un militare ha spiegato di aver ricevuto l’ordine di sparare e uccidere una signora anziana che camminava a 100 metri di distanza. In un altro caso, un cecchino israeliano avrebbe ucciso una madre e i suoi due figli quando la donna, non avendo capito l’ordine ricevuto, avrebbe girato nella direzione contraria a quella richiesta. Il capo di stato maggiore, Gabi Ashkenazi, sostiene che Tsahal sia “l’esercito più morale al mondo” e ricorda che prima di ogni bombardamento l’aviazione fa piovere volantini che chiedono l’evacuazione dei civili. Dice che l’autocritica andrà sino in fondo, che gli eventuali errori saranno puniti, caso per caso. Lo stesso dichiara il ministro della Difesa, quel Barak che ora una parte del partito addita come falco perché si è battuto per restare in un governo di falchi. Il manualetto La pubblicazione delle testimonianze ha riaperto il dibattito sulle regole d’ingaggio in un conflitto non convenzionale, diverso dalle guerre combattute da Israele prima del 2006. Ashkenazi sottolinea come “Hamas abbia scelto non a caso di combattere in zone urbane e abbia trasformato aree residenziali in teatri di guerra, scuole in posti di commando e installazioni pubbliche in nascondigli per le armi”. Lo scontro dei numeri e delle tattiche va avanti da mesi. Persino Amnesty International, solitamente monocorde nel denunciare Israele e la sua forza sproporzionata, aveva accusato Hamas di utilizzare la popolazione – donne e bambini soprattutto – come scudi umani, una pratica che il movimento aveva già usato in passato, quando dai minareti delle moschee chiamava gli abitanti del quartiere ad assieparsi sul tetto della casa di un leader che aveva appena ricevuto un avviso d’evacuazione. Il rapporto di Amnesty non aveva fatto notizia naturalmente, ma il malessere nella Striscia c’era, come aveva raccontato anche Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera: “Perché insistono nel gonfiare le cifre delle vittime? Alla fine la verità potrebbe venire a galla”, gli dicevano i colleghi. Le testimonianze di questi giorni rivelano un dramma interno all’esercito. Secondo il New York Times, si tratta della “lotta tra liberali laici e religiosi nazionalisti per il controllo dell’esercito e della società”. I racconti riportati da un istituto vicino alla sinistra laica mostrano il crescente disagio di una parte della società nei confronti dei militari religiosi, accusati di combattere una specie di guerra santa. Nell’agosto del 2007, un sondaggio del quotidiano Maariv ha rivelato che il 40 per cento dei cadetti del corso ufficiali apparteneva al movimento del sionismo nazionalista e religioso, figlio degli insediamenti. Quattro dei dieci soldati uccisi a Gaza erano giovani religiosi. Secondo Almog Oz, sociologo, le nuove leve vanno a inserirsi nei buchi lasciati liberi dai rampolli delle famiglie dell’élite laica e ashkenazita, un tempo scheletro dell’Idf. Durante “Piombo fuso”, tra i militari circolava un piccolo manuale, approvato dal rabbinato dell’Idf, con molte citazioni del rabbino Shlomo Aviner. “Quando mostri pietà a un nemico crudele – è scritto – sei crudele verso soldati puri e onesti”.
Il FOGLIO - " Barak di lotta e di governo "
Adicembre era stato Amos Oz a dire che Ehud Barak è colluso con i coloni. Ieri ci ha pensato il quotidiano Haaretz: “E’ naturale per lui entrare in un governo di destra”. Il ministro della Difesa israeliano Barak farà parte del governo Netanyahu-Lieberman e anche il Partito laburista ha scelto di seguirlo. Evitando così di liquidare la storia della sinistra israeliana che ha fatto lo stato ebraico. Chi dice che Barak sta distruggendo i laburisti dimentica che è stato l’elettorato a relegare il partito di Ben Gurion al rango di ultraminoranza. Due giorni fa Barak aveva fatto infuriare i suoi annunciando che non avrebbe smobilitato l’insediamento di Ofra. L’inganno ideologico consiste nel pensare che il ministro che ha fatto la guerra di Gaza sia un post sionista, un appeaser alla stregua di altri laburisti quali Yossi Beilin e Avraham Burg. Barak è un “falco laico, altro che colomba” dice il professor Sprinzak. Non ha un linguaggio da politicante, ma altisonante di chi dice che “difenderemo ogni ebreo, ovunque si trovi”. Il Barak che fu prigioniero di Oslo e si umiliò davanti ad Arafat non esiste più. E allora, a Camp David, non si parlava di messianismo iraniano con le propaggini di Hamas ed Hezbollah. Noto per il suo umorismo sugli arabi, Barak è un nazionalista di sinistra molto simile all’Ariel Sharon uscito dal Likud, di quelli che si vedono nel Golan, fucile in spalla ma nessuna simpatia per chi vuole opprimere i palestinesi. Difficile dimenticarsi la volta in cui Barak disse che “nella destra estrema io sento una combinazione di profondo fatalismo, di ansietà diasporica e di messianismo, avvolti in una fiera retorica nazionalista. C’è in questo una grande contraddizione. Ma nelle emozioni, mi sento affine a loro”. Gli insediamenti non sono mai cresciuti tanto quanto sotto Barak, è il soldato più decorato della storia d’Israele, è ideologico sul tema dell’Olocausto come molti likudnik e ha un rapporto intimo con il sionismo, da figlio di due polacchi pionieri e intellettuali come quasi tutti i leader di destra. Per questo e altro potrebbe essere l’uomo giusto per Netanyahu, che deve tranquillizzare l’opinione pubblica internazionale ma lanciare anche un segnale forte ai nemici d’Israele. Nel 1972 i ruoli erano invertiti e fu Barak a guidare il soldato Netanyahu alla liberazione di un centinaio di ostaggi ebrei su un volo di linea belga. E’ da allora che i due si rispettano. E assieme hanno sempre difeso al meglio Israele.
La STAMPA - A. B. Yehoshua " Israele voltafaccia a sinistra "
Il risultato delle recenti elezioni ha rappresentato un duro colpo per entrambe le ali della sinistra israeliana: quella più moderata del partito laburista, compartecipe negli ultimi anni delle coalizioni di governo di Sharon e di Olmert e i cui leader sono stati ministri della Difesa durante la seconda guerra del Libano e l’ultima operazione a Gaza, e quella del piccolo partito di opposizione Meretz. I laburisti, da decenni al centro della vita politica israeliana e il cui mitico leader, David Ben Gurion, è stato fondatore e primo ministro di Israele, hanno perso negli ultimi tempi la fiducia dei propri elettori. Tale defezione non è dovuta a una radicalizzazione del loro programma politico o alla corruzione dei loro dirigenti, ma a una tendenza diffusa a voltare le spalle ai partiti della sinistra che ha portato i laburisti a perdere quasi un terzo dei voti e a ottenere a malapena il dieci per cento dei seggi alla Knesset. Il piccolo partito di opposizione Meretz, a dispetto del mio voto, ha fatto registrare un risultato ancora più deludente. All’epoca del governo Rabin, più di quindici anni fa, il Meretz poteva contare sul dieci per cento dei seggi in Parlamento mentre nelle ultime elezioni ne ha ottenuto solo il due per cento, nonostante da anni non faccia parte di nessuna coalizione e non abbia responsabilità di sorta in insuccessi politici. Per anni, e con grande impegno, il Meretz ha tenuto alto il vessillo della pace e del compromesso e i suoi rappresentanti non sono mai stati coinvolti in scandali pubblici. Eppure, sebbene questo piccolo partito condensi il buono e il bello di Israele, alle ultime elezioni ha ottenuto solo tre seggi alla Knesset. Quali sono i motivi di questa débâcle? Da un lato la sinistra israeliana va fiera del fatto che gli ideali per i quali ha lottato per anni, ovvero il riconoscimento del diritto dei palestinesi a uno Stato che coesista in pace e in sicurezza a fianco di quello israeliano, sono ora accettati da gran parte dell’opinione pubblica. Dall’altro, proprio la sinistra propugnatrice di questi ideali perde l’appoggio dell’elettorato e viene abbandonata persino da vecchi sostenitori. Una delle spiegazioni di questa sconfitta viene indicata nella scelta degli elettori tradizionali della sinistra di votare Kadima, un partito composto per lo più da ex esponenti della destra, Tzipi Livni in testa, per arginare l’avanzata della destra radicale di Benyamin Netanyahu. Ma tale spiegazione, a mio parere, è puramente tecnica. Un voto mirato ad «arginare» la destra radicale non rispecchia il profilo socio-intellettuale degli elettori di Meretz, in gran parte persone istruite, sorrette da una precisa ideologia, appartenenti ai ceti medio alti e con un’ampia e profonda visione politica. Era infatti apodittico che l’incarico di formare una coalizione di governo non sarebbe stato affidato al leader del partito che avesse ottenuto il maggiore numero di voti ma a quello della coalizione con le migliori chance di costituire un esecutivo. E un voto a sinistra avrebbe comunque rafforzato il blocco guidato da Tzipi Livni. Ritengo che il drammatico voltafaccia degli elettori della sinistra sia probabilmente di origine emotiva. Senza rinunciare alle speranze di pace, molti di loro hanno espresso in questo modo la disapprovazione verso il tono cinico, lamentoso e ferocemente critico nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni recentemente adottato da portavoce e giornalisti della sinistra (soprattutto da quelli di Haaretz, il più importante quotidiano liberale di Israele). Durante l’ultima operazione a Gaza molti di loro non hanno esitato a bollare i loro connazionali come «criminali di guerra» e ad accogliere le posizioni dei palestinesi senza muovere alcuna critica verso le loro aggressioni. Nell’opinione pubblica si è diffusa la sensazione che tali personaggi avessero perso il naturale senso di solidarietà col loro popolo e soprattutto con gli abitanti del Sud di Israele, bersagliati dal fuoco di Hamas dalla striscia di Gaza. Talvolta sembrava che i loro attacchi velenosi non fossero rivolti a questa o quella decisione del governo ma si unissero alle critiche della sinistra mondiale verso la legittimità stessa di Israele. La negazione dell’ideale di uno Stato ebraico è infatti comune a circoli religiosi ultraortodossi e alla sinistra antisionista. Le fasce più deboli della società israeliana hanno spesso criticato la sinistra nei seguenti termini: voi vi preoccupate più degli arabi che di noi. Tali critiche sono state puntualmente respinte. Per la prima volta però ho la sensazione che alcuni miei vecchi amici, accantonato l’impegno della lotta ideologica a favore di «due stati per due popoli», principio ormai generalmente accolto, mantengano una carica di energia polemica non ben finalizzata e abbiano cominciato a lanciare fuoco e fiamme contro le fondamenta stesse dello Stato. Io personalmente non ho fatto dietrofront, non ho cambiato opinione e alle ultime elezioni ho votato, come tradizione, per il piccolo Meretz. Ritengo però che se la sinistra israeliana non vuole scomparire alle prossime elezioni deve farsi un approfondito esame di coscienza, non solo a livello politico e organizzativo ma anche a livello emotivo e spirituale.
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