Ritiro Usa dall'Iraq. Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 09/03/2009, a pag. 8, la cronaca di Francesco Semprini dal titolo " Obama accelera il ritiro dall'Iraq " e l'intervista dello stesso Semprini a Gary G. Sick dal titolo " Con la partenza degli Usa la regione sarà più stabile ", dal CORRIERE della SERA, a pag. 24 l'analisi di Antonio Ferrari dal titolo: " Ripensamenti da uno Stato canaglia " e da REPUBBLICA, a pag. 11, l'articolo di Bernardo Valli dal titolo " Trattare con tutti, isolare Bin Laden la svolta degli Usa da Gaza a Kabul " . Ecco gli articoli:
La STAMPA - Francesco Semprini : " Obama accelera il ritiro dall'Iraq "
La data dell’8 marzo, con l’annuncio del ritorno a casa entro il mese di settembre di 12 mila militari americani assieme a 4 mila soldati britannici, segna un’accelerazione dell’inizio del ritiro degli Stati Uniti dall’Iraq. In questo modo la presenza del contingente che fa capo al Pentagono diminuirà in termini quantitativi da 14 a 12 brigate e saranno ridotte anche diverse unità di supporto. Contemporaneamente cominceranno a partire anche i 4100 britannici. Allo stesso tempo il comando americano trasferirà il controllo di 74 tra circoscrizioni territoriali e impianti strategici alle autorità irachene entro la fine di marzo in accordo con quanto stabilito dal governo di Baghdad.
«Ci siamo accordati per un richiamo di 12 mila soldati americani entro settembre», spiega il portavoce del governo iracheno, Ali al-Dabbagh, nel corso di una conferenza stampa congiunta col portavoce militare Usa, il generale David Perkins. Si tratta del primo passo concreto verso la fine della lunga campagna irachena così come deciso dal presidente Barack Obama che in febbraio aveva annunciato di voler ritirare la maggior parte degli attuali 135 mila militari americani entro l’agosto del 2010, lasciando sul terreno dai 35 ai 50 mila uomini col compito di addestrare le forze di sicurezza irachene, di proteggere il personale americano civile che rimarrà ancora sul territorio, di presidiare le aree maggiormente a rischio e di condurre operazioni antiterrorismo mirate, in previsione di un ritiro totale entro la fine del 2011.
Secondo il generale, il ritiro delle truppe americane arriva in un momento in cui «le violenze sembrano aver raggiunto il loro minimo» dall’inizio della presenza americana. «Al Qaeda e altri estremisti sono ancora attivi», dice sottolineando però che le loro azioni si sono ridotte a disperati tentativi di minare il processo di pace che caratterizza la grande maggioranza del Paese.
Ma proprio ieri un grave attentato ha sconvolto nuovamente la capitale. Un kamikaze moto si è fatto esplodere nella folla davanti a un centro di reclutamento dell’accademia di polizia. Il bilancio è di 30 morti e 62 feriti, in maggioranza reclute.
«Quanto avvenuto oggi non metterà a repentaglio i progressi compiuti in questi ultimi tempi», si è affrettato a dichiarare il portavoce del governo, al-Dabbagh. Ma la sicurezza del Paese è ancora una questione tutt’altro che risolta in alcune regioni visto che a fronte di una pacificazione di molte province sia sunnite sia sciite, ottenuta coinvolgendo nel processo i capi tribali, Baghdad e le zone a maggioranza sunnita di Ninive e di Diyala, dove è più attiva al Qaeda, restano ancora instabili. Nonostante le violenze si siano ridotte inoltre, le donne continuano ad essere le vittime «silenziose e dimenticate» della povertà, dell’insicurezza e dei retaggi religiosi e culturali che ancora regnano nel Paese. Lo afferma un rapporto pubblicato proprio in occasione della festa della donna dalla Ong britannica Oxfam, che denuncia ancora una volta «l’assenza di una voce» che parli a loro nome.
La STAMPA - Francesco Semprini: " Con la partenza degli Usa la regione sarà più stabile "
Ci chiediamo quale credibilità possa avere Gary G. Sick, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter il quale, durante la "rivoluzione" di Khomeini, si è di fatto arreso alla teocrazia dei mullah, che hanno tenuto in ostaggio tutti gli impiegati dell'ambasciata americana a Teheran. Non capiamo, con un passato simile, avere oggi una qualche credibilità. Ecco l'intervista:
La partenza degli americani contribuirà ad accelerare il processo di maturazione politica e istituzionale dell’Iraq». Ne è convinto Gary G. Sick, esperto di Golfo Persico e già consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter durante la crisi degli ostaggi in Iran, secondo cui è interesse di Teheran contribuire alla stabilizzazione del Paese.
Come giudica l’annuncio del ritiro del primo scaglione?
«Un passo in avanti nella giusta direzione. Il richiamo del resto era voluto dalle autorità irachene e riconosciuto come necessario dall’amministrazione di Washington».
Cosa succederà dopo la partenza degli americani dall’Iraq?
«Il Paese inizierà quel processo di maturazione istituzionale, politica, economica e sociale. Ci vorrà del tempo, ma la presenza americana avrebbe causato un rallentamento».
Cosa intende?
«Intendo dire che la partenza degli americani aiuta stabilizzare il Paese e svuota e priva della sua arma più efficace al Qaeda la cui presenza sul territorio è già ridotta ai minimi termini. Inoltre la presenza degli americani era un motivo di sfida per Teheran che sostiene le milizie sciite».
L’Iran potrebbe contribuire a stabilizzare il Paese?
«Le principali preoccupazioni di Teheran sono che non scoppi una guerra civile aldilà dei propri confini e che Baghdad non invada di nuovo i suoi territori e per fare ciò deve sperare nella stabilizzazione del Paese e del governo».
Non c’è il rischio di un’eccessiva influenza?
«Non penso che l’obiettivo di Teheran sia di fare dell’Iraq uno stato vassallo, e Baghdad, sebbene abbia un governo a maggioranza sciita, non ha nessuna intenzione di lavorare al servizio della Repubblica islamica. Ritengo invece che tra Iran e Iraq potrebbe nascere una partnership ma anche una competizione, non militare ma politica, per aggiudicarsi la leadership nella regione».
E gli Usa cosa ci guadagnano?
«La missione in Iraq costa troppo. Inoltre il ritiro delle truppe diminuisce la visibilità Usa nella regione e contribuiosce al rilancio di immagine a cui lavora Washington».
Quali sono i fattori di rischio per la sicurezza in Iraq?
«Le rivalità politica e tra fazioni che potrebbero generare tensioni. Il primo banco di prova sono le prossime elezioni».
Quindi è una questione esclusivamente politica?
«Ci sono altri fattori, ad esempio se i sunniti dovessero perdere troppo potere potrebbe intervenire Riyadh attraverso il sostegno finanziario e a quel punto costringerebbe l’Iran a entrare in scena magari facendo leva su aree come Bassora una delle più legate a Teheran. Poi c’è la questione delle forze di sicurezza: l’esercito iracheno non è ancora abbastanza forte e affidabile da fronteggiare pericoli esterni. I fattori di rischio sono tanti, ma la domanda vera è chi li deve risolvere, Baghdad o Washington?».
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari: " Ripensamenti da uno Stato canaglia"
Nel Medio oriente, dove i gesti e il linguaggio del corpo contano assai più delle parole e delle promesse, la visita a Damasco dei due inviati americani, Jeffrey Feltman, vicesegretario di Stato, e Daniel Shapiro, membro del Consiglio di sicurezza nazionale, è stata immediatamente descritta come una storica svolta. Doppia esagerazione. Di storico infatti c'è ben poco, perché tra Usa e Siria si alternano da trent'anni aperture e violente accuse reciproche. E poi la parola «svolta», da quelle parti, ha perso il proprio significato.
Più realisticamente, si può dire che la volontà dell'Amministrazione-Obama di imprimere un passo diverso agli sforzi diplomatici per affrontare globalmente i problemi della regione, si stia realizzando con gesti concreti. Fino a pochi mesi fa, la Siria era fra i «Paesi canaglia», serie cadetta dell'«Asse del male». Ora si sta facendo strada, tra molte difficoltà, l'idea che Damasco non sia parte del problema, ma della sua soluzione. Gli Usa hanno capito che isolare ancor più l'unico regime arabo laico rimasto è un errore; e la Siria ha capito che cercare rifugio nell'alleanza con l'Iran, e continuare a incendiare l'ala dura di Hezbollah e Hamas, ha un prezzo insostenibile: politico, strategico ed economico. Per questa ragione, la missione di Feltman e Shapiro, e i «fruttuosi colloqui» (li hanno definiti così) con il ministro degli Esteri Walid Muallem, possono essere segnali importanti. Washington chiede fatti, e non pochi: raffreddare le fittissime relazioni con l'Iran; limitare quelle con Hezbollah e Hamas; non intralciare il processo di stabilizzazione dell'Iraq; riconoscere l'indipendenza, la libertà e la sovranità del Libano, che Damasco tratta come un protettorato. In cambio offre alla Siria di riappropriarsi del ruolo che le compete nella regione, con indubbi benefici. A partire dal sostegno per ottenere la restituzione delle alture del Golan, occupate da Israele.
Bill Clinton giunse a pochi metri dal traguardo nel 2000, quando le trattative con il presidente Hafez el Assad, padre dell'attuale capo dello stato Bashar, si interruppero a Ginevra, quando restava in discussione soltanto un minuscolo lembo di costa sul lago di Tiberiade. La Siria rivuole tutto il suo Golan, e su questo punto non cederà mai. Però sa bene che se in Israele si farà un governo di destra, è probabile una nuova paralisi. Quindi, ha assoluto bisogno dell'appoggio americano.
Ma c'è un altro punto che Damasco ritiene irrinunciabile: evitare che il processo internazionale sull'assassinio dell'ex premier libanese Rafic Hariri, avviato formalmente il 1˚marzo, si trasformi in una campagna di accuse contro la Siria e i suoi apparati interni, ritenuti coinvolti nel crimine. È ovvio che sia quasi impossibile processare, al di là degli individui, un intero regime. Però è significativo che Jeffrey Feltman, ora gradito ospite a Damasco, fosse ambasciatore a Beirut nei giorni della strage e non avesse nascosto i propri sospetti sulle responsabilità siriane.
Va detto che Bashar è ormai sufficientemente navigato per comprendere che gli interessi del suo Paese comportano sacrifici e comportamenti maturi. Sarà un caso, ma l'ala dialogante di Hamas, dopo le dimissioni del primo ministro palestinese Salam Fayyad, si appresta a riprendere i colloqui del Cairo per varare un governo di unità nazionale con il Fatah del presidente Abu Mazen. Senza i diktat che di solito arrivavano dall'estero. Anche da Damasco.
La REPUBBLICA - Bernardo Valli : " Trattare con tutti, isolare Bin Laden la svolta degli Usa da Gaza a Kabul "
Bernardo Valli sembra dispiaciuto che l'amministrazione Obama non abbia incluso Al Qaeda fra i suoi interlocutori e questo risulta chiaro dalla frase "Ovviamente Al Qaeda resta fuori da questo panorama: Bin Laden e i suoi devono rispondere dell´11 settembre e di tanti altri delitti. I loro misfatti non possono essere archiviati. Si tratta anche col demonio. Ok! Ma c´è demonio e demonio.".
Secondo Valli, Benyamin Netanyahu non prevede la nascita dello Stato palestinese. Questo è falso. E' uno Stato in armi, in linea con quello instaurato a Gaza da Hamas che Netanyahu non vuole ai propri confini. Si può dargli torto ? Ci chiediamo come Valli possa scrivere che " Ora Gerusalemme dovrà tener conto della politica di Washington. E questo accade ancora prima che si installi il nuovo governo di destra, il cui primo ministro per ora incaricato, Benjamin Netanyahu, non prevede la nascita di uno Stato palestinese. Nascita invece ufficialmente auspicata dagli Stati Uniti.". Ecco l'articolo:
«Noi vi tenderemo la mano se aprirete il vostro pugno». In altre parole: se si dimostrano disponibili, noi offriamo agli avversari la possibilità di trattare. Pochi, tra i vecchi nemici non ancora amici, sono esclusi dall´offerta. Il passato non è cancellato, puo´ essere archiviato. L´offensiva si muove in direzioni fino a ieri improbabili, se non proprio impensabili: i Taliban in Afghanistan, il regime siriano, l´Iran khomeinista, Hamas in Palestina, e naturalmente l´Iraq, che gli americani vorrebbero abbandonare o dove vorrebbero ridurre al più presto il loro intervento militare. Un tempo, nell´epoca Bush, quasi tutti questi soggetti meritavano soltanto maledizioni, scomuniche, minacce, interventi armati. Non sempre immeritati. Il nuovo e (ripeto) razionale principio si riassume in un interrogativo: con chi si tratta, se non con gli avversari?
Ovviamente Al Qaeda resta fuori da questo panorama: Bin Laden e i suoi devono rispondere dell´11 settembre e di tanti altri delitti. I loro misfatti non possono essere archiviati. Si tratta anche col demonio. Ok! Ma c´è demonio e demonio.
L´offensiva diplomatica abbraccia l´intera regione, tra l´Asia centrale e il Vicino Oriente, perché le crisi, alimentate dall´odio e della violenza, sia pure distinte, hanno tanti punti in comune. L´Iran aiuta i Taliban che operano in Afghanistan e gli uomini di Hamas che governano a Gaza; è inoltre il padrino degli Hezbollah libanesi, i quali sono sciiti come gli iraniani; ed esercita una forte influenza sul governo, in larga parte sciita, di Bagdad, alleato sempre meno docile degli americani. La Siria è un alleato storico dell´Iran e ospita i capi di Hamas in esilio. Il dramma palestinese tiene vivo il rancore del mondo arabo e in generale musulmano nei confronti dell´Occidente, del quale Israele sarebbe per loro un´emanazione.
Comincio da Hamas, il movimento islamico che controlla Gaza, e con il quale nessun occidentale, e ancor meno Israele, si dichiara disposto a negoziare direttamente, perché non ha rinunciato al terrorismo e rifiuta di riconoscere lo Stato di Israele. Nonostante questi vistosi ostacoli, è già iniziata un´operazione diplomatica di aggiramento, con l´obiettivo di recuperare Hamas, sempre nella speranza di rinsavirlo. Di condurlo alla ragione. Non possono essere interpretate altrimenti le dimissioni di Salam Fayyad da primo ministro del governo dell´Autorità palestinese a Ramallah, opposto a quello di Gaza controllato da Hamas. Rifiutato da Hamas e considerato un uomo vicino agli americani (che tra l´altro addestrano le forze di sicurezza dell´Autorità palestinese) Salam Fayyad era considerato uno dei principali ostacoli a una riconciliazione con Gaza e alla formazione di un esecutivo di unione nazionale. Il ritiro volontario (ancora da precisare) di Fayyad dovrebbe aiutare le discussioni in corso, cui partecipano gli egiziani e su cui gli americani contano per ridar vita a seri negoziati tra israeliani e palestinesi. La diplomazia americana punta dunque su un recupero di Hamas, e, stando tra le quinte, favorisce le trattative, al punto da sacrificare Fayyad. Se queste trattative prendessero una piega positiva, si potrebbero tra l´altro sbloccare gli aiuti per la ricostruzione di Gaza, che, stando alla politica d´oggi, non possono essere affidati soltanto a Hamas.
Mentre è in corso questa operazione, i rapporti tra l´amministrazione Obama e Israele conoscono alcune difficoltà. Si tratta di screzi che non mettono in discussione la salda, irrinunciabile alleanza tra la superpotenza e lo Stato ebraico, ma essendo nuovi, direi inediti, preannunciano rapporti meno facili che nel passato. Durante la sua visita a Ramallah, Hillary Clinton ha detto che la demolizione di case arabe a Gerusalemme Est «non aiuta il processo di pace». La frase del neosegretario di Stato ha indispettito il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, il quale l´ha definita «aria fritta» e l´ha attribuita all´atteggiamento della nuova amministrazione di Washington. L´ambasciata americana ha protestato definendo le parole del sindaco «un insulto» al capo della diplomazia degli Stati Uniti. Il governo di Gerusalemme si è scusato. L´incidente, insolito, anzi unico, unito alle pressioni diplomatiche affinché gli israeliani non espandano le loro colonie nei territori occupati (quattro passi ufficiali sarebbero stati compiuti in questo senso dall´ambasciata Usa), rivela appunto rapporti meno facili tra Washington e Gerusalemme. Un tempo Washington si adeguava alle volontà di Gerusalemme. Ora Gerusalemme dovrà tener conto della politica di Washington. E questo accade ancora prima che si installi il nuovo governo di destra, il cui primo ministro per ora incaricato, Benjamin Netanyahu, non prevede la nascita di uno Stato palestinese. Nascita invece ufficialmente auspicata dagli Stati Uniti.
Anche un dialogo con i Taliban sembrava un insormontabile tabù.
Adesso Barak Obama non lo esclude. Il generale David Petraeus, oggi responsabile militare della regione, forte della sua esperienza in Iraq, aveva già suggerito di prendere contatti con i Taliban «moderati». A Bagdad, Petraeus era riuscito a separare gli insorti saddamisti, ossia laici e nazionalisti, superstiti del vecchio esercito dissolto dagli americani, dalle organizzazioni islamiche integraliste, collegate ad Al Qaeda e composte da molti stranieri, provenienti dai paesi arabi. La scissione è in gran parte riuscita ed è stata decisiva. Nonostante gli attentati continuino, come dimostra la strage di ieri, il governo di Bagdad dispone adesso di truppe abbastanza efficaci da sostituire gli americani in molti settori. E questo consente agli Stati Uniti di alleggerire, sia pur non senza rischi, la loro presenza militare.
In Afghanistan fu commesso un errore.
L´intervento americano del 2001 non sconfisse del tutto i taliban, molti dei quali, rifugiatisi in Pakistan, hanno avuto il tempo di rafforzarsi e di ritornare poi in patria. In un conflitto o si distrugge definitivamente il nemico o si tratta con lui. In Afghanistan non avvenne niente di questo. Fu adottata una strategia perdente. Ora si cercherà, forse già lo si tenta, di agganciare i Taliban moderati. Esistono? Soltanto nel deserto non esiste destra e sinistra. E l´Afghanistan non è soltanto deserto.
Lo stesso vale nel molto più sofisticato Iran, dove integralisti e riformisti si scontrano politicamente, nella lotta per il potere, e si differenziano nel linguaggio.
Non tutti gli ayatollah ripetono le bestemmie, le insensatezze, del loro presidente contro Israele. O vogliono sfidare il mondo costruendo armi atomiche. Con la pazienza del saggio, che saprà essere intransigente, duro, se il pugno iraniano non si aprirà, Barak Obama ha invitato Teheran a partecipare alla conferenza sull´Afghanistan. Ha invitato gli avversari, i nemici. Con i quali si deve trattare. Con gli amici non ce ne è bisogno. Si parla. Lo stesso vale per la Siria, dove gli inviati di Obama sono già al lavoro. Siamo ancora ai primi passi. Ai primi approcci. Nulla è garantito. Ma si deve tentare.
Anche perché le minacce, le scomuniche, le maledizioni, i morti hanno dato soltanto minacce, maledizioni, scomuniche e morti.
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