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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Foglio - L'Opinione Rassegna Stampa
05.03.2009 Riflettori sull'Iran
Le analisi di Carlo Panella, Michael Sfaradi, l'apertura del ministro Frattini all'Iran e un ritratto di Khamenei

Testata:Il Foglio - L'Opinione
Autore: Carlo Panella - Michael Sfaradi
Titolo: «Cene diplomatiche e contatti col Pd per la missione di Frattini a Teheran - Il piccolo seminarista - Il fuoco nella polveriera, il folle gioco iraniano»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 05/03/2009, tre articoli sull'Iran. Il primo, a pag. III è l'analisi di Carlo Panella sulle manifestazioni di protesta sciite istigate da Teheran, il secondo, a pag. 4, è sull'apertura del ministro Frattini verso l'Iran e il terzo, a pag. III, è un ritratto dell'ayatollah Khamenei. Riportiamo, inoltre, dall'OPINIONE, l'analisi " Il fuoco nella polveriera, il folle gioco iraniano " di Michael Sfaradi sulla corsa al nucleare dell'Iran e sul tentativo di Obama di fermarla. Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - Carlo Panella : " Se Teheran sobilla insurrezioni sciite nei paesi del golfo "

Le manifestazioni di protesta di alcune centinaia di sciiti nella città saudita di Qatif e in altre località orientali della penisola – di cui ha dato notizia il giornale di Dubai Gulf News – segnalano la ripresa di una attività di destabilizzazione dei regimi del Golfo da parte di Teheran, centrata, appunto, sul contrasto tra regimi sunniti e minoranze (o maggioranze, come nel caso del Bahrein) sciite. Il tutto, come denunciano molti emirati del Golfo, nella prospettiva di fondare ovunque dei movimenti tipo Hezbollah, destabilizzarne i regimi, nella prospettiva di una esportazione della rivoluzione sciita non più soltanto nell’area libanese- mediterranea, ma anche a ridosso dell’Arabia Saudita. Teheran intreccia una duplice strategia: l’imposizione della sua potenza regionale (in questa area a discapito dell’Arabia Saudita) in medio oriente (a discapito dell’Egitto) e l’allargamento della Rivoluzione. Gli incidenti provocati da manifestanti sciiti sono diventati più frequenti negli ultimi mesi, prima in Kuwait, poi in Bahrein e adesso in Arabia Saudita. Così è successo il 23 febbraio scorso alla Medina, quando un gruppo di pellegrini sciiti si è scontrato con la polizia religiosa nei pressi della moschea di Maometto e del cimitero di al Baqi. La scintilla ha innescato le proteste nelle regioni in cui vive la minoranza sciita, vessata ed emarginata socialmente dal regime saudita a causa dell’ideologia wahabita-salafita ai cui occhi il culto sciita per i dodici imam è idolatria e viola il dogma dell’unicità di Dio. La regia iraniana di queste manifestazioni è emersa nei giorni scorsi, dopo i gravi incidenti di piazza tra dimostranti sciiti e la polizia del Bahrein a Manama e Malkya, cui sono seguiti gli arresti di 35 sciiti accusati di “attività terroristiche”. Queste manifestazioni erano state innescate da una fatwa dei leader religiosi sciiti del Bahrein contro quegli imam che si fossero piegati alla direttiva del governo che imponeva loro il divieto di predicare “contenuti di odio e di aggressività”. L’evidenza di una regia iraniana – quantomeno di una componente oltranzista del regime – dietro queste tensioni è emersa a inizio febbraio, quando l’ayatollah Ali Nateq Nouri, ex presidente del Parlamento e stretto collaboratore di Ali Khamenei, ha dichiarato che il Bahrein è “una provincia iraniana che deve la sua autonomia dalla madrepatria soltanto alla debolezza dello Scià che, nel 1971, non ebbe la forza politica per impedirne l’indipendenza, riportandolo alla patria iraniana”. E’ un appello agli sciiti del Bahrein alla rivolta proveniente dalla cerchia più vicina alla dirigenza rivoluzionaria. Nei giorni successivi, il governo iraniano – non le autorità politico-religiose – ha detto che si era trattato di un “malinteso”, ma il Bahrein ha mantenuto il divieto di attracco alle navi iraniane e interrotto le trattative per la cooperazione nel campo metanifero. Le mire annessionistiche degli oltranzisti iraniani hanno dato corpo alle denunce del settembre del 2008 di Abdel al Muwad, parlamentare del Bahrein, e di Nasser al Duwailah, deputato del Kuwait: “Varie reti di spie iraniane operano nei paesi del Golfo per destabilizzarli e attentare alla loro sicurezza nazionale. Non ci sono dubbi che tali reti saranno usate per destabilizzare il Golfo in caso di guerra”. Nei mesi precedenti, scenari simili a quelli odierni del Bahrein e dell’Arabia saudita si erano proposti anche in Kuwait. Le autorità kuwaitiane hanno represso molte manifestazioni di sciiti e arrestato alcuni sospetti dirigenti di Hezbollah Kuwait. Due parlamentari sciiti sono stati espulsi dal loro partito – a maggioranza sunnita – per avere difeso Imad Mughniyeh (il leader militare iraniano di Hezbollah ucciso a Damasco) dalle accuse contestategli dalla giustizia kuwaitiana di essere la mente del dirottamento di un aereo nel 1988. La regia di Teheran è confermata dalla minaccia del presidente, Mahmoud Ahmadinejad, di chiudere lo Stretto di Hormuz a causa della sovranità di tre isole alla sua imboccatura (sotto la sovranità degli Emirati arabi uniti) e dalla decisione di sottrarre alla Marina regolare iraniana a favore delle forze marine dei pasdaran l’intera “sicurezza” del Golfo. Questo scenario rimanda a quello successivo alla rivoluzione, cui seguirono una serie di insurrezioni sciite in Bahrein, Kuwait, Oman e Arabia Saudita, che poi sfociarono in incidenti alla Mecca, il tutto a opera di emissari iraniani incaricati, come in Libano, di costruire il Partito di Dio, Hezbollah appunto. Nel 1980 e 1981, gli incidenti, con decine di morti e centinaia di feriti, furono provocati da cortei di iraniani che lanciavano gli slogan della rivoluzione. Nel 1987, invece, Teheran organizzò alla Mecca una spedizione per denunciare l’alleanza del governo saudita con Saddam Hussein, scatenando incidenti che fecero decine di morti. Chiusa nel 1988 la guerra con l’Iraq, per una ventina d’anni l’Iran ha abbandonato la pressione insurrezionale nel Golfo e l’ha concentrata su Libano e Palestina. Da due anni però, assieme alla costruzione dell’atomica e nella prospettiva di usarla come deterrenza a favore della sua espansione rivoluzionaria, l’area del Golfo è ridiventata prioritaria per Teheran.

Il FOGLIO - " Cene diplomatiche e contatti col Pd per la missione di Frattini a Teheran "

Una “potenza regionale”. Riconoscere Teheran come “potenza regionale”? Si ragiona soprattutto su questo punto alla Farnesina dopo l’apertura del governo italiano alla Repubblica islamica. Una linea che inaugura un nuovo percorso diplomatico ancora tutto da verificare che, almeno finora, non mette in discussione la lealtà al programma di sanzioni sul dossier nucleare. Il governo Berlusconi vuole ottenere la partecipazione dell’Iran alla terza giornata del G8 allargato a 25 paesi e coinvolgere i pasdaran sul fronte di crisi Afghanistan- Pakistan (Afpak). Il risultato è auspicato soprattutto dagli Stati Uniti, ma comporta il riconoscimento – non scontato, ma raggiungibile – dell’Iran come “potenza regionale”. I pasdaran insistono su questo punto e chiedono all’Italia di considerare la Repubblica islamica con la dignità che appartiene a ogni paese diplomaticamente protagonista. Questa ambizione è stata espressa già nei primi giorni di febbraio, quando l’ambasciatore Fereidoun Haghbin è stato formalmente ricevuto alla Farnesina. Per la prima volta, il diplomatico iraniano ha palesato l’auspicio del suo governo, utile per far evolvere i rapporti bilaterali con l’Italia, ma soprattutto per raggiungere una collaborazione proficua sull’Afghanistan in sede internazionale. Il governo italiano valuta la questione con la massima cautela, perché non è semplice sanzionare la Repubblica islamica d’Iran e chiedere al tempo stesso di partecipare alla risoluzione di una crisi in qualità di paese alleato. Molte cose ancora da chiarire. Il confronto definitivo che il ministro degli Esteri, Franco Frattini, avrà a Teheran entro il mese di marzo è dunque ancora in fase di preparazione, con la diplomazia che da giorni si muove senza sosta. Le autorità iraniane hanno ribadito all’Italia che, per collaborare al meglio, bisognerà prima fare chiarezza sullo status della Repubblica islamica. Non a caso, la scorsa settimana, il ministero degli Esteri di Teheran ha inviato a Roma l’ambasciatore Mostafa Doulatyar. Per “preparare” la visita del capo della diplomazia italiana e oliare – fin dove possibile – i meccanismi di collaborazione che potrebbero portare l’Iran al prossimo G8, magari senza l’appellativo di “stato canaglia”. Questa sera il sottosegretario con delega al medio oriente, Stefania Craxi, è stato invitato a cena nella residenza dell’ambasciatore iraniano per un nuovo confronto. Segno che ci sono ancora molte cose di cui parlare prima della visita a Teheran, nonostante i due abbiano già avuto vari incontri. Si mostrano soprattutto i numeri, sui quali Italia e Iran sono d’accordo: su un interscambio complessivo con l’Europa che si aggira attorno ai 24 miliardi di euro ogni anno, Roma resta saldamente al primo posto come partner commerciale con 6 miliardi di euro (4 di import e 1,8 miliardi di export). Numeri che la Farnesina tiene in seria considerazione nella definizione dei colloqui bilaterali almeno al pari di come ci avevano abituato a fare l’ex premier Romano Prodi e l’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema, anche a costo di sacrificare un confronto schietto sul dossier nucleare – non previsto per la missione a Teheran neppure di Frattini – e sulla conseguente esportazione della Rivoluzione islamica in medio oriente. Afghanistan bipartisan. Quattrocento chilometri di frontiera diretta con l’Iran necessitano, secondo il capo della diplomazia italiana, di un compromesso con i paesi vicini. In cima all’agenda c’è un coinvolgimento dell’Iran che punta a ridimensionare il traffico delle armi e della droga e a sviluppare una collaborazione per individuare le modalità di finanziamento delle tribù locali. Entro aprile, l’aumento del contingente – che avrà carattere permanente – sarà votato in Parlamento. Il piano prevede un progressivo dispiegamento di forze a Herat, che raggiungerà 2.800 unità in tutto il paese. I dettagli saranno certificati dal voto parlamentare. Ma nei corridoi della Farnesina si scommette che stavolta non ci saranno polemiche, neppure sull’installazione di un secondo battaglione nella zona di confine a Farah. Il titolare della Farnesina ha infatti già ottenuto un accordo di massima con alcune decine di parlamentari del Pd grazie ai colloqui riservati con il suo omologo del governo ombra – oggi azzerato dalla nuova segreteria del Pd di Dario Franceschini – Piero Fassino.

Il FOGLIO - " Il piccolo seminarista "  

In Iran basta alzare lo sguardo per incontrare il suo. L’ayatollah Khamenei ti accoglie all’aeroporto e non ti lascia più. I suoi murales giganteggiano nelle strade. Le sue foto ti scrutano al bazaar, ti accompagnano in ogni ufficio, a scuola e al ristorante. La sua espressione severa ti è familiare. Ma la sua essenza è difficile da catturare. Nonostante i suoi trent’anni di vita pubblica Khamenei è una figura misteriosa, tanto ubiqua quanto inafferrabile. Tanto che, per i giornalisti stranieri in visita a Teheran, la Guida suprema della Repubblica islamica non rappresenta quasi mai una storia da raccontare. Privo di un carisma evidente, Khamenei appare sempre uguale a se stesso, millimetricamente fedele alla sua effigie, immoto e prevedibile come la sua barba grigia e gli occhiali dalla grande montatura scura. Le sue parole sono spesso taglienti, come quelle con cui ieri ha definito Israele un “cancro” e il presidente americano, Barack Obama, “una copia di Bush” e “un sostenitore del terrorismo”. Ma non colpiscono quanto le roboanti invettive di Mahmoud Ahmadinejad o i gesti attentamente calibrati del “mullah khandan” (il mullah sorridente, come viene soprannominato in farsi) Khatami. Controcanto ora dei riformisti, ora dei falchi, Khamenei campeggia sullo sfondo mentre Hashemi Rafsanjani, Khatami e Ahmadinejad si contendono la ribalta. Questa tendenza a “sparire” è la cifra dei suoi ultimi vent’anni. Forse anche il segreto del suo successo. Quando nel 1981 gli fu offerta la poltrona di presidente di primo acchito declinò spiegando che la sua salute cagionevole (argomento di dibattito ancora oggi, Khamenei viene spesso descritto come un malato in fase terminale) non gli avrebbe consentito di svolgere le sue funzioni con l’energia necessaria. Nel giugno di quell’anno aveva scampato la morte per un soffio: una bomba nascosta in un registratore dai Mujaheddin-e-Khalq era esplosa a pochi metri da lui durante una conferenza stampa. Khamenei fu ferito e perse l’uso della mano destra. Nel discorso con cui infine accettò l’incarico disse: “Sono un individuo con molti difetti e mancanze, sono soltanto un piccolo seminarista”. Qualche anno prima di quella consacrazione, il “piccolo seminarista” aveva condiviso una cella con un “comunista”, il giornalista Hushang Assadi, che ha rievocato così il primo incontro: “Sedeva su un mucchio di coperte nell’angolo della cella. Era molto magro con una lunga barba nera. Si era fatto un turbante con la camicia. Quando la guardia carceraria chiuse la porta dietro di me, Khamenei sorrise e mi fece posto sulle coperte accanto a sé. La sera, rivolto verso una piccola finestra, sussurrava passaggi del Corano, recitava preghiere e benedizioni inframmezzate da un pianto amaro. Era un comportamento religioso che mi rincuorava. Quando mi lasciavo andare allo sconforto, Khamenei mi diceva: ‘Alzati Hushang, camminiamo’”. Avevano stretto amicizia. Khamenei rideva delle sue barzellette (“ma non quelle osé, che non gli piacevano”) e fumava le sue sigarette. Dopo tre mesi li separarono. “Tremava. Mi tolsi la giacca e gliela diedi. Ci abbracciammo e le nostre lacrime si mischiarono. Khamenei disse: in una Repubblica islamica nessuna lacrima solcherà il viso di un innocente”. Era il 1978. Tre anni dopo, mentre il seminarista diventava presidente, il comunista Assadi tornava a varcare le porte di una prigione, trascinato dalle guardie del suo vecchio amico. Seguirono 666 giorni di isolamento e torture. Ma chi è davvero Seyed Ali Hossein Khamenei? Un leader schivo e riluttante, un luogotenente che veste panni troppo importanti per lui? O un falso modesto che nasconde la sua ambizione dietro un’umiltà di maniera? Dissertazioni dotte delineano il ritratto di un despota incerto, isolato dalla realtà circostante, manipolato, di volta in volta dalla lobby degli affari o da quella del fucile, o il profilo di un kingmaker in un complesso di interessi volti a perpetuare l’ortodossia rivoluzionaria. Gli analisti iraniani puntualizzano che focalizzare l’attenzione su Ahmadinejad o Khatami è ingannevole perché in Iran i presidenti sono funzionali a un gioco delle parti utile soltanto a moltiplicare le opzioni di Teheran: che si parli di nucleare o dei rapporti con Washington, a decidere è sempre Khamenei. E tuttavia, circoscriverlo in una rete di definizioni non basta a decifrarlo. Per capire Khamenei bisogna allontanarsi da Teheran e percorrere gli 850 chilometri che la separano dalle vie di Mashad. E’ nella città santa dei safavidi tra cupole d’oro e pellegrini che vive l’anima segreta di Khamenei. E’ a Mashad che Khamenei è nato e cresciuto, è Mashad che ha nutrito la sua fede e forgiato la sua visione del mondo ed è a Mashad che Khamenei continua a tornare in cerca di conferme. Capitale della regione di Khorasan, terra di poeti, mistici e filosofi che si apre verso l’Afganistan e il Turkmenistan, Mashad è cresciuta intorno al santuario dell’imam Reza, (ottavo imam sciita) il luogo di culto più sacro dell’Iran, il più grande e lussuoso del mondo sciita. Khamenei nasce nel 1939 nella parte più povera della città, secondo di otto figli. “Abbiamo avuto una vita difficile – ha detto della sua infanzia – A volte non avevamo niente da mangiare. Mia madre si dava da fare per portare qualcosa in tavola e spesso la cena era a base di pane e uvetta. La casa aveva soltanto una stanza e un buio seminterrato. Quando un ospite veniva a trovare mio padre, noi lasciavamo la stanza e scendevamo nel seminterrato finché l’ospite non se ne andava”. Figlio di un mullah, il giovane Ali Khamenei frequenta una maktab, una scuola religiosa e successivamente il seminario di Mashad. A 18 anni parte per Najaf, ma ci resterà poco, perché – recitano i biografi – “il padre lo richiama a sé”. Dal 1958 al 1964 è a Qom dove scocca la folgorazione per l’ayatollah Ruhollah Khomeini. Ma dal 1964 al 1979 è nuovamente a Mashad, fatta eccezione per un periodo di carcere a Teheran e uno di esilio nel Sistan- Balucistan. La sua è una formazione religiosa apparentemente convenzionale. Non riesce a compiere il cursus honorum che gli varrebbe il titolo di ayatollah, il “segno di dio”, la considerazione dei suoi pari e una schiera di seguaci. Poi ci sono interessi più mondani. La politica irrompe precocemente a turbare i suoi studi già nel 1951 dopo un celebre discorso di Mojtaba Navab Safavi, leader dei fedayeen-e-islam che invoca già un “governo islamico” e tuona contro lo scià e l’imperialismo occidentale. Politico è il suo orientamento anche in seminario dove entra a far parte di cenacoli intellettuali molto più terreni che spirituali. E’ l’anticamera di una carriera tutta in ascesa, sempre più lontana dal pulpito e più vicina al potere che lo porterà a diventare prima discepolo di Khomeini e, successivamente, cofondatore del Partito islamico repubblicano, guida della preghiera del venerdì di Teheran, viceministro della Difesa, supervisore delle Guardie rivoluzionarie, comandante in capo delle Guardie rivoluzionarie, rappresentate del Leader supremo nel Supremo consiglio per la Difesa, membro del Majlis (il Parlamento), capo del Consiglio per la rivoluzione culturale, capo del Consiglio per il discernimento dell’interesse superiore del regime, capo del Consiglio per la revisione della Costituzione, presidente e infine Guida suprema. Ma l’educazione di Khamenei è soprattutto un prodotto delle suggestioni che ha respirato nella sua città natale Tutti gli iraniani hanno un rapporto viscerale con la poesia, ma a Mashad questa passione ha contagiato anche il seminario. Khamenei inizia a scrivere versi quando è soltanto un ragazzo. E’ trascinato dall’amore per la letteratura persiana e incuriosito dai romanzi stranieri. Anche l’ex compagno di cella Assadi racconta che durante la prigionia furono i libri il principale argomento di conversazione. Secondo alcune testimonianze, Khamenei vanta di averne letti più di duemila. Un’ammissione interessante se si considera che, nell’ambiente clericale della sua generazione, leggere testi non religiosi poteva essere considerato inappropriato o addirittura “haram”, illegale. Quando il leader supremo tuona contro la cultura occidentale parla di qualcosa che conosce. La paura ossessiva che una “rivoluzione di velluto” spazzi via il regime è anche il frutto delle sue buone letture. Tra gli intellettuali europei, nessuna ha suscitato in lui maggiore fascinazione e al contempo sgomento dell’ex presidente ceco Vaclav Havel, ritenuto “altamente nocivo”. Nonostante la circospezione, alla letteratura, Khamenei non rinuncia. E nel suo ufficio hanno luogo con cadenza regolare degli appuntamenti di poesia. Come la regina d’Inghilterra anche Khamenei ha i suoi “poet laureate”. Li ascolta in silenzio, con gli occhi socchiusi, poi inizia a commentare. I suoi aedi vengono incoraggiati a leggere tematiche etiche e religiose, sono accettate le virate verso l’epica, sempre tenendo presente che l’ispirazione deve piegarsi all’“efficienza”, onorare l’islam e i valori autenticamente iraniani. Però Mashad non è solo la patria del grande poeta persiano Ferdowsi, Mashad è soprattutto uno sguardo particolare sulle cose. Rispetto a quella di Qom, la sua scuola teologica si distingue per una lettura esoterica del Corano. Vi dominano le scienze arcane, l’occultismo e una visione antirazionalista. Una tendenza inaugurata alla fine degli anni Venti dall’ayatollah Mirza Medhi Gharavi Isfahani, che diffidava della filosofia e della logica – “scienze straniere, non islamiche e fallaci” – e metteva in guardia i suoi discepoli dal sillogismo: “Pretendere di condurre la mente umana a una deduzione è un inganno perché è impossibile conoscere il mondo senza la guida divina”. A Mashad signoreggiano i moqaddasim, gli “uomini sacri” che sottomettono giuristi dell’islam e ayatollah con un carisma fatto di piccoli miracoli (keramaat) e innumerevoli arti di divinazione. Appaiono poco in pubblico ed evitano i luoghi affollati, limitando la vita sociale a un gruppo di favoriti. Pene di cuore, malattie, avventure economiche, scelte politiche, nessun ambito dello scibile è imperscrutabile per loro. Altra usanza praticata è quella di ottenere dal moqaddas, il permesso di usare “uno dei nomi di dio” in ossequio alla credenza secondo cui la ripetizione della parola eletta, “zekr”, sprigionerebbe una forza spirituale in grado di avverare gli auspici del fedele. E’ in questo humus culturale dove coesistono erudizione, misticismo e superstizione che si sviluppa la corrente apocalittica e nascono tre gruppi estremisti, significativi per la formazione dei rivoluzionari, come la scuola della separazione, l’associazione hojatieh e i velayati. Ed è significativo che a Mashad tra il 1967 ed il 1968 graviti anche Ali Shariati, l’ideologo della Rivoluzione che in quegli anni insegna nel Khorasan. Khamenei lo incontra in un circolo poetico tra il ’57 e il ’58 e gli rimarrà amico fino alla morte anche quando, dopo la Rivoluzione, l’establishment religioso lo taccerà di eresia. Affascinato dall’occulto, Shariati sosteneva di riuscire a materializzare gli spiriti. Ma l’incontro che più di ogni altro condizionerà il futuro di Khamenei è quello con l’amico Vaez Tabassi. Fondatore del corpo dei pasdaran del Khorasan, Tabassi è un membro dell’Assemblea degli esperti e anche del Consiglio per il discernimento dell’interesse del regime, ma la sua influenza è tutta legata al controllo del santuario di Mashad, luogo che amministra dal 1979, e a cui entrambi devono, in buona misura, la loro fortuna. Privo delle credenziali teologiche che consentono a un religioso di guadagnare, da un lato, il rispetto dei suoi pari e un largo seguito di fedeli e, dall’altro, la riscossione delle tasse religiose che determinano la portata delle sue ambizioni, Khamenei è stato salvato dall’appoggio finanziario del santuario di Mashad, accreditato dagli analisti iraniani come uno dei più floridi imperi economici del paese. Con un’estensione maggiore a quella della città del Vaticano, il “Sacro Recinto” non è soggetto allo scrutinio del governo di Teheran, tutte le esportazioni e le importazioni sono tax free e il saldo di bilancio annuale si aggira intorno ai due miliardi di dollari. Soltanto la Guida suprema ha autorità sul santuario e, tra le fondazioni iraniane, il “Sacro Recinto” brilla per generosità nei sussidi a Hamas e Hezbollah. “Era un tipo preciso, metodico – racconta Assadi – In prigione ognuno aveva diritto a una sigaretta al giorno e lui era un grande fumatore. Io non avevo quel vizio e quindi gli regalavo la mia. Lui divideva le sigarette in sei parti facendo attenzione che fossero tutte uguali”. Istantanee di un’altra era: ma quanto resta di quel “piccolo seminarista”? Dopo due decadi al vertice della piramide del potere, a Teheran Khamenei è ancora un uomo solo che diffida di sedicenti alleati, nomina propri rappresentanti nelle istituzioni e nei media e fa sempre assegnamento sulla rete di Mashad. Il peccato originale della sua ascesa “politica” continua a tormentarlo. Khamenei allevia la solitudine affidandosi ad antichi rituali che ingabbiano in una cornice di gesti e parole l’ansia di una natura superstiziosa. Per accordare una benedizione assaggia un piatto e poi lascia che i suoi seguaci lo finiscano. Per prendere una decisione difficile apre a caso il Corano e legge la prima riga della pagina destra e interpreta il volere divino. Quando i dubbi lo attanagliano visita un moqaddas come Mohammed Taqi Bahjat, l’imam della moschea di Fatemiyeh a Qom. Più del tumore è la depressione il suo male oscuro e voci insistenti attribuiscono titubanze e contraddittori bizantinismi a una cura a base di oppio. Per chi in occidente si affanna a leggere le sue intenzioni, ora che è in voga il “behavioural change”, Khamenei rappresenta un enigma. Nel maggio 2003 sentenziò che il conflitto tra Iran e Stati Uniti era “qualcosa di naturale e inevitabile”. Nel febbraio 2006 e nel maggio del 2007 ha vagheggiato l’idea di un dialogo con Washington, nel 2008 ha suggerito che “rompere con l’America è stata una delle nostre politiche più importanti, ma non abbiamo mai detto che le relazioni non saranno mai riallacciate”. Khamenei ha anche emesso una fatwa contro l’uso di armi nucleari. Ma rispondendo alla domanda di un fedele ha dichiarato che, nell’interesse della Repubblica islamica, una guerra offensiva può essere ordinata da un giureconsulto qualificato, cioè da lui. “Per conquistare l’indipendenza e un’autentica sovranità nazionale – ha spiegato Khamenei – una nazione deve essere pronta a pagare un prezzo”. Se è ondivago con le parole, Khamenei non lo è nei convincimenti. “Marg bar Amrika” (morte all’America) è uno slogan che aderisce ancora come un guanto alle sue scelte ideali. Nonostante le pressioni interne dei mullah tycoon da un lato, e di una popolazione assetata di benessere e libertà dall’altro, l’engagement non è tra i piani di Khamenei. Poi però c’è la politica: per l’ex “piccolo seminarista” tra l’islam e la Repubblica islamica è la seconda a dover essere tutelata a ogni costo.

L'OPINIONE - Michael Sfaradi : " Il fuoco nella polveriera, il folle gioco iraniano"

In questi ultimi giorni la diplomazia internazionale, fra riunioni, affermazioni, smentite e visite di Stato, si è data molto da fare sul versante mediorientale. Ciò che ha portato un po' di scompiglio è stata la rivelazione del New York Times sullo scambio di missive fra il presidente statunitense Barak Obama e quello russo Dimitri Mednedev. Obama offriva il congelamento dello scudo antimissile in Europa in cambio della collaborazione russa nel fermare la rincorsa iraniana al nucleare ed alla progettazione di missili a lunga gittata. La presenza di ingegneri russi in questi due progetti iraniani non è un segreto ma non essendoci nessuna ufficialità in questa partecipazione Mednedev ha rifiutato di negoziare quello che, a livello teorico, non ha. Il presidente americano, smentendo in parte la rivelazione del New York Times, ha fatto dichiarare dal portavoce della Casa Bianca di essere stato completamente frainteso, questo in "politichese" può significare molte cose ma certamente non smentisce che la Casa Bianca e il Cremino stiano attualmente discutendo sulla questione Iran nucleare. Considerando che la speranza è l'ultima a=2 0morire possiamo soltanto pregare affinché le due potenze riescano a trovare una soluzione senza ricorrere alla forza o prima che sia troppo tardi. Forte di questo rifiuto da parte russa l'Ayatollah Khamenei, guida suprema della Repubblica islamica dell'Iran, durante una conferenza pro Palestina svoltasi a Teheran, ha coperto Israele di insulti e minacce senza lasciare dubbi sulla politica di chiusura totale nei confronti dell'Occidente e riconfermando quanto sia estremista la mentalità contro la quale si andranno a scontare tutte le buone intenzioni del neo presidente statunitense Barak Obama. Khamenei non ha usato metafore durante il suo discorso dettando l'agenda delle linee politiche future che il mondo islamico dovrà adottare. Per buona pace di tutti coloro che credono ad una soluzione concordata che porterà ai due popoli con due estati, i vertici di Teheran urlano ad alta voce quello che, purtroppo, la maggioranza del mondo arabo pensa e cioè: Non ci deve essere alcuna trattativa con gli israeliani perché Israele è un "cancro" nato solo per il "pretesto" dell'Olocausto. "Cancro" che deve essere spazzato via al fine di restituire la terra all'Islam. Ma la guida suprema non si è fermato qui, perché secondo lui il popolo palestinese potrà ottenere risultati soltanto combattendo la "Jiad" contro gli infedeli incitandoli alla guerra santa trattando quei pochi che vorrebbero aprire un tavolo di trattative come degli illusi che non hanno seguito. Davanti alle telecamere, e ad un pubblico in delirio, h a riscritto la storia ricordando che Israele è un regime usurpatore, deviato e creato dagli Usa e dalla Gran Bretagna. Nel suo intervento l'Ayatollah non è stato avaro di critiche neanche con il nuovo presidente americano colpevole di aver "giustificato" le operazioni militari di Israele nella striscia di Gaza con esigenze di sicurezza. Questo, secondo lui, significa che Barak Obama appoggia il terrorismo di Stato e intraprende una strada già tracciata dal suo predecessore, perché nonostante gli annunci di cambiamento pone condizioni per la sicurezza dei "sionisti". Tutto ciò viene visto come un chiaro sostegno al "massacro del popolo palestinese di Gaza" Ancora non si erano spente le luci dei saloni che hanno ospitato la conferenza dei paesi donatori per la ricostruzione della striscia di Gaza che il nuovo segretario di Stato Hillary Clinton è volata a Gerusalemme per incontrare il presidente Peres, il Ministro degli esteri Livni, il Primo Ministro in carica Olmert ed il Primo Ministro incaricato Netanyahu. Ha dedicato diverse ore a colloqui separati con i quattro politici israeliani ma, intervistata dai giornalisti, ha saputo soltanto ribadire il punto di vista statunitense dei due popoli e due Stati. Gli osservatori politici, israeliani e non, dubitano che i colloqui si siano limitati a questo che ormai è più un sogno che un obiettivo raggiungibile. Un vecchio slogan al quale in pochi credono ancora visto che nel mondo arabo, tranne poche eccezioni, la creazione dello Stato palestinese è vista solamente come la conseguenza della distruzione di Israele. Fino a poco tempo fa le minacce iraniane erano viste come il latrare di un vecchio cane senza denti ma se Teheran dovesse raggiungere l'arma nucleare le stesse minacce assumerebbero importanza e pericolosità inaudite e Israele, il mondo lo sa, non permetterà a nessuno di distruggerla. Teheran attualmente si diverte a giocare con i fiammiferi dentro la polveriera e noi pensiamo che qualcuno dovrebbe cercare di fermarla prima che tutto gli salti in mano.

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