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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
24.02.2009 Aharon Appelfeld e Amos Oz
I loro due nuovi libri

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Aharon Appelfeld - Amos Oz
Titolo: «Il ricordo di mio nonno mi ha salvato la vita - Una vita fuori dal kibbutz»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 24/02/2009, l'articolo " Il ricordo di mio nonno mi ha salvato la vita " di Aharon Appelfeld e da REPUBBLICA l'articolo " Una vita fuori dal kibbutz  " di Amos Oz. Dei due autori stanno uscendo due nuovi libri.Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Aharon Appelfeld : " Il ricordo di mio nonno mi ha salvato la vita "

La memoria è uno strabiliante strumento dell'anima, che ci mette in comunicazione con ciò che è vicino e ciò che è lontano. Noi ricordiamo per immagini, trattenendo talvolta i suoni e i profumi. Da bambino trascorrevo le lunghe vacanze estive nei Carpazi: si facevano passeggiate nei boschi, si raccoglievano funghi, fragoline e altri frutti selvatici, si faceva il bagno nei laghetti, si inseguivano gli uccellini variopinti. Eppure i ricordi più intensi di quei tempi dell'infanzia sono per me le notti. Le notti, sì, erano piene di colori e suoni: i nonni cuocevano la confettura dentro marmitte di rame. L'immagine delle nere susine nei calderoni dorati, prima che bollissero, era straordinariamente bella. E poi venivano il bollore schiumoso, i profumi dolci, il fuoco alto. Le vacanze nei Carpazi mi hanno sempre accompagnato, per tutta la vita. Ogni volta che sono di cattivo umore, o amareggiato, apro lo scrigno dei ricordi e mi ritrovo con i miei genitori da giovani, a solcare insieme a loro quel paesaggio delle origini, noi tre seduti a riposare sotto un albero.
Agli albori, però, non tutto era roseo. Venivano anche soprassalti di paura o scene spaventose, come quel contadino che tirava la sua vacca con una spessa fune e l'animale non ne voleva sapere di muoversi. A nulla erano servite le frustate. La vacca sapeva perfettamente dove costui l'avrebbe condotta, e restava ostinatamente ferma lì dov'era. Alla fine il contadino aveva estratto l'ascia dalla custodia. Vista la furia di quell'uomo e le sue intenzioni, i miei genitori mi avevano preso e allontanato di lì affinché non assistessi all'orrore. Non vidi mentre la scannava, ma il muggito disperato della vacca mi capita ancora oggi di sentirlo.
La memoria, insomma, ci ripete che quel che è stato non è perduto, sta dentro di noi, che possiamo vederlo, comunicare con esso. Il credente, che ha fede in una vita dopo la morte, trova nei ricordi un rinforzo alla sua convinzione; ma per colui che nasce in un contesto di laicità la memoria è forse l'unica via per sentire, seppure in limitata misura, che la nostra esistenza non è solo un'esperienza frammentaria. Portiamo infatti dentro di noi mondi passati, che alimentano la nostra vita, palesemente e in segreto.
Scoppiò la Seconda guerra mondiale e nel 1941 mia madre venne uccisa, io fui separato da mio padre. Riuscii a scappare dal campo di concentramento e presi a vagare per le campagne. Alla fine venni adottato dalla malavita ucraina: il bambino viziato, figlio unico, nato e cresciuto in un ambiente colto e benestante, si trovò precipitato in quel sottobosco illegale, con cui ebbi a misurarmi giorno per giorno. A salvarmi dalla devastazione interiore è stata proprio la memoria: i miei genitori e la casa dei nonni nei Carpazi mi sono rimasti dentro gli occhi per tutto il periodo della guerra. Li ritrovavo giorno e notte, continuando a ripetermi: se li vedo con tanta chiarezza, allora significa che sono vivi e che presto torneranno da me.
La memoria ricorda, se così si può dire, i minimi particolari: è sorprendentemente affidabile. Quando ero piccolo, con l'approssimarsi dell'inverno le nostre domestiche fissavano le doppie finestre, e nell'interstizio fra una e altra restavano degli stretti davanzali riempiti di sabbia, in cui piantavano dei fiori di carta. Quest'opera che si ripeteva puntualmente ogni anno mi emozionava. Restavo seduto a guardarle e, a distanza di così tanti anni, l'incanto non si è ancora dissolto. Alla vista delle doppie finestre, mamma diceva sempre: «Ecco, così staremo caldi, quest'inverno», e il timbro della sua voce torna alle mie orecchie come un'eco, riportandomi anche la grazia dei suoi gesti. La memoria non rinuncia ai particolari. Di tanto in tanto mi rincresce che alcune preziose immagini siano un poco sbiadite, mentre di altre siano rimasti solo frammenti.
La Seconda guerra mondiale è stato uno dei conflitti più cruenti che l'umanità abbia mai conosciuto, e per gli ebrei certamente il peggiore. Un terzo del popolo ebraico è stato sterminato. Ogni ebreo sopravvissuto alla guerra, al ghetto e al campo di concentramento serba nella memoria decine, se non centinaia di immagini che hanno per segno la morte. Che fare di quelle immagini? Fissarle? Adottarle? Identificarsi in esse, tentando di tenere a mente i volti degli assassini, per odiarli?
Bisogna ammettere la verità: non si può vivere per molti anni, scortati da immagini del genere. Facciamo fatica a comprendere la morte anche solo di una persona, come potremmo conservare dentro di noi quella di decine, centinaia? Chi è sopravvissuto alla Shoah tiene lontana quella memoria, quasi deve scappare, per vivere. Non è affatto strano che i sopravvissuti abbiano trasmesso ai propri figli ben poco di quella loro esperienza di morte: che cosa avevano da comunicare? Orrore e ancora orrore.
Questo magico strumento che è la memoria, capace di restituirci i momenti più preziosi e significativi della nostra vita, per i sopravvissuti alla Shoah sarebbe meglio se non trattenesse nulla. E questo è un aspetto del problema.
Per anni e anni un mio amico, sopravvissuto alla Shoah, andava dicendo che non riusciva a dormire perché puntualmente ogni notte lo visitavano quelle immagini di morte. E io non sapevo proprio cosa rispondergli.
Me ne stavo muto al suo fianco. Lui taceva per un po' e alla fine aggiungeva: prova a immaginare, però, se non ricordassi nulla di quell'orrore. Tutte le immagini si cancellerebbero dalla mia testa. Che cos'ero, laggiù? Meno di un insetto. È un diritto, questo, che i morti torturati rivendicano dalla mia memoria; loro mi sottraggono a quel consesso umano che si rifiuta di ricordare il male fatto dai persecutori, i tormenti subiti dalle vittime. In fin dei conti, la mia insonnia è una garanzia di umanità. È questo l'altro aspetto della questione.
È difficile osservare le immagini della Shoah. «Se questo è l'uomo», parafrasando il titolo di Primo Levi, che senso ha la vita? Già all'inizio del XX secolo Freud sosteneva che la civiltà umana è una sottile copertura, sotto la quale brulicano demoni e mostri. Sotto questo punto di vista, Freud a suo tempo è stato davvero un profeta. Pochi anni dopo queste considerazioni sulla natura umana, ecco avverarsi in pieno la sua visione. Con la Shoah abbiamo visto la belva che sta annidata nell'uomo. Le vittime ne sono uscite lese nel corpo e nell'anima. Nulla di strano che dopo un'esperienza del genere chi ha sofferta perda fiducia nell'uomo.
Ma ciò che ha salvato i sopravvissuti dal pessimismo assoluto e dalla perdita totale della fiducia nell'uomo è il barlume di luce intravisto in quella fitta tenebra. Che cosa intendo dire? Che chi è scampato deve la vita a qualcuno che nei momenti più disperati e tragici è stato capace di rivolgergli una parola di conforto, gli ha teso una mano quando è caduto e non riusciva a tenersi in piedi, gli ha offerto un tozzo di pane togliendoselo di bocca. Per non parlare di coloro che hanno nascosto i perseguitati, che li hanno tenuti nelle loro case, il più delle volte correndo loro stessi grave pericolo. Queste persone, questi angeli apparsi nell'ora in cui la tenebra copriva cielo e terra, gli hanno ridato non soltanto la vita, ma anche la fiducia nell'uomo. Nella memoria di ogni sopravvissuto alla Shoah sono serbati non solo mostri ansiosi di divorarlo, ma anche mani tese in soccorso, sguardi solidali.
A posteriori, la vittima può dunque dire: sì, persino nella tenebra più cupa ho trovato chi non aveva perduto la propria umanità.
Sulla nave che mi conduceva in terra d'Israele nel 1946, eravamo tutti orfani: la maggior parte di noi aveva infatti perso tutta la propria famiglia. Come si fa a continuare a vivere una vita sensata, dopo un massacro del genere? Capivamo bene che dopo una tale disfatta dell'uomo non ci sarebbe stato possibile tornare a un'esistenza banale, comune. Assuefarsi alla normalità sarebbe stata una vergogna, se non un crimine.
Le prime scoperte le feci ancora sulla nave che mi portava in terra d'Israele. C'era una veterinaria, sopravvissuta, che sulla via per imbarcarsi aveva trovato due cani malati, li aveva presi con sé e li aveva curati per tutto il viaggio. La sua grande aspirazione era quella di creare un ospedale veterinario, in Israele. Così vedeva il futuro.
Molti parlavano della società fondata su quei principi egualitari con cui tanto l'individuo quanto la collettività si sarebbero rigenerati. I kibbutz erano il modello di una comunità dove non esisteva la proprietà privata. L'individuo contribuiva secondo le proprie possibilità e riceveva secondo i propri bisogni. Molti giovani sopravvissuti alla Shoah aderirono al movimento kibbutzistico. Fra i sopravvissuti si annoveravano anche dei religiosi, che tornarono dicendo: l'uomo ha fallito, guai a confidare in lui. Solo chi ha timor di Dio non perde la Sua immagine e somiglianza.
Mentre io, allora, giurai a me stesso che avrei custodito con tutte le mie forze il ricordo dei miei genitori e dei nonni, con cui avevo vissuto fino ai nove anni. I miei genitori mi avevano infuso l'amore per la letteratura, la musica classica, il teatro, la natura e l'essere umano. Mentre loro mi avevano educato secondo principi umanistici, i nonni, con i quali trascorrevo le lunghe vacanze estive, mi avevano trasmesso una religiosità composta, alla buona. Mi avevano inculcato una fede che consisteva non tanto in discorsi teologici o in lezioni morali, quanto soprattutto in un silenzio meravigliato: la loro pacatezza colma d'amore per tutti gli esseri viventi ce l'ho ancora davanti agli occhi ogni volta che mi dispero per me stesso e per la società che mi circonda.
Col passar degli anni ho scoperto quanto profondamente ancora li ricordi, quanto siano ancora parte di me. La mia non era una grande famiglia, eppure portava in sé tutti gli elementi umani e ideologici della società ebraica: gente di campagna e di città, pii religiosi, comunisti, alcuni indifferenti alla propria origine ebraica, altri addirittura convertiti. Fino ai nove anni ho vissuto in questo ambiente, senza sapere quanto la mia memoria li stesse trattenendo. Ora che sono qui alla mia scrivania, tornano alla vita e mi stanno accanto, come se non mi fossi mai congedato da loro.
La memoria
Noi sappiamo che quello che è stato non è perduto. Ma per i sopravvissuti dell'Olocausto proprio questo è il problema

La REPUBBLICA - Amos Oz : "  Una vita fuori dal kibbutz "

Uno prende e se ne va altrove. Quel che si è lasciato alle spalle resta lì e lo osserva mentre se ne va. Nell´inverno del Sessantacinque Yonatan Lifschitz decise di mollare sua moglie e il kibbutz in cui era nato e cresciuto. S´era messo in testa di cominciare una nuova vita.
Durante l´infanzia, la giovinezza, il periodo del servizio militare, era stato costantemente assediato da una cerchia ristretta di uomini e donne che si immischiavano nella sua vita. Si era così andato convincendo che queste persone gli stessero negando qualcosa, e che non fosse più il caso di continuare con le rinunce. Usando il più trito dei frasari, loro discettavano di "sviluppi positivi" o di "fenomeni negativi", mentre lui non capiva quasi più il senso delle parole. Quando, alla fine della giornata, stava da solo alla finestra a guardare un volo d´uccelli nel crepuscolo, si rassegnava beatamente all´evidenza che quegli uccelli prima o poi sarebbero morti tutti.
Quando al giornale radio la voce parlava di "segnali preoccupanti", Yonatan sussurrava fra sé e sé: e allora, cosa cambia? Quando il pomeriggio andava da solo a fare quattro passi fra i cipressi inceneriti in fondo al kibbutz e un compagno lo incrociava per caso e gli chiedeva che ci facesse lì, Yonatan rispondeva di malavoglia: "Niente, faccio un giretto", eppure subito dopo si ripeteva sbigottito la domanda: già, che ci faccio qui? Un ragazzo fantastico, dicevano di lui al kibbutz, però, come dire, molto chiuso, uno così, tanto sensibile, dicevano.
Giunto a ventisei anni, quest´uomo d´indole riservata e riflessiva, incominciò a desiderare di trovarsi finalmente solo, senza nessun altro intorno, per cercare di raccapezzarsi. Perché a volte lo coglieva la sensazione che la sua vita si stesse sprecando dentro una stanza chiusa, piena di parole e di fumo e di frastuono, dove aveva luogo un´interminabile, sfiancante discussione su un argomento bislacco. Non sapeva di che cosa si stesse parlando, non voleva intervenire, aveva solo voglia di prendere e andarsene altrove, in un posto dove forse lo stavano aspettando ma non l´avrebbero aspettato per sempre, ritardo su ritardo. Che cosa ci fosse, in quel posto, Yonatan Lifschitz non lo sapeva, però si rendeva conto che non era più il caso di indugiare. Benya Trotsky, che Yonatan non aveva mai conosciuto di persona - non l´aveva mai nemmeno visto in fotografia -, Benya Trotsky era scappato dal kibbutz e dal paese nel Trentanove, sei mesi prima che lui nascesse. Giovane intellettuale, brillante studioso originario della cittadina di Kharkov, per ragioni ideologiche era andato a fare l´operaio in una cava in Alta Galilea. Si era trattenuto qualche tempo nel nostro kibbutz e, venendo meno ai principi, si era perdutamente innamorato di Hava, la madre di Yonatan. Se ne era innamorato in stile melodrammatico, con tanto di lacrime, giuramenti e febbrili confessioni. Ma era arrivato fuori tempo massimo, quando lei era già incinta di Yolek, il padre di Yonatan, e abitava con lui nella stanza dell´ultima baracca. Era successo alla fine dell´inverno del Trentanove, con grande scandalo e pianti disperati, non senza complicazioni d´ogni sorta, lettere, dichiarazioni d´intento suicida, urla notturne dietro il pagliaio, pubbliche chiarificazioni, l´impegno delle istituzioni del kibbutz a calmare gli animi e trovare una soluzione ragionevole, un tremendo crollo nervoso e una discreta psicoterapia. Dopo tutto ciò, era stato affidato a questo Trotsky un turno di guardia notturna al kibbutz. Per quell´occasione gli era stata assegnata un´antiquata pistola parabellum. Lui aveva montato la guardia tutta la notte. Solo verso l´alba, evidentemente in preda a un attacco di inguaribile disperazione, era andato a farle la posta presso la baracca della lavanderia, era balzato improvvisamente su dalla siepe e aveva sparato da vicino alla sua amata incinta; poi, ululando come un cane ferito, si era precipitato ciecamente verso la stalla, dove aveva sparato due colpi a Yolek, cioè il padre di Yonatan che stava per terminare la mungitura notturna, e uno all´unico nostro toro, che si chiamava Stakhanov. Quando, sentiti gli spari, i pionieri attoniti si erano dati all´inseguimento, quel disperato era saltato oltre un cumulo di letame e di lì si era sparato in fronte l´ultimo colpo.
Nessuna di quelle pallottole aveva centrato il bersaglio, non una sola goccia di sangue era stata versata, eppure lo spasimante fuggì dal kibbutz e dal paese e, dopo varie e tortuose reincarnazioni, finì per diventare una sorta di magnate degli alberghi nella località balneare di Miami, America orientale. Una volta mandò un´ingente donazione in denaro per costruire una sala da musica al kibbutz, in un´altra occasione indirizzò una lettera, scritta in un bizzarro ebraico, minacciando o vantandosi o forse piuttosto offrendosi volontario come vero padre di Yonatan Lifschitz. (...)
I veterani del kibbutz ripetevano di tanto in tanto: "Una storia incredibile. Sarà stato a dir tanto a un metro e mezzo, quel buffone, e nemmeno il toro è riuscito a centrare, a un metro e mezzo di distanza!".
Yonatan cercava nei pensieri un posto diverso, che gli fosse congeniale. Cercava una nuova opportunità di lavorare come gli pareva e di riposarsi, senza essere assediato.
Il suo progetto era di andare il più lontano possibile, in un posto che non assomigliasse per niente al kibbutz, ai campeggi giovanili, alle caserme e agli accampamenti durante le spedizioni nel deserto, che non assomigliasse nemmeno alle pensiline agli incroci delle strade dove i soldati fanno l´autostop e dove fa un caldo terribile e c´è sempre odore di rovi, sudore, polvere e piscio secco.
Aveva bisogno di arrivare in un ambiente affatto diverso, magari in una vera grande città, una città straniera con un fiume e dei ponti, campanili e gallerie, fontane che zampillano da mostri scolpiti nella pietra che si schizzano a vicenda, dove di notte l´acqua è sfiorata da una vaga luce elettrica, e a volte una sconosciuta compare lì da sola, guarda i riflessi dell´acqua voltando la schiena verso la piazza lastricata. Aveva bisogno di un posto remoto dove tutto fosse possibile e tutto potesse accadere - successo folgorante, amore, pericolo, incontri particolari.
Si immaginava di solcare con passo felpato, passo da giovane predatore, i corridoi ovattati, rivestiti di tappeti, di un edificio freddo e alto, fra ascensori e uscieri, rotondi occhi di luce appesi al soffitto, sconosciuti in movimento, ognuno per i fatti propri, tutti visi impenetrabili, come del resto il suo.
Gli era venuta, chissà come, l´idea di andare oltremare, di guadagnarsi gli studi universitari con i propri mezzi, mantenendosi con lavori occasionali, guardia notturna magari, sorvegliante in una fabbrica o anche fattorino di una ditta di spedizioni, come aveva trovato in una minuscola inserzione sul giornale fra le offerte di lavoro. Senza avere la benché minima idea di quel che comportasse tale mansione, qualcosa tuttavia gli diceva: caro mio, questo è il mestiere che fa per te. Si immaginava anche impiegato al controllo di macchinari avanzatissimi, davanti a una serie di quadranti che lampeggiavano, fra uomini senza scrupoli e donne astute e ambiziose.
Avrebbe abitato tutto solo, finalmente, in una stanza in affitto al piano alto di un grande caseggiato, in una città straniera, in America, magari in quel Middle West che si vedeva al cinema. Avrebbe trascorso le notti a studiare per gli esami d´ammissione, l´avrebbero preso all´università e si sarebbe scelto un mestiere capace di aprirgli la strada verso la meta che lo stava aspettando, ma non avrebbe aspettato per sempre, ritardo dopo ritardo. Sarebbero passati altri cinque o sei anni, pensava Yonatan, comunque lui avrebbe finito gli studi a tutti i costi, America o non America, lui a quella meta sarebbe arrivato e allora avrebbe cominciato a essere un uomo libero, a vivere la sua vita vera.

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