Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Barack Obama, il Medio Oriente e la lotta al terrorismo le analisi di Danielle Sussmann, Antonio Ferrari, Christian Rocca
Testata:Informazione Corretta - Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Danielle Sussmann - Antonio Ferrari - Christian Rocca Titolo: «Il nuovo Sceriffo e la sfida islamica - L'intransigenza di Teheran contro il nuovo fascino degli Usa - Al Qaida lo chiama resort»
L'analisi di Danielle Sussmann sulla politica mediorentale dell'amministrazione Obama, "Il nuovo Sceriffo e la sfida islamica":
Obama ha speso notevoli energie per enfatizzare il suo come l’arrivo di un nuovo sceriffo in città dai modi più eleganti e gentili.
La prima intervista televisiva, Obama l’ha concessa alla tv del Dubai, al-Arabiya. “E’ mio compito affermare che gli Stati Uniti sostengono il benessere del mondo musulmano e il linguaggio da usare deve essere quello del rispetto.” Nel caso non si fosse capita la portata di tale gesto, ce lo ricorda tra altri il portavoce del Dipartimento di Stato Robert Wood “Obama vuole davvero impegnarsi seriamente nel dialogo con il Medio Oriente, un dialogo a due.” Gli fa eco Gaith al-Omari, direttore dell’ATF (American Task Force) sulla Palestina, che ha dichiarato “l’intervista è stata straordinaria. Obama ha premuto i giusti bottoni.” Riferendosi al concetto del rispetto, del dialogo e delle aspirazioni positive dei musulmani. “Le persone a cui ho parlato nell’area, sono sembrate tutte impressionate favorevolmente. La politica (USA) non è cambiata. E’ cambiato il linguaggio, l’approccio, nel portare tutti all’interno del processo. La politica degli Stati Uniti può continuare, non deve abbandonare i suoi interessi strategici, ma può farlo in modo non offensivo.”
Nell’intervista, Obama ha dichiarato “continuerò a sostenere che la sicurezza di Israele sia un’esigenza suprema”.
Mike Mullen, presidente del Joint Chiefs of Staff, ha detto che l’uso della forza contro l’Iran, a causa del suo programma nucleare, non è stato cancellato dalla nuova amministrazione. Mentre enfatizza l’importanza di affrontare con impegno le relazioni con la Repubblica Islamica – secondo lui, un fallimento dell’amministrazione Bush – Mullen fa sapere che non si aspetta grandi risultati, ricordando che Teheran “non ha dato aiuto in questo senso, in molti, molti modi e in molte e molte aree. Non sarei molto ottimista.”
La risposta dell’Iran alla mano tesa di Obama, non si è fatta attendere. Alla richiesta di “profondi cambiamenti” del Presidente, ha riproposto il suo mantra: “stop al sostegno americano di Israele e che gli Stati Uniti chiedano scusa ai leaders iraniani.”
La questione iraniana non è semplice ed è importante valutare alcuni fattori.
La Repubblica Islamica dell’Iran è unica nella regione mediorientale. In parte è persiana, in parte islamica ed in parte occidentale. Non araba. Interessante sapere che nel 1935, l’ambasciatore persiano a Berlino scrisse a Hitler, “siamo ariani” e il nome del paese fu cambiato da Persia in Iran “la terra degli ariani” in farsi.
L’illustre storia dell’antica Persia è ancora vissuta con orgoglio. Il nazionalismo è sentito fortemente – anche se diversamente - in tutti gli strati della popolazione. Il programma nucleare è voluto ardentemente da tutta la nazione. Per i persiani è visto come una conquista nel raggiungere un’ulteriore fonte di autonomia dal resto della regione. Inoltre, si chiedono perché il Pakistan, l’India e Israele abbiano realizzato il loro nucleare e l’Iran non possa fare altrettanto. Per gli islamici seguaci degli ayatollah, il programma è quello definito da Ahmadinejad, cioè il raggiungimento dell’arma nucleare per dominare il Medio Oriente e cancellare Israele. Secondo l’ISS israeliano, il programma nucleare iraniano sarà approntato quest’anno stesso. L’immensa centrale di Natanz è stata munita di sistemi elettronici di sorveglianza e da protezioni anti-aeree. Dalla strada somiglia ad una qualsiasi area industriale dell’hinterland di Isfahan, tra industrie petrolchimiche, acciaierie, raffinerie di petrolio. Un satellite lanciato da Israele due anni fa, fotografa quotidianamente l’area, ma è proibito ai visitatori e ai turisti scattare foto dell’impianto.
Benché la politica iraniana consideri Israele un oppressivo occupante della Palestina, l'antisraelianesimo non è un elemento definito nell’identità irano-persiana. Gli iraniani colti citano storiche associazioni con gli ebrei, e sanno che Teheraniani quali Moshe Katsav e Shaul Mofaz sono diventati personaggi di rilievo in Israele. Ridono all’idea che l’Iran attacchi Israele – se Israele non attacca per primo. Ciò che tiene banco nei discorsi è soprattutto la crisi economica e la disoccupazione. Secondo una stima solo il 15% della popolazione sostiene Ahmadinejad. La maggioranza ride dei suoi programmi economici e condanna la sua “esuberanza” che ha contribuito a rendere l’Iran un nemico internazionale. Aumentano i dissidenti tra gli studenti e i professionisti, e il 26 scorso si è aggiunto un fatto di rilievo che non può non influire positivamente per la resistenza anti-ayatollah. La UE ha cancellato dalla lista nera del terrorismo – malgrado le minacce ufficiali ed ufficiose di Teheran in questi anni – l’opposizione iraniana all’estero, legalizzando il PMO (People’s Mujahedeen Organization of Iran). Bruxelles è stata invasa da mille suoi sostenitori che hanno festeggiato con confetti e palloncini e hanno chiesto che anche gli Stati Uniti facciano altrettanto. La PMO è stata messa al bando nel 2002, ma i ministri dei 27 paesi dell’Unione Europea hanno rimosso tale bando in risposta alle decisioni favorevoli al gruppo emesse dalla corte europea. La riammissione del gruppo tra le altre organizzazioni, consente inoltre al PMO di riavere accesso a decine di milioni di euro che erano stati congelati da sei anni. Dalla Francia è partita la rivoluzione di Khomeini, dalle piazze francesi è partita l’opposizione agli Ayatollah, con l’immensa manifestazione di un anno fa a Berry, periferia di Parigi.
Bloggers iraniani-persiani – presenti anche sui quotidiani israeliani – hanno ammonito contro l’intervento armato in Iran, sia israeliano che americano. Sostanzialmente, la maggioranza degli iraniani non sarebbero antisraeliani ed antiamericani (anzi, molti vorrebbero poter andare negli Stati Uniti) ma un attacco, coalizzerebbe la popolazione contro i due Paesi. Questo è un peso non indifferente, uno dei potenti motivi per cui l’Iran non è stato attaccato ad oggi e si cerchi in tutti i modi di evitare il confronto armato.
In definitiva, paesi come l’Iran e la Siria, e i loro sostenitori, si stanno trovando a mal partito per le manifestazioni di piazza. Non avendo più a disposizione il pretesto Bush per il loro odio – con una pubblica opinione favorevole ad un leader americano con famiglia musulmana (uno degli argomenti sostenuti da Obama nella sua intervista ad al-Arabiya) – hanno poche munizioni a loro disposizione per retoriche incendiarie. Obama deve approfittare del periodo di “luna di miele” e ha già iniziato a farlo con una regione che premia il simbolismo. Per quanto Bush sia stato il primo presidente americano a sostenere prioritario uno stato palestinese nella politica estera americana, non gli è stato dato credito nel mondo arabo per il modo in cui si proponeva.
Sabato 31 gennaio, l’Iraq va alle urne. Circa 15 milioni di iracheni sono chiamati a votare per i consigli delle province. Le elezioni nazionali sono indette per la fine del 2009. Queste elezioni comunque stabiliranno se davvero l’Iraq si evolverà come prima democrazia rappresentativa nel mondo arabo, con una maggioranza che rispetti i diritti della minoranza. Per creare un Iraq stabile, libero e sicuro, il prezzo è stato molto alto. Per gli americani un costo di tre trilioni di dollari; 4000 soldati uccisi e 30 mila feriti. Circa 100 mila iracheni sono morti – “solo” 8000 nel 2008, se paragonati ai 20 mila del 2007. Forse sono due milioni gli iracheni diventati rifugiati.
La guerra che ha rovesciato il regime sunnita ba’athista di Sadda, è stato rimpiazzato da una maggioranza sci’ita frammentata e violenta. Gli arabi sci’iti sono calcolati all’incirca il 60% del paese, gli arabi sunniti tra il 15-20%, il restante non sono arabi: sunniti e curdi. Le elezioni di domani vedranno infuocate rivalità etniche tra le varie fazioni sci’ite, i sunniti e i curdi. Nel 2005 i sunniti boicottarono il ballottaggio: ora, voteranno pure coloro che hanno un piede in campo estremista.
L’incognita della Turchia.
Non è un paese mediorientale, ma fortemente incisivo in Medio Oriente e nel Mediterraneo, oltre che per i suoi confini strategici con i paesi più a rischio per la pace. Controlla inoltre le sorgenti del Tigri e dell’Eufrate e si ebbe una crisi anni fa con la Siria che l’accusò di bloccare il flusso delle acque che scorrevano in territorio siriano. A marzo vi saranno le elezioni municipali turche e il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan gioca a favore della sua forte base islamica. Dal primo giorno dell’Operazione Cast Deal, Erdogan ha lanciato pesanti accuse ad Israele, aumentando sempre più il tiro delle invettive. Tanto che mai si erano udite simili infamie nemmeno dagli stati tradizionalmente nemici di Israele. Due giorni fa, Erdogan ha chiesto ad Obama di ridefinire la mappa del terrorismo mediorientale. Il suo obiettivo è togliere Hitzballah e Hamas dalla lista delle organizzazioni terroriste. Ieri, al forum economico mondiale di Davos, ad un convegno organizzato dal Washington Post, in cui erano relatori il Presidente di Israele Shimon Peres, Amr Moussa leader della Lega-Araba e il Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon (ostili anch’essi ad Israele per Cast Lead), Erdogan, rosso di rabbia, ha aggredito verbalmente Peres, dicendo “state uccidendo la gente”. Puntandolo con l’indice, Peres ha replicato: “Vuoi capire cosa significhino centinaia di razzi che piovono ogni giorno su donne e bambini che non possono dormire tranquillamente, che hanno bisogno di dormire nei rifugi? Che ti succede? Non vuoi capire e io non sono preparato a dire bugie.” La sua replica è stata accolta da un caloroso applauso da parte dei presenti. In aggiunta, Peres ha detto che anche i turchi avrebbero reagito allo stesso modo di Israele se Istanbul fosse stata colpita da missili nemici. La rabbia di Erdogan è aumentata dopo l'applauso a Peres e dal fatto che il moderatore del Washington Post non gli avrebbe permesso di replicare al lungo monologo chiarificatore di Peres, adducendo a motivo il ritardo nei tempi e alla cena. Erdogan si è alzato ed è andato via. Tornato ad Istanbul è stato accolto all'areoporto come un eroe da una folla di circa 5000 sostenitori.
E’ ancora troppo presto per analizzare gli sviluppi nelle relazioni turco-israeliane. Se sono importanti per Israele, lo sono altrettanto per la Turchia. Il ministro degli Esteri turco, Ali Babacan, ha cercato di abbassare due giorni fa i toni della retorica veemente di Erdogan. Il World Economic Forum di Davos non ha mai visto un simile alterco. Anche il solitamente compassato Peres si è adirato. Ma il comportamento di Erdogan non aiuta ovviamente gli europei a considerare la Turchia un attore razionale e costruttivo sul piano internazionale. Da considerare che la parte europea della Turchia è modernista e tollerante. E l’esercito turco è il tutore della laicità nel paese.
In conclusione: già l’elezione di Obama e la mano tesa che ha offerto di recente al mondo musulmano – senza contare anche il nuovo ruolo di attore offerto dalla Francia alla Turchia – dimostra che nei governi in cui l’islam è radicale ed estremista, l’offerta di pace e di dialogo viene considerata una prova di debolezza. Nulla di nuovo sotto il sole. L’Iraq potrebbe non farcela nelle immediate elezioni, ma vi sarà modo di aggiustare il tiro prima delle elezioni principali di fine anno. Per quanto riguarda l’Iran e la Turchia, si rafforzerebbe la tesi di favorire una “rivoluzione” interna per abbattere regimi e poteri islamisti. Sul nucleare iraniano, purtroppo si deve tenere conto del forte consenso nazionale al programma, non votato interamente alla prospettiva bellica. Ma è certo che in aree con forti derive estremiste, non è possibile consentire la proliferazione nucleare che non sia assolutamente e trasparentemente pacifica.
Da pagina 38 del CORRIERE della SERA l'analisi di Antonio Ferrari "L'intransigenza di Teheran contro il nuovo fascino degli Usa"
Chi frequenta il Medio Oriente, l'ha imparato sul campo. E negli ultimi anni ha seguito, passo dopo passo, il naufragio politico e d'immagine degli Stati Uniti. Non soltanto a causa dei gravi errori dell'Amministrazione Bush, guerra all'Iraq in testa; non soltanto per la perdita di credibilità degli Usa nel mondo musulmano; ma anche per un diffuso e fastidioso sarcasmo nei confronti di Washington, e persino dei valori che rappresenta. Valori che sono anche i nostri. Che ci appartengono. Credo che le dichiarazioni-appello del neopresidente Barack Obama, nella sua prima intervista ufficiale alla televisione degli Emirati Al Arabiya (più moderata di Al Jazeera), ancor prima che la mano tesa al mondo musulmano, abbiano proprio questo obiettivo: convincere tutti che l'America non è nemica di nessuno, che all'imposizione si sovrappone adesso il desiderio di dialogare francamente, nel rispetto reciproco. Cercando di ricomporre i cocci del perduto prestigio. Il consenso alle aperture di Obama, che si respira in tutti i Paesi della regione, spiega almeno in parte le scomposte e strumentali reazioni dell'ala più estremista dell'Islam, e in particolare del suo alfiere, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Il quale, invece di aprire il pugno, si ostina per ora a barricarsi dietro il muro dell'intransigenza. Lo fa sicuramente per ragioni interne, vellicando l'orgoglio nazionale in vista di elezioni che potrebbero riservargli qualche amara sorpresa. Ma anche con l'intenzione di arginare la tempestiva attenzione di Obama per i problemi della regione. E la sua indubbia capacità di sedurre un mondo che da tempo attendeva un segnale di disponibilità, dopo una serie impressionante di errori. Tra Washington e Teheran è cominciata una difficile e delicatissima partita a scacchi. Il Dipartimento di Stato sta preparando una risposta alla lettera di congratulazioni per l'elezione del presidente americano. Bozza incoraggiante, come rivela il Guardian, ma sulla quale i collaboratori di Obama stanno ancora riflettendo, perché non si vuole concedere ad Ahmadinejad di poterla sfruttare, avvantaggiandosene, in vista delle presidenziali iraniane. Forse l'anticipazione è stata volutamente fatta filtrare per sondare la reattività della controparte, che comunque ha la possibilità di uscire, buona ultima, dal vecchio «asse del male». L'incubo del nucleare iraniano è in testa ai pensieri di tutti, anche se qualche sarcastico commentatore si spinge a dire che «l'Iran è il nemico non perché ha la bomba atomica, ma perché non ce l'ha», ricordando il caso della Corea del Nord. È però vero che Washington ha più di un interesse a riallacciare i rapporti con Teheran, che potrebbe rivelarsi prezioso collaboratore nel tentare di risolvere la crisi afghana. I taliban, come si sa, per gli ayatollah sono fumo negli occhi. Tornando ad Obama, bisogna dire che numerosi analisti si erano affannati a spiegare, con largo anticipo, che il nuovo presidente degli Usa sarebbe stato troppo occupato ad arginare la crisi economica per poter affrontare quelle del Medio Oriente. Poi sono arrivate due mosse fulminee e inattese: la prima telefonata del nuovo inquilino della Casa Bianca al leader palestinese Abu Mazen, e la prima intervista ad Al Arabiya. Mosse che hanno scompaginato attese e valutazioni pessimistiche. Ora, più di quel che ha detto Obama conta ciò che ha sottinteso. E il passaggio dell'intervista che più ha colpito non è quello di voler intervenire, subito, per affrontare il conflitto israeliano- palestinese con la determinazione (presunzione?) di aiutare le parti a risolverlo. Ma è la volontà della Casa Bianca di non volersi limitare alla soluzione di un unico problema, appunto quello israeliano-palestinese, ma di avventurarsi contemporaneamente in tutte le crisi dell'area, dalla Siria al Libano, dall'Afghanistan al Pakistan, dall'Iraq all'Iran. Rafforzando quindi l'idea che la soluzione non possa che essere globale, e ridando fiato, credibilità e incoraggiamento al piano saudita, che prevede la normalizzazione dei rapporti con Israele dei Paesi della Lega araba in cambio del ritiro da tutti i territori occupati. Francamente, non è poco.
Su un altro aspetto della politica di Obama, la lotta al terrorismo, e in particolare sul provvedimento di chiusura di Guantanamo, riportiamo dalla prima pagina dell'inserto del FOGLIO, l'articolo di Christian Rocca "Al Qaida lo chiama resort":
Non ci crederete, ma una settimana dopo la decisione di Barack Obama di chiudere, entro un anno, il carcere extraterritoriale di Guantanamo c’è già chi spiega che l’idea non era poi così male e che le alternative a disposizione del nuovo presidente non è detto che siano migliori. A sostenere la tesi non sono (solo) amici di George W. Bush, politici di destra ed editorialisti conservatori, ma intellettuali, opinionisti e giornalisti di sinistra. Ha cominciato il New York Times, raccontando che il carcere americano di Bagram, in Afghanistan, su cui Obama non ha speso una parola, pone problemi decisamente maggiori rispetto a quelli di Guantanamo sia in termini di numero di detenuti (600 contro 245) sia di tecniche di interrogatorio (a Bagram è stato usato tre volte il “waterboarding”, a Guantanamo mai) sia di diritti (a Bagram non si fanno processi, a Guantanamo ci sono le corti speciali militari e i detenuti possono appellarsi ai giudici federali). Domenica scorsa è stato il turno del Washington Post con un lungo articolo di Karen J. Greenberg, direttore esecutivo del Centro sulla legge e sulla sicurezza della New York University e autrice di due libri sulle torture e su Abu Ghraib. Subito dopo, sul giornale online “Daily Beast” di Tina Brown, è intervenuto Dan Abrams, avvocato, capo degli analisti giuridici della Nbc ed ex conduttore di uno degli show televisivi più anti Bush della Msnbc. Entrambi sostengono che l’Amministrazione Bush abbia rovinato tutto, ma che l’idea del carcere militare fuori dai confini americani fosse più che buona, probabilmente la migliore. Abrams sostiene che “una nuova struttura fuori dagli Stati Uniti deve essere presa in considerazione per ospitare e detenere alcuni sospettati di terrorismo catturati all’estero”. L’articolo della Greenberg sul Washington Post è intitolato “Quando Guantanano era (relativamente) buono”. La tesi è che nei primi cento giorni – peraltro quelli più discutibili per la mancanza di regole e per la rabbia post 11 settembre – il carcere era ben gestito, i detenuti trattati bene e le leggi rispettate. Sull’argomento, Greenberg sta per pubblicare anche un libro dal titolo “Il posto meno peggiore: i primi cento giorni di Guantanamo”. L’ex colonnello dell’esercito Gordon Cucullu, invece, ha scritto un libro per Harper Collins che si intitola “Dentro Gitmo – La vera storia dietro i miti della baia di Guantanamo”. Il paradosso per i sostenitori della tesi secondo cui “Guantanamo è il gulag dei nostri giorni” è che la struttura costruita sulla base navale a Cuba è probabilmente la prigione d’alta sicurezza più rispettosa dei diritti umani di sempre, specie se si considera la pericolosità, l’aggressività e la precisa volontà di condurre una guerra santa di gran parte dei suoi ospiti (il libro “Dentro Gitmo” racconta nel dettaglio come a essere vessati, insultati e picchiati siano quotidianamente le guardie, i medici e le infermiere e come nei pochi casi in cui gli agenti hanno reagito alle provocazioni siano stati puniti e degradati). Al di là della propaganda antibushiana di questi anni, secondo tutte le inchieste ufficiali, e anche a detta di alcuni ex detenuti, i prigionieri di Guantanamo sono trattati meglio rispetto agli ospiti di qualsiasi altro normale carcere americano. Guantanamo sconta la polemica politica, l’affievolimento del ricordo dell’11 settembre, la diffidenza internazionale nei confronti della Casa Bianca di Bush e soprattutto lo scandalo di Abu Ghraib, il carcere iracheno dove negli anni scorsi è stata scoperta una serie di abusi sui detenuti. Abu Ghraib con Guantanamo non c’entra nulla, ma la potenza di quelle fotografie e la disumanità del sadismo gratuito di quei soldati hanno creato un legame indissolubile tra i due carceri, malgrado le immagini di Abu Ghraib non mostrassero torture per estorcere informazioni ai prigionieri, ma mascalzonate di gente che si divertiva ad abusare dei prigionieri. A Guantanamo la vita è diversa. Tre pasti al giorno per 4200 calorie quotidiane al costo di 34 dollari a persona per il contribuente americano, contro i 17 spesi per i militari impegnati in Iraq e Afghanistan. Menù che cambia di settimana in settimana e che rispetta le prescrizioni religiose e le richieste individuali dei detenuti. Annunci religiosi in tutte e diciassette le lingue dei prigionieri, luoghi di culto, Corano per tutti e indicazione della Mecca nelle celle e negli spazi comuni. I detenuti di Guantanamo possono contare su un’assistenza medica completa e specialistica, check up semestrali, farmaci antidepressivi (ne distribuiscono mille al giorno) e in carcere sono state curate malattie congenite, ernie, denti e in un paio di casi la struttura ospedaliera è stata pronta a impiantare bypass cardiaci (poi il detenuto s’è rifiutato e ogni volta il costo è stato di mezzo milione di dollari). I prigionieri che rispettano le regole, anche se non collaborano, hanno ampia libertà di movimento, ma l’isolamento non è mai totale nemmeno per i più aggressivi. La comunicazione con l’esterno è permessa, ai detenuti è consentito ricevere la posta e gli avvocati entrano ed escono, così come la Croce rossa internazionale che, salvo casi isolati di abusi fisici, ha lamentato soltanto l’assenza di status giuridico dei detenuti. A Guantanamo ci sono stati tre suicidi simultanei nel 2006 e centinaia sono stati i tentativi, scatenati da una precisa volontà di martirio e non dalle cattive condizioni di detenzione o dall’insopportabilità degli abusi. Centinaia di detenuti che si rifiutavano di mangiare sono stati nutriti forzosamente (e da qualcuno questa è stata considerata “tortura”). C’è da distinguere tra le condizioni di vita nel carcere e gli interrogatori. La questione cruciale è quella delle modalità e delle tecniche di interrogatorio. E’ qui che è scattata l’accusa di aver autorizzato la tortura al fine di ottenere informazioni. Una valutazione attenta di oltre 24 mila sessioni di interrogatorio tenute a Guantanamo, contenuta in otto diversi rapporti (Taguba, Fay-Jones-Kerr, Schlesinger, Navy I.G., Army I.G., Jacoby, Ryder, Miller), ha svelato soltanto tre (3) violazioni sui detenuti, nessuna successiva al 2002. Un numero decisamente basso in generale e addirittura straordinario se si considerano il clima post 11 settembre, le pressioni politiche e l’ansia di raccogliere informazioni per smantellare cellule terroristiche pronte ad attaccare ancora l’America. Soltanto due settimane fa, il 14 gennaio, s’è scoperto il primo e unico caso di tortura a Guantanamo (ma era già una delle tre violazioni di cui si era a conoscenza, solo che ora è stata valutata diversamente). Susan J. Crawford, nominata dall’Amministrazione Bush per presiedere le commissioni militari che hanno il compito di giudicare i detenuti, ha detto a Bob Woodward del Washington Post che il saudita Mohammed al Qahtani “è stato torturato”, perché sottoposto a una combinazione di tecniche di interrogatorio “tutte autorizzate”, ma “applicate in modo apertamente aggressivo e troppo accanito”. Al Qahtani è stato tenuto in isolamento, sottoposto alla privazione del sonno, spogliato ed esposto in modo prolungato al freddo dell’aria condizionata. La Crawford ha specificato a Woodward che “quando si pensa alla tortura, si immaginano orrendi atti fisici su un individuo, ma in questo caso non c’è stato un atto particolare, soltanto la combinazione di cose che hanno avuto un impatto medico su di lui, che hanno fatto male alla sua salute”. Guantanamo non è “al muntazah al-dini lilmujaheden al Muslimin”, il resort religioso per i militanti islamici, come dicono scherzando gli stessi prigionieri, ma è il carcere più lontano possibile dall’idea di un gulag. L’unico vero punto oscuro di Guantanamo, fin dal primo giorno, è stato quello denunciato anche dalla Croce rossa, quello della definizione di “nemico combattente” e dello status giuridico dei prigionieri. La Casa Bianca ha scelto questa formula perché i terroristi di al Qaida non rientrano nella previsione della Commissione di Ginevra, in quanto non appartengono a un esercito regolare e non possono essere riconsegnati al paese di provenienza. Allo stesso tempo non possono essere giudicati con le regole della procedura penale valida per i comuni cittadini americani, perché le modalità della cattura in un campo di battaglia e la necessità di ottenere informazioni non si conciliano con le garanzie processuali previste in un processo ordinario. L’idea di trasferire in un unico carcere extraterritoriale i terroristi di al Qaeda serviva esattamente a questo: Guantanamo non è stato creato per punire o riabilitare i detenuti, ma per tenere questi guerrieri nemici lontani dai campi di battaglia. Guantanamo, però, ha violato o perlomeno ritardato il diritto alla revisione dei casi davanti a un giudice imparziale. Col passare dei mesi, però, si è posto rimedio anche a questo, prima unilateralmente e poi su doppia indicazione della Corte Suprema di Washington. L’Amministrazione Bush ha provato ad esercitare al massimo il proprio potere esecutivo, ma quando i giudici costituzionali hanno stabilito che la Casa Bianca era andata oltre si è rivolta al Congresso che, a grande maggioranza, ha istituito le corti militari che hanno avviato i processi. Obama ha chiesto la loro sospensione per 120 giorni, ma ieri un giudice militare ha giudicato la richiesta “non convincente” e ha stabilito che il processo contro il saudita Abd al Rahim al Nashiri, accusato di aver partecipato agli attacchi del 2000 contro la nave Uss Cole (17 morti), riprenderà il 9 febbraio. I detenuti possono anche appellarsi ai giudici federali per valutare le ragioni della loro detenzione ed è di due giorni fa la sentenza del giudice distrettuale Richard Leon nel caso “Al Bihani contro Bush”, diventato automaticamente “Al Bihani contro Obama”. Il detenuto Ghaleb Nassar Al Bihani, accusato di essere il cuoco dei talebani, secondo il giudice federale deve restare a Guantanamo. Obama ha chiesto a una task force speciale di valutare caso per caso i dossier dei detenuti e di suggerigli entro sei mesi una soluzione che, secondo gli stessi obamiani, potrebbe essere una versione leggermente modificata delle corti speciali già esistenti. I critici del neo presidente temono invece che Obama stia cercando di far rientrare la lotta al terrorismo nel binario giuridico ordinario. In ogni caso, malgrado le critiche, non c’è mai stata una vera sospensione dell’habeas corpus. Il processo di revisione dei casi dei singoli detenuti è andato avanti e ha funzionato abbastanza bene, se si considera che circa 400 detenuti sono stati rilasciati o consegnati alla giustizia dei paesi di provenienza e in alcuni casi a paesi terzi. Altri sessanta sono pronti per il rilascio da almeno un anno, ma c’è il rischio che una volta rimpatriati vengano torturati o uccisi. Da tempo c’è in corso una serrata attività diplomatica del Dipartimento di Stato per convincere i paesi alleati a prendersi cura di questi detenuti, ma soltanto negli ultimi giorni della presidenza Bush sono cominciate ad arrivare risposte positive e ora sarà compito di Obama convincere i paesi europei. Se Obama ci riuscirà, come è possibile, l’Amministrazione avrà fatto un passo avanti verso la chiusura di Guantanamo, ma il problema non è affatto risolto. Ci sarà comunque da trovare la soluzione per i circa 165 detenuti duri e puri, tra cui gli architetti degli attacchi dell’11 settembre, che gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione di rilasciare. Il Washington Post ha scritto che il team Obama ha già cominciato a rendersi conto che “la nuova revisione raggiungerà la stessa conclusione di quella precedente: la maggior parte dei detenuti non può essere rilasciata e nemmeno facilmente processata in questo paese”. Il neo presidente Obama, inoltre, ha disposto con un altro decreto esecutivo la chiusura delle prigioni segrete della Cia, ma con un’eccezione che, di fatto, non cancella le strutture clandestine: “Il termine struttura di detenzione nel comma 4(a) di questo decreto non si riferisce alle strutture usate soltanto per detenzioni a breve termine, su base transitoria”.
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