Da PANORAMA del 9 gennaio 2009, l'analisi di Fiamma Nirenstein "Riscatto dopo il flop in Libano":
Il segreto della missione Piombo fuso, che si propone di impedire a Hamas di continuare a tenere sotto il tiro dei suoi missili oltre mezzo milione di civili israeliani, è uno solo: fare tutto il contrario dell’operazione in Libano del 2006. Israele ha tentennato prima di attaccare, ma la rottura della tregua da parte di Hamas e il peso strategico del suo rapporto con l’Iran hanno posto fine agli indugi.
La commissione Winograd, che esaminò la gestione del conflitto anti Hezbollah, giunse a una condanna dell’intera leadership: Ehud Olmert, Tzipi Livni, il ministro della Difesa Amir Peretz e il capo di stato maggiore Dan Haluz. Mentre Hassan Nasrallah, e insieme con lui la Siria e l’Iran, danzavano sulle macerie di una guerra vinta soprattutto nella percezione pubblica, Israele rivedeva i suoi piani.
Che fosse indispensabile intervenire nell’«Hamastan» di Gaza, Israele lo sapeva da tempo. I cittadini di Sderot, Ashkelon, Ashod e dei kibbutz vivevano nel terrore: un’umiliazione che nessun paese può permettersi di sopportare. La preparazione è durata due anni e mezzo. Il nuovo capo di stato maggiore, Gabi Ashkenazi, proveniente dalla celebre unità dei Golani, ne è un tipico rappresentante: poche parole, pratico, sul campo alla testa dei suoi. Durante questa guerra ha preso la parola solo per dire che non era d’accordo con l’idea di tregua del presidente francese Nicolas Sarkozy.
A differenza di quanto successo in Libano, stavolta i soldati sono arrivati alla guerra freschi di addestramento, conoscendo a fondo il territorio, bene armati e coordinati in modo pignolo con i loro capi, sempre sul campo alla loro testa. La volta scorsa Olmert, dopo il rapimento di due soldati, aveva minacciato gli hezbollah di distruzione totale. Aveva promesso di riportare a casa i rapiti. Stavolta un accurato apparato di comunicazione ha tenuto basse le aspettative dei cittadini e ben chiaro al mondo il significato morale dell’operazione. Si è messa in guardia la popolazione su tempi e sofferenze, si è posto l’obiettivo di far cessare Hamas dal lancio dei missili e non sulla distruzione del regime, si è evitato di collegare il successo alla restituzione di Gilad Shalit.
Il giudizio della commissione Winograd fu estremamente severo: donne e bambini israeliani erano stati lasciati a se stessi davanti a vecchi rifugi in disuso. Stavolta un’attenzione ossessiva è stata dedicata al sistema delle sirene e dei rifugi, alle scuole e agli ospedali; i media sono stati tutti coinvolti, migliaia di volontari non hanno mai lasciato sola la gente.
La rete di intelligence è stata facilitata dallo scontro Hamas-Al Fatah-Egitto, e curata a fondo. L’uso dell’aviazione è stato diretto dunque su obiettivi militari importanti e non è stato ritenuto risolutivo come in Libano. Il dubbio se usare le forze di terra è durato poco, sebbene Gaza sia un’immensa trappola minata, il rischio per i soldati e la paura dei rapimenti siano grandi e l’uso di piazzare i capi terroristi e le armi in zone affollate crei problemi etici continui.
Ultima differenza: benché Israele anche stavolta abbia agito con estrema cautela, così da contenere le perdite fra i civili, le scelte sono state diverse da quelle compiute in Libano: anche per la convenzione di Ginevra la responsabilità degli scudi umani è di chi ne fa uso. La decisione di sconfiggere Hamas impedendogli il lancio dei missili è duplice: deve subire una sconfitta e ammetterla cessando i bombardamenti e non vantare una finta vittoria che galvanizzi il fronte che vuole distruggere Israele. La deterrenza antiraniana, antihezbollah e antisiriana deve essere inequivocabile e deve far capire ai nemici di Israele: siamo forti, pensateci due volte.
L'articolo di Giovanni Porzio "GUERRA a gaza Arabi contro" , nel complesso interessante, non rigetta stereotipi antisraeliani, come quello della popolazione palestinese che sarebbe stata "strangolata dall’embargo israeliano":
La guerra non si combatte solo a Gaza. Mentre i carri armati israeliani cannoneggiano le infrastrutture civili e militari di Hamas e si attestano tra le macerie delle colonie ebraiche evacuate da Ariel Sharon nell’agosto 2005, un altro pericoloso conflitto infiamma il Medio Oriente: quello tra i paesi arabi legati all’Occidente (Egitto, Giordania, Arabia Saudita) e gli stati radicali (Iran e Siria) che armano Hezbollah e i miliziani delle brigate Ezzedin al-Qassam.
È una guerra sotterranea per la leadership politica del mondo islamico, spaccato tra sciiti e sunniti, estremisti e moderati, laici e integralisti. Incapaci di superare i contrasti che li dividono persino sulla logora e abusata bandiera della questione palestinese.
L’ennesima, insanabile frattura si è consumata nella generale indifferenza la scorsa settimana al vertice della Lega araba al Cairo: una «riunione d’emergenza» conclusasi in un nulla di fatto, scandita da rituali attestazioni di solidarietà per le vittime dell’operazione Piombo fuso, appelli al cessate il fuoco e imbarazzate accuse tanto a Israele quanto a Hamas. «Mentre le piazze, da Tripoli ad Amman, si riempivano di cortei di protesta» commenta Nabil Abdel Fattah, analista del Centro di studi strategici Al-Ahram «il panarabismo si è rivelato per quello che è diventato: uno slogan ormai privo di significato, un simulacro pieno di crepe».
Le ambizioni egemoniche di Teheran sono evidenti. L’Iran di Mahmoud Ahmadinejad ha consolidato la propria influenza politica e religiosa in Iraq, nel Libano meridionale e nella Striscia di Gaza, alle porte del Sinai. L’alleanza militare tra gli integralisti sunniti di Hamas, gli ayatollah iraniani e gli sciiti di Hezbollah rappresenta un rischio intollerabile, non solo per lo stato ebraico. «È una minaccia per tutti i paesi arabi» avverte il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni.
In primo luogo per l’Egitto e le monarchie del Golfo, accusati di complicità con Gerusalemme: il leader di Hezbollah, lo sceicco Hassan Nasrallah, artefice della «vittoria» dell’agosto 2006 contro Israele e del successivo riarmo delle sue milizie (nonostante la presenza dei caschi blu dell’Unifil l’arsenale di Hezbollah disporrebbe oggi di oltre 40 mila missili), ha invocato una rivolta contro il regime di Hosni Mubarak, che ha stigmatizzato la «selvaggia aggressione» israeliana ma ha sigillato il valico di Rafah, impedendo la fuga in Egitto ai palestinesi della Striscia.
Il comportamento ambiguo del rais è comprensibile. In Egitto, malgrado una dura repressione poliziesca, l’Islam militante continua a reclutare adepti e i Fratelli musulmani, di cui Hamas è una costola ideologica, sono il principale partito di opposizione. Dall’operazione Piombo fuso Mubarak ha tutto da guadagnare. E negli ultimi mesi, benché impegnato nel vano sforzo di riconciliare Hamas con al-Fatah, ha lavorato in segreto con Israele, con gli Stati Uniti (generosi dispensatori di aiuti economici e militari al Cairo) e con il presidente dell’Anp, Abu Mazen-Mahmud Abbas, per isolare il movimento islamista.
Allo stesso tempo ha chiuso gli occhi sui traffici clandestini alla frontiera di Rafah: dai tunnel ora in parte distrutti dall’aviazione israeliana i contrabbandieri trasportavano, con le armi e gli esplosivi, medicinali, carburante e generi alimentari indispensabili alla sopravvivenza della popolazione di Gaza, strangolata dall’embargo israeliano. E il rais temeva che senza la valvola di sfogo del mercato nero migliaia di palestinesi affamati si sarebbero riversati in Egitto, assieme ai miliziani di Hamas. Anche per questo, adesso, il confine resta chiuso, presidiato dall’esercito e dagli agenti del Mukhabarat.
Ma è un azzardo quello di Mubarak. La sua credibilità è ai minimi storici: alla vigilia dell’offensiva aveva ricevuto al Cairo Tzipi Livni, alimentando il sospetto che fosse stato preventivamente informato dell’attacco israeliano. E dall’esito del conflitto uscirà in ogni caso indebolito: se Hamas non fosse sconfitto, ma anche se Israele conseguisse un successo che l’opinione pubblica araba attribuirebbe, almeno in parte, all’ondivaga politica del rais.
Altrettanto critica è la posizione di Mahmud Abbas, il cui mandato in scadenza a gennaio è stato prorogato di un anno. Le sue tardive parole di condanna per l’offensiva a Gaza non sono servite a placare l’ira degli arabi di Israele e dei palestinesi della Cisgiordania, che lo accusano di connivenza con il nemico e minacciano una nuova intifada nei territori occupati, dove la legittimità dell’Anp appare sempre meno scontata.
Anche la Giordania e l’Arabia Saudita sono sulla difensiva: la polarizzazione dello scontro tra paesi moderati e radicali rischia di destabilizzare i regimi arabi più vicini all’Occidente. Televisioni e giornali iraniani e siriani si scagliano senza sosta contro i governi che il colonnello libico Muammar Gheddafi ha marchiato in tre parole: «deboli, vigliacchi, disfattisti».
E la propaganda incendia le strade: gruppi di manifestanti hanno assalito il consolato egiziano ad Aden, nello Yemen; a Teheran gli studenti hanno attaccato l’ambasciata britannica; violente dimostrazioni si sono svolte a Beirut, Amman, Damasco, Il Cairo, Ramallah, Giacarta e persino a Kabul. «Non c’è più margine per il dialogo» afferma sconsolato Muhammad al-Masri, ricercatore al Centro di studi strategici di Amman. «Chi tace è considerato colluso con Israele e gli Stati Uniti».
Tace, preoccupato, il sovrano saudita Abdullah, che nel 2002 a Beirut aveva sponsorizzato il piano di pace panarabo e che era in trattativa con la Siria per risolvere il lungo contenzioso tra i due paesi, ora nuovamente congelato. Anche la posizione di Riad è ambigua. Alleato di ferro di Washington e primo fornitore arabo di greggio agli Stati Uniti, il regno wahhabita è il più esposto agli urti dello sciismo militante e degli ayatollah di Teheran. Ma attraverso le sue fondazioni religiose è al tempo stesso uno dei principali finanziatori di Hamas.
Tace, dopo la formale richiesta di porre fine al massacro di Gaza, anche il presidente siriano Bashar al-Assad, che vede sfumare la speranza di un accordo con Israele sulla restituzione delle alture del Golan. I negoziati indiretti inaugurati in maggio con la mediazione turca sono stati sospesi. Le sue caute aperture all’Europa, tese a rianimare un’economia moribonda, soffocata da decenni di burocrazia socialista, si sono bruscamente arenate. E intanto sabato scorso è piombato a Damasco il capo del Consiglio supremo iraniano per la sicurezza nazionale, Said Jalili. Che ha incontrato due ospiti di Assad: i leader di Hamas e della Jihad islamica in esilio, Khaled Meshaal e Ramadan Abdullah Shallah.
Il tentativo di riannodare i fili della diplomazia araba resta paradossalmente affidato a un membro della Nato: la Turchia. Paese chiave, per i suoi rapporti con Israele e con il mondo islamico. Il premier Recep Erdogan ha sì definito un «crimine contro l’umanità» l’attacco a Gaza. Ma è un atto dovuto, un biglietto da visita per la sua prossima tournée al Cairo, Riad, Amman e Damasco che non può scalfire l’intesa strategica tra Ankara (prima capitale musulmana a riconoscere lo stato ebraico nel 1949) e Gerusalemme, legate dal 2000 da un trattato commerciale di libero scambio. E non solo. Le marine dei due paesi conducono esercitazioni navali congiunte e le forze armate turche stanno negoziando l’acquisto dei satelliti spia israeliani Ofeq e dei missili Arrow. È inoltre in progetto la costruzione di un oleodotto dalla Turchia a Israele, attraverso la Siria.
Erdogan punta a sostituire l’anziano e spompato rais del Cairo nel ruolo di mediatore tra i due schieramenti del mondo arabo. Ma le distanze sono ormai siderali. E finché sui teleschermi di Al-Jazeera continueranno a scorrere le immagini dei bambini di Gaza uccisi dalle granate israeliane, può solo sperare di raggiungere, nel migliore dei casi, un inutile compromesso di facciata.
Su L' ESPRESSO, Gigi Riva intervista Ely Carmon:
Non c'era più tempo... Ely Karmon, ricercatore dell'Istituto di studi contro il terrorismo di Herzlyia (Tel Aviv), forse l'uomo più esperto al mondo di Hamas e delle connessioni tra il gruppo integralista palestinese con Hezbollah, la Siria e l'Iran (ci ha scritto innumerevoli libri e saggi) qualifica come "inevitabile" l'invasione della Striscia di Gaza. Non tanto perché in Israele il 10 febbraio si vota e il governo doveva dimostrare ai cittadini di avere a cuore la loro sicurezza. Non solo per evitare una grana al presidente americano entrante Barack Obama. Nemmeno perché erano tornati a piovere a Sderot e dintorni i missili Kassam. "Non c'era più tempo", a sentire lui, per una ragione assai più grave: "In sei-otto mesi Hamas sarebbe stato in grado di procurarsi dei missili di una gittata tale da poter colpire Tel Aviv. E questa capacità bellica, unita a quella di Hezbollah, avrebbe prodotto l'effetto di mettere in pericolo, sotto tiro, praticamente l'intero territorio dello Stato". Uno scenario inaccettabile per la leadership politica e per quella militare".
Professor Ely Karmon, quali sono i segnali che l'hanno fatta giungere a una conclusione tanto estrema.
"Potrei rispondere semplicemente che l'hanno detto loro stessi: 'In caso di aggressione possiamo continuare a bombardare Israele per giorni'. L'hanno dimostrato. Usano ordigni con una gittata assai superiore al passato. Secondo informazioni di intelligence usano come base i missili di fabbricazione iraniana Fajar 3 e Fajar 5 modificati. Hanno ricevuto anche quelli ancora più potenti in possesso di Hezbollah. Avevano sfruttato la tregua per costruire tunnel sotto il confine con l'Egitto più moderni e capienti da cui sono passati ordigni davvero molto pesanti. Ora non saprei dire se dispongono di diverse batterie, ma giurerei che ne hanno almeno 10-15 che servono loro per fare propaganda e per terrorizzare Israele. Credo anche abbiano i missili contraerei Sam7".
Solo i missili la preoccupano?
"No. Partiamo dal basso. Dal materiale umano. Dai soldati. All'inizio la milizia di Hamas era formata da tremila combattenti. Adesso sono circa 20 mila. Ai quali si devono aggiungere gli ausiliari dei Comitati di resistenza popolare. I migliori li hanno mandati, sempre attraverso i tunnel, in Siria e Iran ad allenarsi e sono tornati come istruttori. La loro stessa televisione ha mostrato le immagini di campi di addestramento a Gaza. Hanno diviso la Striscia in tre settori che corrispondono a tre comandi, Nord, Centro e Sud, ognuno dei quali dispone di compagnie, battaglioni, addirittura reggimenti. Si tratta di gente preparata. Adesso che l'esercito israeliano è dentro Gaza possono usare i missili terra-terra (hanno anche quelli) contro i carri armati".
Significa che se Israele volesse occupare, ora o nel futuro, la Striscia di Gaza dovrebbe contare molti morti.
"Molti morti sì. Ma nessuno vuole arrivare a questo scenario. Né i politici né i militari. Poi molto dipenderà da come si uscirà dal conflitto, come influirà la diplomazia che si è mossa con qualche primo parziale risultato positivo".
Quale esito è accettabile per Israele?
"Israele deve anzitutto essere certo di aver conseguito una vittoria militare chiara con la distruzione di tutte le infrastrutture che Hamas ha costruito nell'ultimo anno e mezzo. Con una forza se non completamente annientata almeno ridotta al minimo, il movimento estremista non avrà più la possibilità di tenere il controllo politico della Striscia. Non dimentichiamo che prese il pieno potere con un golpe militare dopo il quale ha represso con molta violenza tutte le manifestazioni di protesta, comprese quelle in ricordo di Arafat. In tutto questo tempo non ha dato nulla alla popolazione palestinese e ha portato solo sofferenza".
E l'Anp, col presidente Abu Mazen, potrà riprendere la sovranità nell'area?
"La chiave sta tutta nel controllo della Philadelphi road, la strada che corre lungo il confine con l'Egitto, la vera bombola a ossigeno cui è attaccata Gaza. Se Israele occupasse la strada, impedendo la ricostruzione dei tunnel, permettesse alla Forza 17 fedele ad Abu Mazen di insediarsi nella Striscia e contemporaneamente si organizzasse una forza militare internazionale che garantisse l'efficacia del controllo della frontiera (non come fa Unifil nel Sul del Libano) ecco che in un periodo che potrebbe arrivare al massimo al prossimo autunno l'Autorità palestinese potrebbe riprendere il controllo della Striscia".
Barbara Schaivulli, sempre sull'ESPRESSO sostiene la sicura vittoria di Hamas, la cui creazione sarebbe stata favorita da Israele contro Arafat. Un altra falsità della propaganda: Israele ha soltanto permesso le attvità sociali prima che Hamas divenisse un'organizzazione politica.
Ecco il testo:
Il segretario di Ayman Daramesh, un parlamentare di Hamas eletto a Jenin, è incollato al televisore. Guarda rapito Al Jazeera, l'unica emittente dentro Gaza dall'inizio dell'attacco israeliano. Le immagini che scorrono sono devastanti. Ecco la strage nel rifugio dell'Onu con 30 morti di cui molti bambini. Sangue, distruzione, silenzio. Scuote la testa, borbotta da solo, poi si illumina, sghignazza e indica lo schermo: ci sono soldati israeliani feriti, alcuni morti, questo servizio gli piace di più. Eppure il suo capo, l'onorevole Daramesh non deve essere uno che dispiace agli israeliani, è quello che si dice "un estremista di Hamas moderato", non disdegna di stringere la mano a una donna, indossa abiti occidentali, parla inglese e dice subito che la "distruzione di Israele non è più nei piani di Hamas". Si parla del futuro, di quello che sarà Hamas dopo l'invasione israeliana a Gaza, degli spiragli diplomatici che si intravedono, delle intenzioni israeliane di indebolire il movimento e di impedire che i 6500 missili lanciati da Gaza dal disimpegno del 2006 che hanno causato la morte di 11 israeliani nel sud, smettano di piovere sulle loro teste. "L'idea della resistenza non si può distruggere come un palazzo. Finché durerà l'occupazione ci sarà resistenza", dice Daramesh. "Le sorti di un movimento salgono e scendono, ma il principio resta costante. Hamas è un movimento popolare che era in piena battuta d'arresto negli ultimi mesi, questo attacco ci ha ridato popolarità".
Erano tempi duri per Hamas. Nel 2006 aveva sì vinto le elezioni (76 seggi su 132) sbaragliando il corrotto Fatah, ma non è riuscita in seguito a governare. "L'Europa ha commesso un grande errore a fare muro contro Hamas, ha perso l'occasione di trascinarli in un discorso politico. Ha permesso che la leadership politica indebolita venisse soverchiata da quella militare che non ha nessuna buona intenzione verso il processo di pace", dice un diplomatico europeo. Hamas non è un'entità compatta. Anche per questo è difficile abbatterla. Un movimento religioso, una rete di servizi sociali, un partito politico e una guerriglia armata: da una parte il vertice politico esterno alla Cisgiordania e Gaza guidato da Khaled Meshaal in Siria e formato da una decina di uomini che si occupano della diplomazia e di raccogliere i soldi oltre a prendere le decisioni più importanti; poi un consiglio locale, un'assemblea di una cinquantina di persone che prendono la maggior parte delle decisioni consultandosi via telefono, messaggini, fax, codici segreti perché non possono incontrarsi visto le difficoltà di movimento nei territori palestinesi presidiati dai posti di blocco israeliani. Infine l'ala armata, Izzedim al Qassam. I militari lavorano in piccole cellule di massimo dieci persone completamente indipendenti anche se per il via alle operazioni tendono sempre ad avere l'ok dai vertici. Da due anni a questa parte Gaza è stata il loro regno. Grazie anche al sostegno costante dell'Iran e della Siria che ha fornito loro soldi e armamenti. Dai missili Kassam fatti in casa, sono passati ai Grad con gittate molto più lunghe. Uno ha raggiunto Bersheeva a 40 chilometri da Gaza. Non era mai accaduto prima. Missili fabbricati in Cina, gli stessi che finiscono in Iraq e in Afghanistan. A Gaza arrivano attraverso i tunnel costruiti sotto i campi profughi vicino al confine egiziano. Un'intera rete sotterranea, dalla quale sono entrate armi, cibo, medicine, perfino animali esotici. Dall'altra parte, l'Egitto è rimasto a guardare. Spiega Jerald Steimber, direttore del dipartimento di Studi Politici dell'università di Bar Ilan a Tel Aviv: "L'Egitto ha permesso ad Hamas di crescere, ha un governo ormai troppo debole, non credo che la loro impotenza sia frutto di una scelta. E gli europei non possono darci soluzioni: le loro istanze sono ridicole, anche se venisse una forza internazionale sarebbe troppo debole, vedi Libano dove gli Hezbollah sotto gli occhi delle Nazioni Unite si sono riarmati.
INTERNAZIONALE, dedica le prime pagine del numero di questa settimana ada attaccare la risposta israeliana all'aggressione di Hamas.
Riproduce l'editoriale fortemente critico dell'Economist, fotografie di morti palestinesi a tutta pagina, e un articolo della giornalista israeliana di sinistra Amira Hass.
Le ragioni dello Stato ebraico, così come sono state argomentate nei quotidiani israeliani, sono relegate a un riquadro intitolato "Noi non ci sentiamo colpevoli".
Un paese che si difende da un'aggressione incessante, confrontandosi con avversari che deliberatamente mettono a repentaglio le vite dei loro stessi civili, è così presentato alla stregua di un assassino incapace di provare rimorso.
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