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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Riformista - Il Manifesto - Il Foglio - Il Giorno - L'Opinione Rassegna Stampa
23.09.2008 Pericolo Iran: c'è chi lo vede e chi fa finta di niente
rassegna di quotidiani

Testata:Il Riformista - Il Manifesto - Il Foglio - Il Giorno - L'Opinione
Autore: Anna Meldolesi - la redazione - Alessandro Robecchi - la redazione - Alessandro Litta Modignani
Titolo: «Ahmadinejad, parla di meno e libera gli Alaei - Con Teheran business as usual - Tanti piccoli Hitler - La cena perfetta di Ahmadinejad - Così Ahmadinejad vuole portare in dote a Putin l’intesa con gli ayatollah - L'Iran a un passo dall'atomica - Iran, per»

Sui quotidiani del 23 settembre 2008, si trovano diversi articoli dedicati alle dichiarazioni di Berlusconi su Ahmadinejad e al regime iraniano:

Il RIFORMISTA pubblica un articolo  su un caso di violazione dei diritti umani

Ahmadinejad, parla di meno e libera gli Alaei

Oggi, quando Ahmadinejad prenderà la parola all'assemblea generale delle Nazioni Unite, l'attenzione della comunità internazionale sarà puntata sul dossier nucleare e sulle minacce allo stato di Israele. Ma le preoccupanti ambizioni atomiche del regime non dovrebbero oscurare l'altra emergenza, quella della violazione dei diritti umani. Ieri un gruppo di esuli ha esposto degli striscioni per denunciare arresti ingiustificati ed esecuzioni sommarie, anche di minorenni. E c'è un altro inquietante fatto di cui il presidente iraniano dovrebbe essere chiamato a rendere conto: la sparizione di due medici, noti per il loro contributo ai programmi di prevenzione dell'Aids nel paese. Sono fratelli, si chiamano Arash e Kamiar Alaei, e nessuno sa che fine abbiano fatto dopo che sono stati arrestati alla fine di giugno con l'accusa generica di aver congiurato contro la Repubblica islamica dell'Iran. La loro storia suggerisce che il regime sia ormai in preda a una sindrome paranoide, capace di trasformare chiunque in un nemico della rivoluzione o in una spia.
I fratelli Alaei probabilmente hanno due colpe agli occhi dei fondamentalisti. La prima è quella di eccessive frequentazioni con la comunità scientifica internazionale, che era rimasta piacevolmente sorpresa dai programmi avviati sotto la presidenza Khatami per contenere la diffusione dell'Hiv. Quando sono stati arrestati il primo era in procinto di partire per la Conferenza internazionale sull'Aids di Città del Messico, mentre il secondo - che si stava specializzando ad Albany, presso la State University of New York - era tornato a Teheran per la pausa estiva. Chi li ha conosciuti giura che non erano coinvolti in attività antigovernative e a documentare la loro indole pacifica ci sarebbero diverse email spedite da Kamiar ai vecchi compagni di master di Harvard. Celebravano la bellezza dell'Iran mentre Washington considerava l'opzione militare contro Ahmadinejad e l'ultima, spedita il giorno prima dell'arresto, raccontava la gioia del medico per il ritorno a casa.
La seconda colpa dei fratelli Alaei, probabilmente, è quella di essersi occupati di una malattia legata a sesso e droga in un paese in preda a un'involuzione fondamentalista. Il loro approccio alla prevenzione, a contatto con tossicodipendenti e prostitute, era sbocciato nell'era Khatami e con il senno di poi è facile capire che doveva avere i giorni contati. Invece di condannare a morte i narcotrafficanti e riempire le prigioni di tossicodipendenti, come l'Iran faceva negli anni '80, nell'ultimo anno della presidenza Khatami, il 2005, si distribuivano siringhe e profilattici, anche ai detenuti. Il problema è che l'Iran si trova nel corridoio della droga, che esce dall'Afganistan per raggiungere l'Europa, e detiene da tempo il record dei consumatori di oppio procapite. Dall'oppio all'eroina il passo è breve, soprattutto se le fluttuazioni del mercato rendono la seconda più conveniente. E insieme agli aghi infetti, ovviamente, si muove anche l'Hiv. È così che secondo il rapporto rilasciato quest'anno dal Who, oggi in Iran vivono circa 80.000 sieropositivi, quasi il doppio del 2001. Una cifra che equivale allo 0,2% della popolazione adulta. Ora però il pendolo delle politiche governative è tornato indietro: la prevenzione ha ceduto nuovamente il posto al pugno di ferro, con divieti e controllo militare delle frontiere. E a farne le spese, a quanto pare, non sono solo gli eroinomani, in gran parte disoccupati e giovani insofferenti alle restrizioni imposte dai guardiani della morale.
Nelle ultime settimane in aiuto dei due fratelli Alaei ha iniziato a mobilitarsi la comunità scientifica, con uno sforzo che ricorda quello a favore delle infermiere bulgare e del medico palestinese imprigionati in Libia con l'accusa grottesca di bioterrorismo. Physicians for Human Rights, International Aids Society, Foundation for Aids Research, American Association for the Advancement of Science hanno firmato insieme a migliaia di scienziati e medici un appello online (www.iranfreethedocs.org) per chiedere che venga reso noto il luogo della detenzione e che Arash e Kamiar abbiano almeno la possibilità di incontrare un avvocato. La speranza è che questo caso attiri l'attenzione delle cancellerie, irrompendo anche nel Palazzo di vetro. E che la politica non impieghi 7 anni, come accadde in Libia, per scrivere il lieto fine.

Sempre Il RIFORMISTA  segnala criticamente il fatto che tra Italia e Iran continuano a intercorrere ottime relazioni commerciali:

Con Teheran business as usual

«C'era una volta un tal signore che all'inizio sembrava un democratico e che poi ha fatto quel che ha fatto. E voi sapete a chi mi riferisco». Un signore, si presume con i baffi a spazzola. Nella querelle tra Italia e Iran innescata dal paragone - suggerito da Silvio Berlusconi alcuni giorni fa a Parigi - tra «chi arriva a dire che bisognerebbe cancellare Israele dalle cartine geografiche» - leggi Ahmadinejad - e quel tal signore, da conservare c'è innanzitutto questo identikit di Adolf Hitler.
Per il resto, l'impressione è che i rapporti tra Roma e Teheran possano continuare sull'abituale doppio binario segnato dalla continuità tra centro-sinistra (presunti amici della teocrazia) e centro-destra (presunti nemici del tiranno). Sul versante retorico un tempo c'era la speranza per l'evoluzione riformista del regime (qualcuno forse ricorda l'introduzione di Violante a un saggio di Khatami), poi l'indignazione nei confronti del truce Mahmud. Entrambi con altalenanti preoccupazioni sul nucleare iraniano e esitazioni sul ruolo da svolgere nella vicenda. Sull'altro binario, quello dell'interesse nazionale, rapporti solidi se non privilegiati riassumibili nei 5,7 miliardi di Euro di interscambio nel 2007 che fanno dell'Italia il primo partner commerciale Ue dell'Iran.
Certo gli iraniani, dopo aver accolto serenamente il ritorno di un esecutivo di centro-destra (il consigliere diplomatico di Ahmadinejad al Riformista confidò che «con loro i rapporti erano sempre stati ottimi») hanno avuto di che irritarsi. Prima il mancato incontro bilaterale in occasione della visita di Ahmadinejad a inizio del giugno scorso, con il bonus dell'appello anti-tiranno firmato da Frattini sul Riformista. Poi la buona accoglienza parlamentare riservata agli oppositori Mujahedin del popolo. Il tutto condito da una serie di dichiarazioni più o meno ostili. Rientrano però tutte - come ha chiarito il portavoce della diplomazia iraniana - nel novero degli «atteggiamenti non equilibrati che va oltre le regole protocollari». E sono, sempre stando agli iraniani, dichiarazioni non «indegne» ma «non degne di un paese come l'Italia». Non muta infatti la sostanza dei rapporti. Giovedì quando i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza si riuniranno per discutere eventuali nuove sanzioni all'Iran, la voce dell'Italia giungerà assai flebile. Tanto più che il sistema-Italia solo in maniera assai blanda applica le informali sanzioni finanziarie promosse da Washington. E la recente nomina come ambasciatore a Teheran dell'ottimo Alberto Bradanini , tra i diplomatici più esperti sui dossier commerciali, fa presagire un'era ancora più florida per il nostro business.

Esclusivamente strumentale a fini di politica interna italiana la critica a Berlusconi di Alessandro Robecchi sul MANIFESTO. Il suo articolo è interamente dedicato ai rischi veri o immaginari (Berlusconi non ha certo rivalutato Hitler, e sostenerlo significa travisare completamete e deliberatamente il senso delle sue parole) del "revisionismo" su fascismo e nazismo, e ignora totalmente il fatto che il presidente di uno Stato nega la Shoah e vuole cancellare Israele dalla faccia della terra.

Tanti piccoli Hitler

La frase è di quelle che fanno fare un salto sulla sedia: «Già una volta c'è stato un tal signore che all'inizio sembrava un democratico e che poi ha fatto quello che ha fatto». Parole (e musica) di Silvio Berlusconi, che stabilisce un altro record: è il primo leader mondiale nel dopoguerra ad attribuire una patente di democrazia nientemeno che a Hitler, forse punta al Guinness dei primati. Avendo decine di portavoce, giannizzeri e camerieri, Silvio Berlusconi è stato subito protetto da una fitta cortina di parole. Voleva solo polemizzare con il presidente iraniano, non l'ha fatto apposta, non è cattivo, lo disegnano così, e tutte le scemenze che si sentono in contorno alle pittoresche esibizioni del capo del governo. Ma le parole restano, e anche se pure i sassi sanno che Hitler non è stato democratico nemmeno all'asilo, nemmeno in un attimo di distrazione, nemmeno per un nanosecondo e meno che mai «all'inizio», l'ultima esternazione porta il suo piccolo mattoncino alla costruzione della Storia riveduta e corretta. Direte: ci vuol altro per fare il revisionismo storico! E infatti c'è molto altro. Appena una settimana fa, per dire, lo stesso Berlusconi, raggiunto dalla domanda «Lei è antifascista?», aveva risposto con un secco «Io penso a lavorare», una frase che dice molto. C'è il ministro della difesa che inneggia alle scelte dei repubblichini di Salò. C'è la serena analisi storica del sindaco di Roma, per cui il fascismo non era niente male prima di distrarsi un attimo e varare le leggi razziali (ops! gli sono scappate). Insomma, ad Alemanno non dispiaceva per niente, il Puzzone, almeno «all'inizio». Esattamente quel che dice Berlusconi del Führer, quel famoso democratico (all'inizio). Siamo garantisti, non siamo di quelli che pensano che tre indizi fanno una prova, ma non vorremmo arrivare al punto che cinquanta indizi fanno un campo di sterminio. E i segnali sono davvero tanti, troppi, per non allarmare qualunque democratico italiano. Le incredibili esternazioni di Dell'Utri sui libri di storia nelle scuole, che vanno riscritti perché c'è troppa Resistenza. I manifesti a Roma con scritto «me ne frego». Il crociato Borghezio in versione neo-nazi a Colonia. La signora Santanché che implora di entrare in Forza Italia dopo aver inneggiato al Ventennio. I numerosi deputati apertamente fascisti eletti con le liste del PdL. Potrei continuare a lungo. Non c'è giorno che la cronaca non offra le gesta di qualche ardito che porta il suo mattoncino al cantiere del revisionismo. Manuela Clerici, di An, presidente di Viareggio Versilia Congressi Spa, vuole levare dal palazzo la lapide commemorativa della strage di Sant'Anna di Stazzema, ci ha provato anche con le sue mani, dopo che i dipendenti si erano rifiutati. Altra cronaca: il 20 settembre si celebra la breccia di Porta Pia, bene, uno pensa: ditemi qualcosa di laico. E invece ci si ritrova al cospetto di un commosso ricordo dei soldati papalini che eroicamente difendevano lo Stato Pontificio. E allora, quanti indizi servono per fare una prova? È abbastanza evidente che nella sua sostanza ideologica l'area culturale in cui naviga e prospera la destra italiana vive con fastidio certe evidenze storiche. Pensa - e lo dice - che quel trucido periodo di ferocia e ingiustizia che fu il fascismo non era proprio tutto da buttare. Perché tanto astio? A parte la voglia di rivincita degli sconfitti, vien da pensare, c'è una certa urgenza di rivalutare quei metodi: uomo forte, decisionismo, il duce ha sempre ragione, saluto al duce (e il grembiulino, l'alzabandiera, a quando i littoriali? E l'Impero?), un fascino irresistibile. Insomma, uno mediatico simile a quello che si vede ogni sera nei telegiornali Mediaset e nella propaganda governativa, una voglia sfrenata di «uomo della provvidenza», la tentazione di vedere nel bilanciamento dei poteri di una democrazia non una conquista, ma un fastidioso ostacolo. Non è antifascista, ma pensa a lavorare. Bravo! Tanto se i treni non arrivano in orario, per tacere degli aerei, è colpa dei sindacati. Nostalgia canaglia.

Di seguito, l'editoriale del FOGLIO :

La cena perfetta di Ahmadinejad

Come in una favola della resa e del relativismo politico, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, atteso alle Nazioni Unite per il nuovo annuncio sull’imminente sparizione dello stato ebraico, sarà l’ospite d’onore all’hotel Hyatt di New York. A invitarlo sono state le anime belle dei “cristiani per la pace”, la potente lobby dei cristiani liberal. A presenziare alla cena, al fianco del leader iraniano che propugna l’incenerimento dell’“albero marcio” israeliano, ci sarà il presidente dell’Assemblea generale dell’Onu, Miguel d’Escoto Brockmann, il prete sandinista sospeso a divinis negli anni Ottanta da Giovanni Paolo II e dall’allora cardinale Joseph Ratzinger. I cultori della retorica multilateralista,i partigiani del radicalismo pacifista e il pavone dell’antiamericanismo militante, massimo rappresentante di un’istituzione che ha paragonato il sionismo al razzismo, si siederanno al tavolo con il mite carnefice del medio oriente. Il cosiddetto “dialogo” di Brockmann ad Ahmadinejad altro non offre che l’ennesima piattaforma mediatica e politica per esporre un’ideologia genocida che ammorba il medio oriente. Bene quindi ha fatto il premier Silvio Berlusconi a evocare lo spettro dell’hitlerismo contro l’espansionismo islamista di Ahmadinejad. Bene ha fatto la vice di McCain, Sarah Palin, a dire che “non rischieremo mai più un altro Olocausto. L’Iran deve essere fermato”. Con il diavolo non si va a cena, nemmeno con un lungo cucchiaio.

Sempre dal FOGLIO, un'analisi sul sostegno della Guida suprema iraniana Khamenei ad Ahmadinejad e sulla strategia di quest'ultimo volta a ottenere l'appoggio russo:

Così Ahmadinejad vuole portare in dote a Putin l’intesa con gli ayatollah

Roma. Il presidente iraniano è un’anatra zoppa, raccontavano le cancellerie occidentali ai tempi di Mohammed Khatami. Ha letto Hegel e Kant, le sue intenzioni sono buone, ma non ha abbastanza potere. Alla vigilia del suo quarto intervento dinnanzi all’Assemblea generale dell’Onu, nessuno dubita della posizione di Mahmoud Ahmadinejad. Arriva a New York accolto dalle usuali proteste, dalle dure parole di Obama e Mccain (e Palin), e dall’impotenza (ormai dichiarata) dell’Aiea, mentre rinasce la speranza che dalla sfida di Mosca alla leadership mondiale degli Stati Uniti emerga una rinnovata morbidezza sul fronte delle sanzioni per il programma nucleare di Teheran. Arriva a New York, Ahmadinejad, anche rinvigorito sul fronte interno. Il presidente china la testa soltanto all’ayatollah Ali Khamenei e si è conquistato un ruolo che in pochi, all’inizio, gli avrebbero accreditato. A colpi di invettive si è ammantato del ruolo di leader panislamico e, accantonato il gioco delle parti tra riformatori e conservatori, ha fatto esplodere le contraddizioni tra i decani dell’establishment, fautori dello status quo, e i nuovi falchi rivoluzionari e messianici. In tre anni e mezzo di presidenza, Ahmadinejad è sopravvissuto a un tentativo di impeachment e ha schivato una manovra di palazzo per anticipare di un anno la fine del suo mandato. Nel corso di quest’ascesa ha scardinato equilibri consolidati in tre decadi di khomeinismo e pestato i piedi ai protagonisti della nomenklatura. Si è inimicato l’eminenza grigia Hashemi Rafsanjani e il suo predecessore Khatami; si è scontrato con l’influente ex negoziatore nucleare Ali Larijani e con il consigliere di Khamenei, Ali Akbar Velayati. Anche l’economia ha ricevuto il trattamento Ahmadinejad: dopo la cura, l’inflazione è schizzata dall’11 al 27 per cento e, per far fronte alla crisi, la Banca centrale sta considerando di emettere nuove banconote “alleggerite di tre zeri”. Il centro studi del Parlamento ha lanciato un monito contro l’erosione delle riserve di valuta estera e il conservatore Elias Naderan, ex sostenitore di Ahmadinejad, l’ha accusato di aver sottratto al fondo 840 milioni di dollari di cui non si conosce la destinazione. Se non fosse per le rendite garantite dal prezzo del petrolio, l’economia sarebbe al collasso e i “mullah pragmatici”, per i quali l’ideologia non è un fine ma un mezzo per preservare l’ordine costituito, gridano alla catastrofe. Khamenei è spesso intervenuto per mitigare i contrasti tra Ahmadinejad e la vecchia guardia: ci sono state occasioni in cui ha richiamato all’ordine il suo pupillo, ma in molte altre circostanze il rahbar ha preferito trincerarsi dietro un severo monito all’unità nazionale. Si è mostrato sensibile ai timori di un establishment sempre più allarmato dal revanscismo dei pasdaran e, al contempo, non ha potuto nascondere il compiacimento dinnanzi al fervore neorivoluzionario del suo presidente. Accantonato il “modello cinese” dei mullah tycoon alla Rafsanjani, Ahmadinejad ha soffiato nuova vita nell’esangue messaggio khomeinista, conquistando quel 10/15 per cento della popolazione che costituisce l’ossatura del sistema. Ostile all’ ipotesi di engagement con gli Stati Uniti, Khamenei sa che, con Ahmadinejad al timone, il corso della politica iraniana resterà ancorato al corso rivoluzionario: ai suoi occhi, l’ex sindaco di Teheran rappresenta un asset insperato per l’Iran. La stagione elettorale che culminerà con la chiamata alle urne il 12 giugno 2009 sta per aprirsi e lo scenario potrebbe naturalmente mutare, ma a oggi il presidente parte favorito.

Un dirigente del Mossad, Yossi Baidatz, ha illustrato
al governo israeliano allarmanti dati di intelligence sui progressi del programma nucleare iraniano. Lo riferisce Il GIORNO nell'articolo "L'Iran a un passo dall'atomica".

Alessandro Litta Modignani su L'OPINIONE critica la recente intervista allo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua alla STAMPA

http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=110&id=25945

Iran, per chi non suona la campana di allarme

In un mondo alla rovescia, lo scrittore Abraham Yehoshua dichiara a La Stampa che l’Iran non è un pericolo per Israele. In un mondo alla rovescia, è il regime iraniano, che minaccia di “cancellare l’entità sionista”, a rimproveranza una “mancanza di stile” a Silvio Berlusconi. Perché ha paragonato indirettamente il presidente di Teheran a Hitler. E lo stesso Ahmadinejad, oratore all’Onu, parla dello sviluppo dei popoli. Abraham Yehoshua è sicuramente un grande scrittore, ma di politica capisce assai poco. Nell’intervista pubblicata ieri sul quotidiano La Stampa, lo scrittore israeliano non solo mostra di sottovalutare la minaccia iraniana, ma sembra anche voler preventivamente rimproverare a Israele alcune scelte che lo Stato ebraico potrebbe essere costretto a compiere, suo malgrado, nel prossimo futuro. Il titolo stesso del pezzo (“Teheran non è un pericolo per Israele”) è tutto un programma. “Ahmadinejad non è Hitler, perché non ha altrettanto potere ed è consapevole che Israele può distruggere l’Iran”. Forse Yehoshua non conosce quanta irrazionalità vi fosse nel nazismo e in Hitler? E quanta ve ne sia oggi nel fondamentalismo islamico? Egli dimostra di non aver riflettuto abbastanza sulla natura intrinsecamente folle del fanatismo religioso, del quale i kamikaze rappresentano solo il tragico epifenomeno. Sulla base di questo argomento, non sarebbe mai potuta scoppiare la II Guerra Mondiale, un’autentica apoteosi di irrazionalità anche sul piano militare.

L’Iran, sostiene Yehoshua, rappresenta una minaccia assai più per i paesi del Golfo che per Israele. Ma questo non significa nulla: una minaccia non esclude l’altra, anzi la rafforza. E’ vero, l’Iran punta all’atomica, ammette ancora lo scrittore, ma perché teme un’aggressione americana come quella all’Iraq. Sulla base di questa giustificazione, tutti i paesi del mondo dovrebbero possedere l’atomica, poiché “minacciati” dai soli 8 che attualmente ne dispongono. E la Corea del Nord, allora? E La Corea del Sud, di conseguenza? E tutti gli altri, perché no? Yehoshua definisce “inaccettabile” il modo in cui Ahmadinejad parla di Israele, ma ritiene che sia l’Occidente a doversi fare carico del problema. “L’Iran non è affar nostro”, arriva a dire: parole degne di uno sprovveduto. Un attacco trasformerebbe l’Iran da nemico “passivo” (quale sarebbe ora) ad attivo, pertanto gli israeliani non devono fare la guerra, “soprattutto non per primi”, ammonisce il letterato pacifista. Ma se l’Iran avrà la bomba, solo chi attacca per primo avrà speranza di sopravvivere. Nell’analisi di Yehoshua, Israele deve continuare a mantenere la calma ai suoi confini. Il pensiero che Iran, Hezbollah e Hamas attaccheranno al momento opportuno, neppure lo sfiora. “Non dobbiamo buttare benzina sul fuoco... Non è nostro dovere attaccare l’Iran” è la conclusione. Il fatto che la minaccia iraniana non sia ancora pronta, caro professore, non significa che non sia reale. Al contrario, significa che quando sarà pronta, sarà troppo tardi. Forse un attacco preventivo non sarà il “dovere” di Israele, come dice Yehoshua, ma certo è un suo diritto. Nel frattempo, per avere implicitamente paragonato Ahmadinejad a Hitler, una nota diplomatica iraniana accusa Silvio Berlusconi di “atteggiamento non equilibrato e al di fuori delle regole protocollari per un capo di governo europeo”. Senti chi parla. Per un capo di governo iraniano, evidentemente, queste stesse regole non valgono. Ieri notte “Hitler” parlava all’Onu. Chissà che lezione di stile.

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