Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Al via il festival internazionale di letteratura ebraica interviste a Nathan Englander e a Sami Michael
Testata:La Repubblica - Il Riformista Autore: Susanna Nirenstein - Francesca Bolino Titolo: «Il pianeta degli scrittori ebrei - Il mio incubo, essere una spia israeliana»
Da La REPUBBLICA del 18 settembre 2008, un'intervista di Susanna Nirenstein a Natahn Englander:
Nathan Englander è nato e cresciuto in una famiglia di ebrei rigorosamente ortodossi di New York, e in quell´ambiente ha pensato, pregato, frequentato le scuole religiose, osservato meticolosamente le 613 mizvot, i precetti che abbracciano ogni aspetto della vita di un buon ebreo. Fino a che, a 18 anni, diventato ormai un po´ scettico a proposito di fede, ha spiccato il volo per Gerusalemme, e qui si è scoperto un autentico non credente: «Perché arrivando laggiù mi sono reso conto di quanti modi diversi esistessero di sentirsi ebreo». Dopo pochi anni, ne aveva 27, in un su e giù tra l´America e Israele, arrivò il trionfo con Per alleviare insopportabili impulsi (Einaudi), raccolta di racconti d´esordio esilaranti, sorprendenti, dolenti, poetici, popolati di ebrei chassid e non, in varie parti del mondo e della storia, tra tradizione yiddish, eredità singeriana, le lezioni del primo Philip Roth e forse un pizzico di Kafka. E poi ancora Israele, cinque anni, nel periodo più duro degli attentati kamikaze. Tornato a New York, un altro libro, un altro successo, Il ministero dei casi speciali, ambientato in Argentina, dove personaggi adatti a Sholem Aleichem, come in una barzelletta, cancellano dalle lapidi del cimitero ebraico i nomi poco rispettabili, ma in realtà sono immersi in una tragedia: ricercare quel che resta di un parente morto ammazzato dal regime, un´ispirazione nata in Englander davanti alle bombe dei terroristi in Israele, quando per i congiunti delle vittime diventava così importante trovare un lembo del corpo di un figlio, una madre, un marito. Chi più adatto di lui, cittadino globale dell´ebraismo, a parlare dei nodi della letteratura ebraica? E infatti Nathan Englander, oggi trentaseienne, è uno degli ospiti di spicco del primo Festival Internazionale ad essa dedicato che si terrà a Roma da sabato al 24 settembre alla Casa dell´Architettura (vedi box). Mentre riesce in paperback nella nuova collana Contemporanea degli Oscar Mondadori Il ministero dei casi speciali, l´abbiamo contattato via e-mail a New York e, tra un taxi per il Kennedy Airport e uno in corsa da Fiumicino a Roma, gli abbiamo posto alcune domande sulla natura, i temi, i personaggi, i luoghi di un grandioso fenomeno letterario, che comunque Nathan non considera un mondo a sé. Mr. Englander, esiste una letteratura ebraica? Agnon, Sholem Aleichem, Singer, Bellow, Roth... hanno qualcosa in comune con Oz, Grossman, Yehoshua, e poi ancora con lei o Etgar Keret? «Posso fare delle connessioni tra gli scrittori che elenca, ma non penso ricadano in un´unica categoria. In mezzo ci sono autori yiddish, israeliani, ebrei americani. Per me appartengono a classi diverse: Yehoshua è uno scrittore legato a Haifa, Grossman un vero gerusalemitano. Etgar (Keret) un artista telavivino post-moderno. Penso che Yehoshua e Keret riderebbero di vedersi ammucchiati nello stesso gruppo. Capisco che il lettore potrebbe guardare i nomi e dire "Sono tutti ebrei", ma potrebbe anche dire "Sono tutti uomini", che non è il mio modo di vedere la cosa, ma la maniera in cui li leggo». Dopo il successo di Per alleviare insopportabili impulsi lei affermò di non voler essere considerato uno scrittore ebreo. Cosa c´è di male in questa definizione? «Non c´è niente di sbagliato nell´esser considerato uno scrittore ebreo. Resisto solo all´idea che io debba vedere il mio lavoro come qualcos´altro. Perché vi aspettate che guardi i miei personaggi e dica "queste non sono persone normali, ma ebrei"? Io sono ebreo, e non la vedo come un´anomalia. Non leggo però i libri secondo questo criterio. Non dico "Oh, mi è piaciuto molto il romanzo di Peter Carey - come australiano scrive davvero bene". Mi interessano i protagonisti e la storia, tutto qui. Semplice. Certo, scrivo di ebrei. Ma per me è un pianeta complesso, completo e normale. Mi rifiuto di considerarlo un genere». Ci sono però alcuni temi ricorrenti. Ad esempio, si sente più coinvolto dai lavori di Safran Foer o di Daniel Mendelsohn in cerca delle loro radici europee distrutte dalla Shoah, o dalla letteratura israeliana contemporanea più focalizzata sulla vita di ogni giorno in un contesto così forte come quello israeliano? «Foer è un amico. Questa settimana ci saremmo parlati almeno sei volte. E questa è la categoria in cui lo metto, gli amici scrittori. E dunque lo leggo in modo diverso. Non conosco Mendelsohn, ma me ne hanno parlato bene». C´è comunque una differenza importante tra lei e gli altri scrittori ebrei americani. Lei ha scelto di andare a vivere in Israele per un lungo periodo. «È stata una decisione che ha influito molto sulla mia scrittura. Sicuramente mi ha portato a Il ministero dei casi speciali, ambientato sì in Argentina ma ai miei occhi molto, molto israeliano. Riguardo all´essere andato in Israele, mi sono innamorato di Gerusalemme, semplicemente. Ci sono tornato e ritornato. Poi, quando il processo di pace era ancora in vita, volevo farne parte. Conteneva una promessa, la pace tra gli arabi e gli israeliani. Gerusalemme sarebbe fiorita. Volevo essere là, contribuire, vivere e scrivere in quella meravigliosa città durante quel meraviglioso periodo. La pace però non ha funzionato». Perché se n´è andato? «Perché dopo cinque anni volevo tornare a New York. Mi manca Gerusalemme, ma amo Manhattan. È dove voglio stare adesso (almeno che qualcuno non abbia un bell´appartamento per me a Roma, perché ne potrei discutere)». Il mondo letterario ebraico - anche se lei non accetta questa definizione - è completamente cambiato con l´arrivo degli scrittori israeliani. Cosa rappresentano per Englander? «Questo ci riporta alla prima domanda. La diaspora ebraica e Israele sono due cose diverse. Molto diverse. Yehoshua ne ha scritto a lungo. Non credo che l´arrivo degli scrittori israeliani abbia cambiato la "letteratura ebraica". Non esiste un´unica categoria. I grandi scrittori hanno tutte voci differenti». Un ebreo può fare a meno del suo legame con Israele? «Certo. Ogni comunità vivace ha uno spettro di personalità diverse. Qualcuno dedica la sua vita a sostenere Israele, altri sono anti-israeliani. Se tutti fossero uguali, non ci sarebbe un posto per me. E non ci sarebbero così tante storie da raccontare».
Da Il RIFORMISTA:
Sami Michael, dopo Victoria e Una tromba nello Uadi, esce in Italia per la Giuntina, il suo terzo libro, Rifugio, un romanzo politico su Israeliani e Palestinesi. «Quando ho scritto Rifugio ho pensato che fosse venuto il momento per arabi ed ebrei di conoscersi meglio. Nonostante vivano gomito a gomito e respirino la stessa aria, arabi ed ebrei conoscono pochissimo l'uno dell'altro. Le identità, le culture, ma anche le paure e i desideri di questi due popoli rimangono confinate nei piccoli mondi di ognuno invece di creare ponti di convivenza. Una buona politica può nascere soltanto dalla conoscenza profonda dell'altro. In questo senso Rifugio può essere considerato un romanzo politico». In Israele questo romanzo è uscito nel 1977. Come è stato accolto allora e, oggi, è ancora attuale? «In Israele il romanzo suscitò un gran clamore quando fu pubblicato. Per prima cosa è ambientato nei primi tre giorni della Guerra del Kippur, la guerra più dolorosa per Israele, che era finita da pochi anni e le cui ferite non si erano ancora cicatrizzate. Forse non lo sono fino ad oggi. Ma soprattutto, Rifugio ha attirato attenzione su di sé perché è stato il primo romanzo israeliano a parlare apertamente di uno Stato Palestinese e a raccontare quali sentimenti di aspirazione nazionale vivessero nelle anime dei palestinesi. Attraverso le storie intime dei personaggi ho cercato di raccontare che cosa provasse dentro di sé un arabo israeliano, un palestinese nato nei territori, un palestinese arrivato profugo nei territori e, al tempo stesso, ho cercato di narrare le differenze di sentimenti tra un arabo cristiano e un arabo musulmano, tra una donna araba e un uomo arabo. Storie di vite totalmente nuove per il lettore e per il cittadino israeliano che mai si sarebbe immaginato di avere di fronte una realtà così complessa. Si tende sempre a vedere il nemico come un blocco monolitico, per semplificare le cose. Riguardo all'attualità del libro oggi: ahimè, credo che sia ancora attuale. Da una parte il muro di ignoranza ancora sussiste, dall'altra le ambizioni di questi due popoli non si sono ancora realizzate, la pace è ancora lontana e le persone, come i personaggi del libro, continuano disperatamente a cercare "rifugio"». Lei è nato in Iraq ed è fuggito in Israele nel 1949 perché perseguitato dal regime di allora. Giunto in Israele con l'arabo come lingua madre, ha dovuto imparare l'ebraico. Rifugio è uno dei suoi primi romanzi scritti nella "nuova" lingua. «Arrivato in Israele, mai avrei pensato di poter continuare a scrivere come facevo in Iraq. In Israele l'arabo era la lingua del nemico e nel mondo arabo chi avrebbe voluto leggere i libri di un "sionista"? Rinunciai a questa aspirazione e iniziai a lavorare per il governo come esperto di risorse idriche, al confine della Siria. Poi, un giorno, mi sono seduto alla mia scrivania, ho preso una penna e un foglio e ho scritto la mia prima frase in ebraico. Goccia dopo goccia l'ebraico è entrato dentro di me; ogni volta che ci penso sono convinto che si sia trattato di un miracolo. Sono diventato uno scrittore israeliano. Da allora mi dedico a narrare gli universi che ho avuto il privilegio di conoscere». Arabo ed ebreo al tempo stesso, è possibile conciliare due origini simili? «Se lo vuoi è possibile. Se non rinunci a vedere sempre il lato buono delle cose, se hai la forza di non scoraggiarti e di arrenderti ai conflitti e all'odio che esistono nel mondo, allora è possibile. Ma scegliere di non rifiutare la mia identità araba e, al tempo stesso, mantenere quella ebraica e israeliana è stata una scelta di solitudine, perché invece di acquisire amici e solidarietà da entrambe le parti, mi sono ritrovato circondato da critici e astio. Durante una conferenza in Israele ho detto che certe volte mi sento di vivere in uno Stato fatto di una sola persona. In quella conferenza c'era un giovane scrittore arabo israeliano, Sayed Kashua, che è intervenuto dicendo che sarebbe stato pronto ad essere l'ambasciatore di questo Stato. Ecco, questa è una soddisfazione molto grande che ripaga tutte le difficoltà. Allo stesso modo, sapere che i miei libri vengono pubblicati in Egitto e in Iraq mi dà la sensazione che il mio percorso ha avuto un senso, è servito ad avvicinare i popoli». È mai tornato in Iraq? Ha nostalgia del suo paese natale? «Quando sono fuggito nel 1949 non ho fatto in tempo a salutare nemmeno mia madre. Non sono mai più tornato. Oggi ho ottantadue anni e ancora faccio un sogno. Sogno di essere seduto nel mio bar preferito lungo il fiume a Baghdad. Parlo con i miei amici mentre beviamo limonata e fumiamo il narghilè. Sono felice. Poi viene il cameriere e mi chiede di pagare il conto. Io metto una mano in tasca e tiro fuori i soldi, ma sono soldi israeliani! E allora tutti intorno iniziano a gridare: "Una spia israeliana! Una spia israeliana!" - allora mi sveglio e mi metto a scrivere...» Lei è il più famoso e affermato degli scrittori sefarditi israeliani, cosa vi distingue rispetto agli scrittori di origine ashkenazita come Oz o Grossman? «Posso rispondere per me stesso. Credo che prima di tutto è stato difficile farsi accettare dall'élite culturale ashkenazita che dominava il paese, in particolare nei suoi primi anni. È una strada in salita quella di uno scrittore che è immigrato in Israele con, come bagaglio, la lingua e la pelle del nemico. Alla fine sono comunque riuscito a scalarla. Le qualità della mia scrittura non sta a me giudicarle. Posso dire però che grazie al fatto di conoscere l'arabo, avere in me questa cultura e conoscere da vicino la mentalità del mondo arabo, sono riuscito a costruire personaggi arabi con onestà, rispetto e verità. Ho la sensazione che invece gli scrittori ashkenaziti debbano sempre compiere grandi sforzi di immaginazione per raccontare l'arabo che vive accanto a noi; solo attraverso la fantasia filtrata da ciò che hanno appreso in Israele cercano di superare il muro che divide ebrei ed arabi, e spesso il risultato è un'immagine alterata e soggettiva dei nostri vicino arabi. E questo, anche se gli intenti sono buoni, non ci aiuta a conoscersi meglio».