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Il Manifesto Rassegna Stampa
14.09.2008 La domanda giusta da porre a Chiamparino
così capisce come vanno le cose a Gerusalemme Est

Testata: Il Manifesto
Data: 14 settembre 2008
Pagina: 9
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «Rompere il silenzio a Hebron»

IL MANIFESTO di oggi, 14/09/2008, a pag.9, con il titolo "Rompere il silenzio a Hebron" pubblica una corrispondenza di Michele Giorgio, che non commentiamo, ne lasciamo il peso all'eventuale lettore che volesse farsene carico. Lo stesso facciamo con l'intervista al regista Avi Mograbi, dello stesso Giorgio. Abbiamo pubblicato i due pezzi per non lasciare da solo quello che ci interessava di più, il monito al sindato di Torino Sergio Chiamaparino, a Gerusalemme per un convegno. Lo ammonisce Giorgio, vai a Gerusalemme Est, e guarda che differenza con la Gerusalemme abitata dagli ebrei ! Può darsi che Chiamparino ci caschi, perchè forse non sa che la maggior parte degli abitanti arabi di Gerusalemme Est non paga le tasse al Comune, sempre pretendendo però di ricevere ugualmente i servizi, tutti. La domanda da fare a Chiamparino è semmai questa: " cosa penseresti se la maggior parte dei torinesi non pagasse le tasse al comune che dirigi ?" è questa la domanda, ci auguriamo che qualche nostro lettore, che ha la ventura di frequentare il sindaco, gliela porga. E altri, magari, gliela inviino e-mail.

Cominciamo con Chiamparino:

C’è anche il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, tra i 60 «primi cittadini» di tutto il mondo che oggi si riuniranno a Gerusalemme per l’annuale conferenza organizzata dal municipio israeliano della città. In passato la presenza alla conferenza era limitata a sindaci di città poco importanti, talvolta sconosciute. Di recente invece il livello della partecipazione è cresciuto, come testimonia la presenza di Chiamparino, a conferma che è ormaiaccettata senza problemi l’idea di Gerusalemme capitale di Israele, nonostante lo status della Città Santa resti ancora da definire a livello internazionale e la zona araba (Est) sia stata occupata e annessa unilateralmente allo Stato ebraico. E’ auspicabile che Chiamparino prenda informazioni sulla situazione nel settore arabo della città dove i servizi comunali, a differenza di quanto avviene nella zona ebraica, sono rari e scadenti. (Mi.Gio.)

 

 «Ero a Hebron da paio di giorni, nel 2002, la situazione era tesa, c’erano stati parecchi morti in quel periodo, anche tra coloni e soldati israeliani, e il comandante della nostra unità mi convocò in una scuola palestinese che l’esercito aveva trasformato in una postazione di tiro». Il sergente Yehuda Shaul, ora riservista, racconta la sua vicenda nel silenzio totale di Shuhada Street, nella zona H2 di Hebron sempre più una città fantasma. «Il comandante mi guardò per qualche secondo - prosegue il militare – poi mi disse: ho saputo che sei bravo ad usare il lanciagranate. Ecco, di fronte a te c’è il quartiere di Abu Sneineh da dove sparano i cecchini palestinesi contro le nostre case (dei coloni). Ogni volta che apriranno il fuoco tu dovrai rispondere lanciando granate. Pensai che era folle prendere di mira abitazioni civili palestinesi, perché queste armi sono micidiali, lanciano 5-6 granate al minuto e uccidono o feriscono ogni essere umano nel raggio di otto metri. Ma lo feci, e divenne routine, una specie di video-game, e qualche settimana dopo rispettai anche l’ordine di aprire il fuoco a scopo preventivo, ovvero senza aspettare che a sparare fossero prima i palestinesi». Eppure fu proprio l’obbedire senza fiatare agli ordini, anche quando a pagare con la vita erano civili, che cominciò a scuotere la coscienza di Yehuda Shaul, 26 anni, divenuto nel 2004 il fondatore di «Breaking the Silence», una associazione di soldati israeliani che avevano prestato servizio a Hebron e che decisero di «rompere il silenzio» raccontando crimini e violenze compiuti dai coloni ma anche dai militari a danno degli abitanti palestinesi. Oggi «Breaking the Silence» organizza conferenze e tour, pubblica libri e dvd con testimonianze di soldati – purtroppo in gran parte anonime – raccolte ovunque nei Territori occupati e che confermano la brutalità dell’occupazione militare cominciata nel 1967.Yehuda Shaul non è un attivista di sinistra, si definisce «un laburista», e le sue origini sono tutte sul versante opposto dello schieramento politico. E’ un ebreo ortodosso, osserva rigorosamente lo shabat e il kashrut e porta la kippa. «La mia famiglia è di destra, mia sorella vive in una colonia, a Gush Etzion, e hanno accolto con sdegno lamia decisione di raccontare tutto. Alcuni dei miei familiari e dei vecchi amici non mi rivolgono più la parola. Ma io non torno indietro – spiega l’exmilitare - non si può continuare a nascondere la verità, a tenere segreti abusi e violenze sistematiche contro i civili palestinesi. Ad Hebron ne ho viste troppe e noi soldati non facevamo o non potevano fare nulla per impedire questi crimini perché solo la polizia è autorizzata a trattare con i coloni. I nostri comandanti ci dicevano soltanto di vietare ai palestinesi di transitare in certe strade, di farli sparire dalla circolazione, con le buone e con le cattive, in modo da evitare frizioni con i coloni ebrei. Una volta dei coloni aggredirono a freddo, davanti ai miei occhi, una donna palestinese che tornava dal mercato per punirla, dissero, per il massacro del 1929 (il 23 agosto di quell’anno, in seguito all’uccisione di due palestinesi in apparenza da parte di ebrei, in tutta la Palestina esplosero gravi incidenti. A Hebron i palestinesi uccisero 67 membri della piccola comunità ebraica che viveva nella città, i sopravvissuti vennero evacuati dopo alcuni giorni, ndr).» Divisa nel 1997 in due zone – H1 e H2 –, per un accordo sottoscritto da Israele e Anp, Hebron oggi è una città tenuta in scacco dai coloni, circa 500, giunti dopo l’occupazione della Cisgiordania nel 1967. Nella zona H2, sotto il controllo militare israeliano, quella dove è situato l’importante sito religioso della Tomba dei Patriarchi, sacro ad ebrei emusulmani, oltre ai coloni risiedono circa 30mila palestinesi. Senza protezione, soggetti ad abusi quotidiani, circa un terzo degli abitanti palestinesi ha lasciato la zona H2. Tutti gli altri cercano di farsi vedere il meno possibile in giro. La cashab è deserta, i negozi sono in buona parte chiusi (tra 600 ed 800 esercizi commerciali arabi sono stati costretti a tenere abbassate le saracinesche dopo il 2000), in Shuhada Street, la via principale della zona H2 ormai si vedono solo coloni, soldati e poliziotti. Siamo diretti a casa di Hani Abu Heikal, un palestinese amico di Yehuda Shaul, che di fatto vive prigioniero a casa sua perché adiacente alla piccola colonia di Tel Rumeida. Lungo la strada Shaul è come un fiume in piena che ha rotto gli argini, vorrebbe raccontarci le «mille storie» che ha vissuto o sentito. Ma le sue parole vengono interrotte dall’ arrivo improvviso di un colono, Ofer Ohana, come lui stesso ci dice presentandosi qualche secondo dopo. Shaul è odiato e disprezzato dai coloni israeliani, lo considerano un traditore, uno che si è «venduto al nemico», agli arabi. Ohana non è aggressivo, piuttosto vuole farsi beffe del soldato che ha rotto il silenzio. «Yehuda, Yehudili, Yehudel, guarda qui, guarda qui. Hai telefonato al tassista, il tuo amichetto arabo Hisham per dirgli di tenersi pronto a fuggire?», ripete ossessivamente il colono tenendo la sua telecamera a non più di 3-4 centrimetri dal volto di Shaul. Poi improvvisamente riceve una telefonata e si allontana. L’ex soldato riprende il suo racconto ma la calma dura poco. Dopo meno di un minuto, all’inizio di Shuhada Street, giungono altri tre coloni. Tra questi, due sono noti come i principali esponenti dell’estremismo di destra che domina in molte colonie ebraiche in Cisgiordania: Baruch Marzel e Itamar Ben Gvir (entrambi hanno firmato qualche giorno fa un «patto» di resistenza contro qualsiasi evacuazione di insediamenti colonici nei Territori occupati). Il primo si disinteressa di Shaul e, con tono di voce calmo e monotono, ci esorta a non ascoltare «quelle bugie». Yehuda Shaul, ripete Marzel, «è un malato di mente, tutta la sua famiglia ha grossi problemi, sua sorella dice di essere religiosa maè una poco di buono. Sappiamo tutto di loro. Shaul lavora per conto dell’ Unione europea, sì lo pagano gli europei per costruire le sue accuse contro gli ebrei», insiste monocorde il colono, mentre a distanza di un paio di metri Ben Gvir spara raffiche di offese infamanti contro Shaul. Proseguiamo lungo via Shuhada Street. L’atmosfera è tesa ma ancora calma, i coloni, diventati nel frattempo una dozzina, ci seguono assicurando che «tutto è a posto», ma, all’improvviso, nei pressi di Bab Zawiyeh, al transito per la zona H1, Ben Gvir, ben riconoscibile per la sua camicia color giallo, sferra un calcio alla gamba destra di Shaul che accusa il colpoma prosegue senza fiatare, per evitare il peggio. Poi comincia la gara di coraggio di bambini e ragazzi, tra i 10 e 12 anni, contro il «traditore». Un paio riescono a raggiungerlo con calci e sassi. Giunge finalmente la polizia ma a finire sotto accusa è proprio Shaul. «Basta, sei in arresto, tutte le volte che vieni qui esplode un casino», urla un agente tra gli sguardi soddisfatti dei coloni. Saliamo assieme all’ex militare a bordo della jeep della polizia che ci porta alla Tomba dei Patriarchi. Ci viene intimato di lasciare subito la città, Shaul però non demorde. «Voglio andare a far visita al mio amico (palestinese), e ci andrò a qualsiasi costo», ripete ai poliziotti che, stanchi della discussione, ci ordinano di rientrare nella jeep e ci portano a tutta velocità a casa di Hani Abu Heikal. Il sistema di comunicazione interna dei coloni si dimostra ancora una volta molto rapido. All’ingresso dell’abitazione ci attendono Ben Gvir e Ohana per scaricare addosso al «traditore» altre decine di parole irripetibili. La tensione di Shaul si scioglie a casa di Abu Heikal. Quelli che un tempo erano i suoi nemici, contro i quali lanciava granate, oggi lo accolgono con un sorriso e una stretta dimano. «Ahlan wa sahlan, benvenuto Yehuda, entra, accomodati », dice Abu Heikal. «Ramadan karim”, replica Shaul mostrando rispetto per ilmese sacro islamico. «La nostra esistenza è un inferno – riferisce Abu Heikal, «tutte le volte che esco o torno a casa devo superare quattro posti di blocco militari mentre i coloni si muovono liberamente ». Il suo resoconto è un triste elenco di vessazioni continue. «I coloni fanno di tutto per costringermi a lasciare casa: hanno dato fuoco più volte alla mia auto, ai miei alberi d’olivo. Ho filmato alcune di queste azioni con la telecamera chemi ha dato “Betselem” (un centro per diritti umani israeliano, ndr) e le immagini spesso mostrano i volti dei responsabili degli attacchi. Ho consegnato tutto alla polizia (israeliana) ma sino ad oggi non e’ accaduto nulla, i coloni continuano a fare ciò che vogliono», prosegue Abu Heikal, che ci saluta con una promessa: «non andrò via, resterò qui». Torniamo a piedi verso la Tomba dei Patriarchi, Shuhada Street è vuota. Regna il silenzio, il silenzio che Yehuda Shaul ha deciso di rompere. Mi. Gio.

I Crimini e il rimosrso, dilemmi israeliani nei film di Avi Mograbi

Non è una firma nuova del cinema israeliano quella di Avi Mograbi ma è una delle poche in controtendenza con i temi scelti da buona parte dei registi locali che per realtà oggi intendono solo le strade di Tel Aviv oppure il coraggio e le emozioni dei soldati sul fronte di guerra in Libano. Mograbi ci racconta vicende scomode, crimini compiuti nei Territori occupati palestinesi che rimangono segreti per volontà dei comandi militari ma anche per il crescente disinteresse internazionale. Qualche settimana fa a VeneziaMograbi ha presentato Z32, l’ammissione di un massacro compiuto durante l’Intifada. Per vendicare l’uccisione di sei soldati, i comandi israeliani ordinarono alle unità speciali una dura rappresaglia, denominata Z32: ammazzare a sangue freddo poliziotti innocenti in quattro posti di blocco palestinesi. Abbiamo incontratoMograbi qualche giorno fa alla Cinematheque di Tel Aviv. I soldati israeliani che appiono nel suo film rivelano di aver compiuto un crimine di guerra. Uno di loro ossessivamente chiede alla sua ragazza di perdonarlo. Piuttosto dovrebbe rivolgersi ai familiari delle vittime. Quel soldato forse non ha molte altre possibilità. Chiede perdono alla sua ragazza perché immagina che non potrà mai rivolgersi alle famiglie delle vittime. Potrebbero non capirlo e respingere con forza quel pentimento tardivo che non riporterà in vita i loro cari. Credo sia importante il rimorso che quel militare prova per il crimine che ha commesso. Ed in ogni caso la sua ragazza non è pronta a perdonarlo automaticamente, anzi lo mette costantemente di fronte alla gravità di ciò che ha fatto. Però è un crimine di guerra che rimane all’interno di un rapporto tra due persone e, di conseguenza, all’interno della società israeliana. Lei stesso nel film si interroga se è giusto che quel crimine continui ad essere solo parte del copione di Z32 oppure non debba essere portato a livelli di giudizio più ampi e più alti. Il dilemma esiste anche perché c’è la consapevolezza di un atteggiamento consolidato in Israele: spariamo e poi versiamo lacrime. Facciamo cose terribili e poi corriamo a confessare tutto o quasi alla nostra società e, alla fine, emergiamo come vittime e non come colpevoli. Tuttavia è molto importante portare alla luce questi crimini durante il nostro tempo, ora e non dopo decine di anni. Per questo ritengo centrale il lavoro che svolge Breaking the silence nonostante non venga rivelata l’identità dei soldati che offrono le loro testimonianze. Non pochi però dubitano che quelle testimonianze abbiano un impatto sulla società israeliana Anche questo è un nodo non sciolto. Temoche la società israeliana non sia ancora disposta per affrontare quei temi. La storia di Z32 era già apparsa qualche anno fa su alcuni dei principali giornali del paese ma non provoco’ reazioni, di alcun tipo e su questo dobbiamo riflettere. Guardiamo, ad esempio, alla ragazza del soldato in Z32. Aveva sentito quella storia tante volte eppure non è in grado di ripeterla davanti alla cinepresa e quel suo comportamento, di rimozione dell’accaduto, rappresenta l’atteggiamento della società. Insomma è come proclamò qualche esponente politico israeliano all’inizio dell’Intifada: non perdoneremo ai palestinesi di aver costretto i nostri giovani a diventare assassini. Qualcosa di simile lo disse prima di tutti gli altri (il premier scomparso)Golda Meir: ci costringono a fare ciò che facciamo. Gli israeliani si percepiscono sempre come vittime, odiano assumersi la responsabilità di ciò che fanno e preferiscono accusare gli altri. Per questo ritengo sia necessario continuare a spingere la società israeliana ad affrontare (i crimini di guerra) partendo da presupposti diversi da quelli attuali. Z32 e Breaking the Silence vanno in quella direzione.

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