Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Chi dimentica la storia dalle polemiche sulle dichiarazioni di Alemanno e La Russa al nuovo libro di Ariel Toaff
Testata:L'Unità - Il Giornale - La Stampa - Corriere della Sera Autore: Umberto De Giovannangeli - Ariel Toaff - Mauro Baudino - Francesco Verderami - Luca Telese Titolo: «Gli ebrei e il fascismo di ritorno - Se gli ebrei si mettono l'aureola - L'ebraismo ostaggio della Shoah - Fascismo e caso Salò: sprovvedutezza di sindaco e ministro - Pansa:»
Di seguito, alcuni articoli accomunati dal tema della memoria storica della Shoah e del nazifascismo
Da L'UNITA' del 10 settembre 2008 un 'intervista a Pietro Terracina e Tobia Zevi:
Sul braccio porta il marchio indelebile di una ferita che non si rimargina: A-5506. A imprimerglielo furono le SS ad Auschwitz. Piero Terracina, 80 anni, è un testimone di quella tragedia; un testimone, lucido, appassionato, giovane nello spirito, che non accetta che l’oblio della memoria rimuova una Storia che va ricordata perché non si ripeta. Tobia Zevi, ha 24 anni. È un giovane impegnato ma è anche parte di una generazione che si vorrebbe priva di memoria. Ed è proprio il diritto-dovere alla memoria, e il passaggio tra le generazioni, il filo conduttore del nostro incontro. Un viaggio tra passato e presente, tra un dolore che si rinnova e una necessità, spesso inevasa, di conoscere. Di capire, da parte dei giovani d’oggi, cosa c’è dietro quel «A-5506» che Piero Terracina porta con sé, porta su di sé. Voglia di capire. Nella consapevolezza che «senza memoria non c’è futuro». Un futuro di cui i ragazzi come Luca vogliono essere protagonisti. Con l’aiuto di coraggiosi, instancabili, testimoni come Piero Terracina. L’UNITÀ La memoria del fascismo torna di attualità e incrocia la polemica politica. Ma questa memoria è un peso o è un investimento sul futuro per il nostro Paese? PIERO TERRACINA È una cosa e l’altra. Comunque difficile. Ricordare è un po’ rivivere. E questo è pesante, molto pesante.
Ma è un sacrificio che noi testimoni dobbiamo fare per trasmettere ai giovani la memoria di ciò che è stato, perché nessuno possa più dire: “io non sapevo...”. E nell’aver ascoltato chi ha vissuto quella tragedia, possano a loro volta diventare testimoni, facendo propri quei fatti. Perché possano dire: “Io lo so, perché ho parlato con un testimone, e lui mi ha raccontato...”. Non è facile rinnovare quei ricordi. A volte nel vedere il turbamento, la commozione dei ragazzi non riesco ad andare avanti. Devo fermarmi, bere un sorso d’acqua, fare finta di pensare. Non vorrei dar prova di debolezza, ma non ci posso far niente. Il dolore del ricordare a volte è insopportabile, anche a distanza di tanti anni. Ma poi mi dico: “Piero, devi farlo, devi andare avanti, anche per tutti quelli che da quei lager non sono più usciti...». L’UNITÀ. Male giovani generazioni sono pronte davvero ad ascoltare queste testimonianze o le vivono come un fastidio? TOBIA ZEVI. «Non direi che tra noi giovani ci sia un fastidio o una reticenza ad ascoltare ed apprendere. Piero Terracina e gli altri ex deportati che molto spesso fanno questa esperienza nelle scuole o nei viaggi organizzati con gli studenti, traggano l’impressione di un interesse sincero dei ragazzi. Quello su cui varrebbe la pena interrogarsi è sulla qualità di questa memoria. La sfida per tutti noi è quella di riuscire a declinare l’emozione che si crea nel momento in cui c’è il rapporto diretto con il testimone, organizzando quell’emozione in una pratica di vita quotidiana, civile, sociale, umana in grado di migliorare questa società sulla base della conoscenza delle esperienze, e delle tragedie, del passato. Da questo punto di vista, qualche rischio c’è... L’UNITÀ Quale sarebbe questo rischio? TOBIA ZEVI. « Uno è il fatto che, a fronte di tutto questo lavoro, quello che si vede nelle inchieste, o pseudo tali, che vengono condotte su questi temi tra i giovani, a emergere è una ignoranza tremenda, dilagante, a volte tragicomica, quando viene chiesto se sapete cosa è Auschwitz, e la risposta è “una discoteca”, o “La notte dei cristalli” è un “festival”... Il rapporto col testimone non può essere disgiunto da uno studio sistematico, attento, rigoroso della storia ai vari livelli di istruzione, perché è questo il bilanciamento necessario. E per noi giovani comprendere perché quella tragedia si è compiuta, significa ragionare sul fatto che anche se non necessariamente nelle stesse forme o proporzioni, e non necessariamente qui e oggi, quella tragedia potrebbe riaccadere. Come peraltro è gia accaduto , anche se non nella stessa gravità, negli ultimi i cinquant’anni. Primo Levi nei suoi libri parla proprio di questo. L’altro aspetto della qualità, è quello di tradurre questo lavoro di conoscenza in un approccio attivo delle nuove generazioni. Ciò significa dire: io ho sentito questa storia drammatica, ho sentito che c’è stata questa ingiustizia terrificante perpetrata verso miei coetanei dell’epoca, persone innocenti, ebbene, io cosa avrei fatto se fossi stato non tanto una vittima, con la quale è facile immedesimarsi perché non pone sensi di colpa, ma se fosse stato il compagno di banco di quel bambino ebreo che nel 1938 si allontanava dalla scuola perché non poteva più studiare in quella scuola in quanto ebreo?» PIERO TERRACINA. Nelle scuole deve entrare la Storia, a cui noi testimoni possiamo portare il contributo di una esperienza diretta. Una Storia rigorosa. È quello che la scuola deve pretendere, che tutti noi dobbiamo esigere. E io dico che, tutto sommato siamo fortunati. Ci sono tanti insegnanti che sono motivati e tantissimi ragazzi che vogliono sapere e che non sanno. Quando sono tra loro, vedo nei loro occhi la commozione, tocco con mano il loro interesse...Mi si stringono intorno, vogliono ancora sapere. E mi dicono: “Io non sapevo”. E non sapevano, questi ragazzi, perché questo non fa parte dei programmi della scuola. E invece conoscere il passato è importante. È importante perché certe tragedie terribili che sono accadute, se non si conoscono ci si può ricadere. È importante conoscere, e riflettere, sul passato, perché senza memoria non c’è futuro...». TOBIA ZEVI: «E c’è chi sul non sapere, imposto, costruisce una sub cultura politica...». PIERO TERRACINA. «A me è capitato di andare in alcune scuole in cui gli insegnanti mi avevano messo in guardia: “Signor Terracina attento, perché qui i ragazzi sono schierati...Devo dire che sono state le scuole dove ho ottenuto i risultati migliori, dal mio punto di vista. Quando un ragazzo mi dice: “Io non sapevo”, beh, vuol dire che ho raggiunto il mio scopo» TOBIA ZEVI. Ha ragione Piero a insistere sull’importanza di uno studio rigoroso della Storia. Una Storia studiata seriamente, sulla base di valutazioni scientifiche, di un interesse scevro da strumentalizzazioni politiche, è uno studio che non fa, o non dovrebbe far paura a nessuno, anche nelle possibili verità che talvolta può descrivere. Questo vuol dire fare Storia. Vuol dire attribuire, non sulla base del pregiudizio o sull’ignoranza, ma su una seria ricerca documentale, colpe e ragioni. Il cortocircuito che spesso si crea è il fatto che, in realtà, una verità storica, acclarata non soltanto da valutazioni scientifiche e da racconti di testimoni ma anche ormai da una tradizione consolidata di studi, viene invece presentata, e politicamente strumentalizzata, come la “verità dei vincitori”. Allora si dice: adesso vi diciamo come è andata per davvero... E senza saper nulla, senza leggere nulla, senza studiare nulla, adesso cambio visione. È una scorciatoia molto pericolosa che fa leva sull’ignoranza». L’UNITÀ. Ma oggi c’è chi vorrebbe diluire fine a cancellare torti e ragioni del ventennio fascista. E questo ci porta alle considerazioni ultime del sindaco Alemanno.. PIERO TERRACINA. «Le leggi razziali in Italia sono state un anello della catena di violenze che c’è stata fin dall’inizio, dalla Marcia su Roma. Altro che fatto isolato! Non ci dimentichiamo che in quell’epoca circolavano canzonacce fasciste, come quella che diceva “fascisti e comunisti giocavano a scopone, e vinsero i fascisti per l’asso di bastone...”. Non era questo insegnare e praticare la violenza? Se non ci fosse stato il fascismo non ci sarebbero state le leggi razziali. Ritornado alla storia, voglio dire che un testimone, quale io sono, e come lo sono tutti i sopravvissuti ai campi di sterminio nazifascisti, noi non ci sostituiamo al lavoro dello storico. Mi limito, ci limitiamo a raccontare la quotidianità della vita e della morte nei campi di sterminio, dove si entrava soltanto per morire. Erano luoghi senza speranza...Sapevamo perfettamente, e i carnefici ce lo ricordavano in ogni momento, che “uscirete soltanto attraverso il fumo dei camini”». L’UNITÀ Noi abbiamo parlato di diritto-dovere alla memoria. Del ruolo della scuola. E quello della politica quale dovrebbe essere? TOBIA ZEVI. «Ci sono due richieste: una alla politica, l’altra a noi stessi. Quella alla politica è cercare di darsi, anche se mi rendo conto che è difficile, un respiro un po’ più ampio. Per essere significativa, la politica dovrebbe evitare di parlare troppo spesso alla “pancia” più retriva della gente, di ognuno di noi: quella che, ad esempio, tende a identificare nel “diverso” il primo bersaglio possibile del proprio malcontento. La “bella politica” è quella che è in grado di indirizzare, di guidare anche se questo può voler dire pagare dei prezzi. La politica deve fare i conti con un dato che contraddistingue la mia generazione rispetto. o quella precedente, rispetto alle passate: il fatto che sono crollate completamente non tanto le ideologie come tali quanto gli schemi di comprensione della realtà. Ecco, la politica dovrebbe aiutarci a ricostruire, rinnovandoli se è il caso, questi schemi». L’UNITÀ. E l’altra richiesta? TOBIA ZEVI «L’altra riguarda noi giovani. Da giovane interessto alla politica, penso che noi giovani non dobbiamo sempre assumere una prospettiva esclusivamente rivendicativa verso la politica, ma dobbiamo “sporcarci le mani”, impegnarci, provando ad affermare quelle che sono le grande esigenze della nostra generazione ed anche di una società che si stra trasformando ma che ha dentro di sé dei rischi che c’erano nel passato. E qui mi fa piacere ricordare che proprio Piero Terracina, testimone di quell’epoca tragica, è stato una delle rare, e più forti e significative voci che si sono levate nelle polemiche di qualche settimana fa sulla vicenda dei rom. Io penso che su un tema come questo, la tutela dei diritti delle minoranze, noi giovani, soprattutto quelli che si riconoscono in un’area progressista, dovremmo essere protagonisti di una grande battaglia di civiltà...». PIERO TERRACINA. A proposito di quello che diceva Tobia, io ritengo che bisogna tornare al rispetto degli altri. E particolarmente al rispetto per i “diversi”. Anche qui, la memoria ci aiuta: allora, se un ebreo commetteva una colpa, la colpa era di tutti gli ebrei; ed oggi se un extracomunitaria, un rom, un sinti, commette un reato, questo è colpa di tutti gli extracomunitari, di tutti i rom, di tutti sinti. Questa è un’altra delle cose sulle quali dovremmo riflettere molto. Tornare al rispetto per tutti, e in particolare per i “diversi”. Quelli che noi consideriamo “diversi” ma che poi non lo sono. Perché siamo tutti uguali. E alla politica chiedo anche di contribuire all’educazione dei giovani. Supportando adeguatamente la scuola e le famiglie. Aiutando i giovani a riscoprire quei valori che si sono persi. E non per colpa loro».
In realtà sono in molti a straparlare della storia e a tradire il dovere della memoria. Le dichiarazioni provenienti da esponenti della destra italiana hanno riguardato il fascismo, non la Shoah.
Di Shoah scrive invece Ariel Toaff. Essa è "usata in dosi massicce come fosse un deodorante" in "ogni libro di storia ebraica" ? La storiografia che si occupa degli ebrei fornisce la rappresentazione di un "ebraismo virtuale e oleografico, fatto di vittime invertebrate e di martiri innocenti, languido e molliccio" ? La comunità diasporica è "tutta proiettata verso il suo lacrimevole passato, in cui la Shoah costituisce l’ultimo anello di una catena ininterrotta di tragedie e l’unica chiave per comprendere e temere il presente" E' quanto sostiene l'autore di Pasque di sangue nell'introduzione del suo nuovo libro "Ebraismo virtuale", edito a Rizzoli. L'introduzione è anticipata dal GIORNALE del 10 settembre 2008.
Le accuse di Toaff sono indeterminate (non cita un solo autore e un solo libro) e infondate: la storiografia ebraica è molto lontana da questi stereotipi.
D'altro canto ricordare la Shoah e la storia di odio millenario che l'ha prodotta non è certo un esercizio sterile. Nemmeno nel Medio Oriente in cui si trova Israele, descritta da Toaff come l'alternativa alle presunte ossessioni diasporiche.
Vale la pena di ricordare che qualcuno, in questa regione del mondo, la Shoah vorrebbe riprodurla. E che per perseguire il suo progetto e propagandarlo alle masse si serve degli stessi miti antisemiti che proprioToaff ha tentato di resuscitare persino nel dibattito accademico.
Ecco il testo:
Tempo fa chiedevo a un collega israeliano perché, a suo parere, Pasque di sangue avesse suscitato così aspre reazioni, spesso urlate e quasi sempre sopra le righe, soprattutto in ambiente ebraico. «Sei stato imprudente! Perché sei andato a impelagarti nella Shoah?» ha ribattuto senza esitazione, sorprendendosi della mia apparente ingenuità. «Ma in quel libro parlavo di omicidi rituali, infanticidi... Tutti avvenimenti di oltre cinque secoli fa, ancor prima che Cristoforo Colombo scoprisse l’America. Cosa c’entra la Shoah?» ho provato a rispondere, senza troppa convinzione. La sua replica è stata immediata e di una franchezza quasi brutale: «In un modo o nell’altro, la Shoah c’entra sempre. Ogni libro di storia ebraica si apre o si chiude - fa lo stesso - con un capitolo sulla Shoah, che viene usata in dosi massicce come fosse un deodorante». A sentire lui (e non solo lui) la questione era evidente: avevo agito come uno sconsiderato, e le reazioni - anche le più scortesi e violente - erano da considerarsi nient’altro che legittima difesa. Questo saggio parte proprio da qui, da una considerazione pessimistica e gravida di pesanti implicazioni. Un ebraismo virtuale e oleografico, fatto di vittime invertebrate e di martiri innocenti, languido e molliccio, si è sostituito all’immagine vera e reale di un popolo di gente in carne e ossa, che tra mille contraddizioni ed errori, tra eroismi e viltà, ha saputo sopravvivere lasciando traccia indelebile di sé nella storia (...) Oggi sembra che i suoi eredi, soprattutto quelli della diaspora, abbiano deciso di inventarsi un altro ebraismo, con l’aureola della santità incorporata all’origine. Un ebraismo senza macchia, ma con molta paura. Anzi, ossessionato dalla paura, e alla continua ricerca di difensori a buon mercato o di apologeti ignoranti. Dinanzi alla nuova realtà dello Stato di Israele, verso il quale più o meno consciamente si sentono in colpa per averlo lasciato a se stesso senza affrontare la scomoda e pericolosa alternativa del sionismo realizzato, gli ebrei della diaspora, gli inventori di questo ebraismo virtuale alla moda, hanno ripiegato verso un comportamento totalmente acritico e privo di stimoli. Ogni scelta politica dei governanti israeliani diviene la loro scelta, automatica ed entusiasta, e tutti i partiti politici di Israele, in maniera intercambiabile, si trasformano nel loro partito. Ma con una netta preferenza per la destra nazionalista e fondamentalista, piagnucolosa e bellicosa. (...) Ho inteso affrontare il tema controverso della Shoah, la cui memoria sempre più ingigantita, onnipresente e clamorosa ha paralizzato il dibattito nel mondo ebraico e di fatto trasformato la sua storia in mito edificante, dove i confini tra terra e cielo sono ormai irrilevanti e le scansioni cronologiche inesistenti. La realtà frammentata di un popolo vivace e creativo che, come gli altri, talvolta si è allontanato dalla norma e ha dato vita a fenomeni di estremismo, violenza e intolleranza è stata ricomposta in un affresco oleografico dove tutto è virtuale e improbabile e dove il ricordo minaccioso della Shoah trasforma inevitabilmente i protagonisti in vittime innocenti (...) Da tempo in Israele un mondo intellettuale vivace e innovatore, che non ha paura di guardarsi dentro, ha invece adottato una coscienza pluralistica e conflittuale, che mette continuamente in discussione i miti fondatori sia dell’ebraismo che dello Stato di Israele (...). Di fronte a una comunità diasporica prevedibile e francamente noiosa, tutta proiettata verso il suo lacrimevole passato, in cui la Shoah costituisce l’ultimo anello di una catena ininterrotta di tragedie e l’unica chiave per comprendere e temere il presente, Israele rimane pur sempre l’unica arena, libera e democratica, dove si combatte la battaglia per il futuro del popolo ebraico. (...) Da Israele potrà quindi partire un pressante invito alla diaspora, un sano appello a cessare finalmente di fare dell’ebraismo una mitologica selva oscura di fossili piangenti.
(...) Vogliamo aggiungere infine che in qualche caso, allora come oggi, erano i rabbini più estremisti a incitare alla violenza, a propagandarla con motivazioni pseudoreligiose o a parteciparvi in prima persona. Il 4 novembre 1995 nella centrale piazza dei Grandi di Israele a Tel Aviv, al termine di una imponente manifestazione pacifista, veniva assassinato Yitzhak Rabin, primo ministro dello Stato di Israele. L’attentatore era Yigal Amir, studente in legge all’università Bar-Ilan, l’ateneo in cui insegnavo e tuttora insegno. Benché oggi si preferisca considerarlo come l’unico responsabile del crimine, frutto delle farneticazioni di una mente esaltata e malata, la realtà è assai diversa. Per lunghi mesi infatti l’«esecuzione» di Rabin era stata preparata, prevista e giustificata apertamente dai circoli rabbinici fondamentalisti più estremi, in particolare quelli che ancora oggi forniscono il sostrato ideologico e «biblico» a supporto delle istanze nazionaliste ed espansioniste dei coloni. (...) Non vorrei che tra non molti anni gli storici «al servizio» del pensiero unico e politicamente corretto presentassero anche l’attentato a Rabin come la follia del singolo, senza altre responsabilità e implicazioni. Purtroppo ho la deprimente impressione che questi storici siano già al lavoro, alacremente e come sempre «per il bene dell’ebraismo».
Recensione osannante al libro di Toaff, di Mauro Baudino, sulla STAMPA , a pagina 32.
Sul fronte delle polemiche intorno alle dichiarazioni di La Russa e Alemanno su fascismo e leggi razziali, segnaliamo un articolo di Francesco Verderami sull'irritazione che hanno suscitato in Gianfranco Fini, dal CORRIERE della SERA
ROMA — An è nata con l'obiettivo storico di condurre la destra italiana in Europa, perciò a Fini non piace il gioco dell'oca, perché - dopo anni di strappi e una faticosa legittimazione non può essere contemplato il rischio di fermarsi un giro, nè tantomeno di tornare alla casella di partenza. Ecco il motivo per cui è «amareggiato e preoccupato » - così lo descrivono - dopo le polemiche provocate dalle parole di Alemanno e di La Russa sul fascismo e sulla Rsi. Il presidente della Camera ha avuto modo di parlare in questi giorni con esponenti politici e rappresentanti della Comunità ebraica italiana, ai quali ha confidato il suo disappunto: «Non dovevano affrontare certi argomenti senza prevedere cosa avrebbero suscitato». Insomma, non mette in dubbio la loro buona fede, ma dovevano essere «più avvertiti», invece c'è stata «sprovvedutezza». La questione è molto delicata, anche perché i rappresentanti del partito coinvolti nella querelle sono il ministro della Difesa e il sindaco di Roma. E chissà se sabato, alla festa di Azione Giovani, Fini dirà la sua nel tentativo di chiudere la vicenda. In attesa di avviare nuove iniziative che diano il senso del percorso intrapreso dalla destra italiana, «che deve avere un profilo di destra europea». È chiara l'allusione, ecco perché serviva prudenza, specie alla vigilia di un altro passaggio storico: la nascita del Pdl che a Strasburgo siederà tra i banchi del Ppe, dove An è sotto osservazione. Nè la questione dell'identità nè le voci sulla guerra di posizionamento per la successione sono in cima ai pensieri di Fini. A infastidirlo è stata l'infelice combinazione tra le parole espresse da Alemanno e La Russa, e i luoghi dove sono state pronunciate. L'infortunio del sindaco di Roma è avvenuto in concomitanza con la visita allo Yad Vashem, il museo dell'Olocausto dove Fini definì «epoca del male assoluto» il fascismo, «infami» le leggi razziali e «vergognosa» la pagina della Repubblica sociale. Mentre il ministro della Difesa ha tenuto il suo discorso sui soldati della Rsi davanti a Napolitano, con il quale il presidente della Camera tiene un rapporto strettissimo. Le relazioni si sono andate consolidando fin dal discorso di insediamento sullo scranno più alto di Montecitorio, quando Fini onorò il 25 aprile e il Primo maggio, ricevendo gli elogi del capo dello Stato per un intervento «non di parte». Una settimana dopo, nel Giorno della memoria per le vittime del terrorismo, con un gesto che fece clamore Napolitano rese omaggio a tutti i caduti, anche a quelli di destra. Un evento che Fini non mancò di sottolineare l'indomani all'Assemblea di An, convocata per passare il testimone al «reggente» La Russa: «Onorano i nostri morti. Abbiamo vinto. Non siamo più figli di un dio minore». Le parole di Napolitano e la sua elezione alla terza carica dello Stato testimoniavano come fosse «finito il dopoguerra»: «Se un uomo che ha la tessera di An diventa presidente della Camera, vuol dire che si è colmato un fossato». Perciò il gioco dell'oca non gli piace. Non può piacergli vedere la destra nel mirino di polemiche alimentate da temi che richiamano alle ideologie del passato. Confidava che quella stagione fosse «ormai alle spalle», l'aveva detto con un senso di liberazione nell'Aula di Montecitorio. E sarà pur vero che Alemanno ha riconosciuto nei suoi colloqui riservati di aver sottovalutato gli effetti, e che la Russa voleva ricordare i soldati della Repubblica sociale «senza intenti revisionisti»: «Lo dovevo fare - ha spiegato a un amico - eppoi cos'ho detto più di Giampaolo Pansa?». Ora però va messa una toppa allo sbrego, tanto più dopo che ieri il capo della Comunità ebraica romana Pacifici ha chiesto - riferendosi chiaramente al ministro della Difesa - di «avere dei chiarimenti da parte di alcuni esponenti dell'attuale governo». E in più ha esplicitato che con il sindaco di Roma «ci sono delle divergenze». Pacifici con cui Fini vanta un ottimo rapporto - ha sottolineato che «non c'è alcun intento di strumentalizzare» la vicenda. Ma erano inevitabili le ricadute politiche, gli affondi di Veltroni, e di chi come il senatore democratico Tonini ha messo il dito nella piaga, marcando la distanza tra il presidente della Camera e i suoi: «Da Alemanno avremmo voluto sentire le stesse parole che pronunciò Fini». Proprio nella fase più delicata, quella dell'avvicinamento al Pdl, si avverte un vuoto di leadership dentro An. E non c'è dubbio che Fini - pur avendo un ruolo istituzionale - dovrà in qualche modo farsi carico del problema. Malgrado l'avesse promesso salutando il suo partito, «troverò il modo di fare politica», al momento non si vede traccia. Peraltro tensioni e inciampi determinano fibrillazioni anche negli alleati. Raccontano che dirigenti autorevoli di Forza Italia abbiano contattato rappresentanti della Comunità ebraica, preoccupati per il rischio che si potessero incrinare i rapporti. Non è così. Ma la questione non può essere nascosta. E nelle parole dell'azzurro Quagliariello s'intuisce l'irritazione. Prima il vice capogruppo del Pdl al Senato si propone in una difesa d'ufficio: «La condanna per i regimi illiberali è senza eccezioni, e l'intervento dei rappresentanti di An non ha concesso nulla a quei regimi». Poi sottolinea che va fatta una «differenziazione tra il giudizio storico complessivo e il giudizio sugli individui»: «Se i politici fossero un po' più attenti a queste dinamiche non commetterebbero questi errori». Berlusconi per il momento è riuscito a rimanere fuori dalla polemica che coinvolge il suo ministro della Difesa, ma c'è chi ieri invitava a leggere con attenzione quanto detto dal premier nella conferenza stampa seguita all'incontro con il vicepresidente statunitense Cheney: «Da parte mia e del popolo italiano è sempre presente la gratitudine per il vostro popolo e per le vittime americane che ci hanno ridato la dignità e la libertà dopo la Seconda guerra mondiale». Tra i maggiorenti di An c'è chi si trattiene a stento: «Non è che per la leggerezza di qualcuno deve pagare tutto il partito». Ecco perché a Fini non piace il gioco dell'oca della destra.
Roma - Giampaolo Pansa, è divertito. «Mai avrei pensato, in tutta la mia vita, che mi sarei ritrovato a difendere La Russa dagli attacchi dei moderati del Partito democratico! Mai. Su Salò, per giunta... Questa polemica ha qualcosa di antistorico e barbaro che non capisco e non voglio capire. L’antifascismo ringhiante di Veltroni e Franceschini oggi non è credibile. Anche perché, proprio Franceschini tre anni fa... ». Alt! Per ora ci fermiamo qui, e vi lasciamo in sospeso, perché in questa intervista c’è una storia che stupirà molti. Ma siccome il giornalista più famoso d’Italia è un fiume in piena, bisogna prima di tutto spiegare cosa pensa. Da Il GIORNALE, un'intervista a Giampaolo Pansa, che denuncia giustamente una certa ipocrisia nell'antifascismo più strumentale, ma sembra non vedere il rischio, concreto, dell'oblio storico e della rinuncia a distinguere tra chi nella guerra civile italiana combattè dalla parte della democrazia e chi da quella della tirannia.
Ecco il testo:
Per lui, che ci ha scritto sopra una quadrilogia saggistico-narrativa e un romanzo, la polemica sulla Repubblica sociale esplosa dopo le dichiarazioni del ministro Ignazio La Russa è l’occasione per tirare le fila di un viaggio iniziato con la tesi di laurea, da ragazzo, e proseguito con il lavoro monografico degli ultimi anni. Fino all’ultimo libro, I tre inverni della paura, che lui definisce «un via con il vento nella guerra civile». Pansa ha scritto una saga ambientata più di mezzo secolo fa, ma che oggi, quando gira l’Italia, pare un instant book. Ogni volta che lo presenta vede accorrere folle di lettori: «Cinquecento persone a Parma domenica... Chissà quante ne troverò sabato a Revere, in provincia di Mantova. Per questo pubblico, tra cui molti giovanissimi, è come se parlassi di ieri». Pansa, perché parla proprio di Franceschini? «L’ho visto, in televisione indignato contro La Russa, in cattedra sull’antifascismo. E sono rimasto di stucco».
Perché? Non è legittimo? «Vede, nella Grande Bugia ho raccontato la storia di una ragazza che da bambina girava per le vie di Poggio Renatico, il suo paese, con gli occhi sempre bassi».
Per la vergogna? «No. Era figlia di un fascista, ma non se ne vergognava. Però le vie erano tappezzate di scritte su suo papà, Giovanni Gardini. Dicevano: "A morte Gardini!"».
E chi era Gardini? «Un amico di Italo Balbo: con la Rsi divenne Podestà di San Donà di Piave. Dopo l’8 settembre fuggì per salvare la pelle. Per fortuna ci riuscì».
Perché me lo racconta? «La bambina si chiamava Gardenia, ed era destinata a diventare madre di un bimbo. Di Dario. Cioè Franceschini. E sa chi me l’ha raccontato?».
Chi? «Lo stesso Franceschini! Ecco perché, quando vedo semplificazioni antistoriche, e che a farle è il Pd, scuoto il capo».
Cosa non la convince? «Non credo che il problema del Pd sia la storia del ’45. Mi cascano le braccia se vedo Veltroni abbarbicato a questo antifascismo perdente e suicida. Perché so che il suo vero problema è Di Pietro che fa la faccia feroce. Lui allora rilancia, senza esserne convinto, perché gli stanno rubando il patrimonio».
Parliamo del primo inverno della paura, nel 1943. «Non capisco cosa ci sia si scandaloso in quel che ha detto La Russa».
Forse il suo ruolo? «Ma il ministro della Difesa non è un sacerdote della repubblica, tenuto all’imparzialità! Non siede al Quirinale. È un politico, un ministro. Posso citarle i numeri di Salò?».
Degli arruolati. «Sì. Secondo le fonti della Rsi, furono più di 800mila». Stime di parte? «Non molto contestate, a dire il vero, ma il nodo è un altro. Vogliamo dire che erano 500mila? Il fatto è chi erano davvero questi ragazzi».
Intende il loro identikit? «Dico che è grottesco etichettarli tutti come torturatori e amici dei nazisti! Molti di loro erano cresciuti nel regime fascista, immersi in un clima di propaganda perenne: cinema, scuola, radio... le divise dei figli della lupa... ».
E quindi? «E quindi, la maggior parte di loro, non poteva certo schierarsi per un parlamento legittimo, che non aveva nemmeno mai conosciuto».
Giudizio storico o politico? «Dico che quella educazione, fatalmente, portava molti di loro all’idea che difendere la patria dagli angloamericani fosse il primo dovere».
Bisogna distinguere, dice? «Da storico "dilettante" mi occupo di queste cose dai tempi della laurea... Sono storie complesse. Altrimenti non si capisce come mai, fra quei ragazzi, ce n’erano molti che divennero sinceri antifascisti, Nomi mille volte citati: Tognazzi, Dario Fo, Vianello, persino Gian Maria Volontè».
Ma ci fu pacificazione? «Anedotto illuminante. Quando andai al Giorno, nel 1964, Italo Pietra, che aveva fatto il partigiano, e si trovava molti ex ragazzi di Salò in redazione, scherzava: "Chi di voi mi ha fatto saltare la casa, sul monte Penice, nel rastrellamento dell’agosto 1944?"».
Difficile a credersi, con gli occhi di oggi. «Invece accadeva. E gli rispondevano: "Io no, stavo nella brigata nera di Varese...", "Io neppure, ero con gli sciatori di Pavolini..."».
Sta cercando di dire che... «Fino a che non arriva il detonatore violento degli anni di piombo, questo paese aveva chiuso la faida del ’45».
E teme che ora si riapra? «Con tanto odio in giro, temo possa accadere. Un altro esempio insospettabile?»
Su chi? «Livio Zanetti: grande maestro di giornalismo, direttore dell’antifascista L’Espresso».
Quando si seppe che... «A metà degli anni settanta, per il dispetto di un’agenzia di stampa di destra. Ebbene: nessuno, dico nessuno, si azzardò a chiederne la testa».
Chiedo ancora: come mai? «Erano tempi meno feroci. Forse il Pci aveva altre bandiere, il mito dell’Urss. Ecco, a me preme spiegare che quei ragazzi di cui parla La Russa, non erano quattro miserabili scherani, come vuol far credere chi polemizza con lui».
E chi erano? «Uomini che si trovarono giovanissimi nel tempo delle scelte dure. Alcuni di loro potevano essere nostri padri. O fratelli. O persino, come nel caso di Franceschini, i nostri nonni».
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