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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Rassegna Stampa
31.08.2008 L'eredità di Yitzhak Rabin
intervista a Dalia, figlia dello statista israeliano

Testata:
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Dalia Rabin: il sogno di Barack sia quello di mio padre»
Umberto De Giovannangeli intervista per L'UNITA' del 31 agosto 2008 Dalia Rabin, su Barack Obama e sull'eredità politica del padre, Ytzhak Rabin.

A proposito di quest'ultima, potrebbe essere utile ricordarne una parte troppo spesso dimenticata. Rabin era perfettamente consapevole del pericolo rappresentato da Hamas, e nel 1992 espulse verso il Libano 415 capi del gruppo terrorista islamista.

La condanna internazionale spinse Israele, un anno dopo, a far rientrare nei territori palestinesi la gran parte di essi. Nel 1994, Hamas scatenò la prima campagna di terrorismo suicida contro i civili israeliani. Se il mondo  in quell'occasione avesse dato retta a Rabin, forse la via per la pace in Medio Oriente sarebbe stata meno accidentata. Ma un primo ministro israeliano, anche quando persegue la pace, per molti (per troppi) ha necessariamente torto ogni qual volta difenda la sicurezza del suo paese.

Ecco il testo dell'intervista:

L’uomo del nuovo «sogno americano» e la lezione dell’uomo che per un grande «sogno», la pace, ha sacrificato la propria vita. Barack Obama e Yitzhah Rabin. Nel suo viaggio in Israele del luglio scorso, il candidato democratico alla Casa Bianca ha reso omaggio al coraggio di quel generale che morì per aver scelto la pace. «Barack Obama evoca un mondo senza Muri razziali, religiosi, etnici. In questo sua sfida rivedo mio padre, che aveva scelto di abbattere il "muro" di odio tra israeliani e palestinesi». A parlare è Dalia Rabin Filosoff, la figlia maggiore del primo ministro laburista assassinato, il 4 novembre 1995, da un giovane zelota dell’ultradestra ebraica. «La lezione di mio padre non è andata perduta. La lezione di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita alla difesa di Israele, in prima fila sui campi di battaglia, quando gli eserciti arabi minacciavano la nostra esistenza; così come è stato in prima fila nell’avviare il dialogo con la controparte palestinese, sapendo bene, da generale e statista, che la sicurezza di Israele non sarà mai garantita dalla sola forza del suo esercito. Tredici anni dopo, questa verità non è stata cancellata. Mio padre non si è mai piegato ai ricatti della violenza e del terrorismo ma era consapevole che occorreva dimostrare ai palestinesi che esisteva un’altra strada per conquistare i propri diritti. La strada del dialogo e del compromesso. Per questo ha combattuto e per questo è stato ucciso».
Barack Obama ha evocato un mondo senza più Muri razziali, etnici, religiosi. Visto da Israele, è un sogno irrealizzabile?
«No, è una sfida affascinante, e insieme una via obbligata per quanti credono davvero nel dialogo e nella ricerca di un compromesso che tenga in conto non solo le proprie ragioni ma anche le ragioni dell’altro. Ho ascoltato con attenzione il discorso di Obama a Denver: confesso di essermi emozionata. Per la passione che lo animava, per il coinvolgimento che reclamava. Mi ha colpito il suo richiamo all’etica della responsabilità che ogni individuo deve esercitare. E, soprattutto, ho ritrovato nel suo discorso il richiamo ad un Paese "normale" da costruire, in cui i talenti dei giovani non vengano più sacrificati su un campo di battaglia ma valorizzati e messi al servizio del benessere comune. Questa idea di "normalità" era anche quella che accarezzava mio padre, Yitzhak Rabin. A Obama si rinfaccia il fatto di essere un’idealista. La stessa accusa fu rivolta a mio padre. Ma essere mossi da ideali è una virtù non una pecca. L’importante, per chi ha responsabilità di governo, è calare questi ideali nella realtà quotidiana, conquistando nell’agire concreto il consenso, e la partecipazione, delle donne e degli uomini che sono chiamati, ognuno di loro, a essere parte attiva nella realizzazione di quegli ideali condivisi».
Barack Obama si è detto amico di Israele.
«Non dubito che lo sia anche il senatore McCain. Il legame tra gli Stati Uniti e Israele non è in discussione chiunque sarà il nuovo presidente americano. Ciò che mi auguro è che sia Obama che McCain, chi di loro vincerà le elezioni di novembre sappia interpretare in modo dinamico questa amicizia, sostenendo con forza e continuità gli sforzi di quanti, israeliani e palestinesi, si battono per un accordo di pace che porti a compimento quel percorso che mio padre iniziò con gli accordi di Oslo-Washington. Al nuovo presidente americano chiedo coraggio, fantasia, lungimiranza. E una visione nuova delle relazioni tra i popoli. Una visione di cui il senatore Obama è portatore».
Obama ha parlato di un mondo senza più Muri. Anche quello tra israeliani e palestinesi?
«Il primo “muro” da abbattere è quello del pregiudizio, della demonizzazione. E lo si abbatte abbinando la diplomazia dall’”alto”, quella dei leader politici, con la crescita di un dialogo “dal basso” che metta in relazione le due società civili. Se questa commistione virtuosa si realizzerà, il resto, ne sono convinta, verrà da sé».
A proposito di visioni. C’è chi sostiene che gli eventi di questi anni hanno dimostrato il fallimento della «visione» che animò l’azione di Yitzhak Rabin.
«È vero l’esatto contrario. Mio padre non era un pacifista romantico, un illuso. Per tutta la vita aveva combattuto per la sicurezza di Israele. Ma da questa esperienza aveva tratto la convinzione che la sicurezza di Israele non poteva essere affidata alla sola forza del suo esercito. Occorreva la politica, aprire un percorso negoziale, offrire alla controparte palestinese una possibilità di riscatto. Senza cedimenti ma con la consapevolezza che una pace duratura, una pace nella sicurezza, dovesse essere ricercata ad un tavolo negoziale, riconoscendo anche le ragioni e le aspirazioni della controparte. Tredici anni dopo i fatti hanno dimostrato che questa lezione è ancora del tutto valida, perché non esiste una scorciatoia militare alla soluzione del conflitto israelo-palestinese».
Lei ha fatto riferimento agli accordi di Oslo; quegli accordi, sostengono i loro detrattori, avevano messo in secondo piano la questione cruciale della sicurezza.
«Non è così. Mio padre aveva a cuore la sicurezza di Israele, per la quale aveva combattuto per tutta una vita. Per questo aveva voluto che al primo punto della Dichiarazione di Oslo-Washington vi fosse il rigetto da parte palestinese dell’uso della violenza per affrontare i contenziosi ancora aperti...».
Tredici anni dopo, in molti vorrebbero archiviare l’eredità di Yitzhak Rabin.
«No, questa eredità politica e morale non deve essere archiviata, poiché non appartiene al passato bensì al presente di Israele, anche se i successori di mio padre alla guida del Paese non hanno portato a termine la sua opera».
Cosa resta della lezione di suo padre?
«Molto di più di quanto si possa credere all’esterno. E non mi riferisco solo al ricordo di mio padre che ancora oggi vive in tantissime iniziative in Israele e nel mondo. Mi riferisco anche alla convinzione propria della maggioranza degli israeliani, che per aprire una pagina nuova nella storia del Medio Oriente occorra dare una soluzione politica alla questione palestinese che passi anche attraverso la creazione di uno Stato, smilitarizzato ma indipendente. No, la lezione di Yitzhak Rabin non è andata perduta anche se il vuoto politico che lui ha lasciato nel Paese continua a pesare sul presente d’Israele».
(ha collaborato
Cesare Pavoncello)

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