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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Foglio - La Repubblica Rassegna Stampa
14.08.2008 L'attentanto a Tripoli rivela la fragilità della tregua libanese
guerra civile "episodica e latente" e "mano siriana": analisi dopo la strage

Testata:Il Foglio - La Repubblica
Autore: la redazione - Francesca Caferri
Titolo: «Suleiman cerca l'intesa in Siria e trova una bomba a Tripoli - Il solito Libano, purtroppo - È un messaggio della Siria per dire chi comanda a Beirut»

Da Il FOGLIO del 14 agosto 2008, un articolo sull'attentato che ha ucciso 18 persone a Tripoli, in Libano.
L'analista libanese Saad Kiwan spiega che "non si può scartare la mano siriana":

Tripoli. Gli accordi di Doha non sono serviti a fermare la guerra civile – anche se episodica e latente – in Libano. Ieri diciotto persone sono state uccise da una valigetta piena di esplosivo lasciata su un autobus a Tripoli, nella parte settentrionale del paese, a circa ottanta chilometri dalla capitale. La maggior parte delle vittime sono militari dell’esercito governativo in libera uscita. Lo scoppio ha distrutto l’autobus, ha aperto un cratere nell’asfalto e ha ferito almeno quarantacinque passanti – subito caricati su taxi trasformati in ambulanze di fortuna – in una delle strade più affollate della città. Ancora non si sa se la bomba è stata innescata da un timer o da un comando a distanza. L’unico elemento chiaro è l’obiettivo scelto dagli attentatori: le forze armate libanesi fedeli al governo, che ogni mattina affollano una stazione dei bus a poca distanza. A Tripoli c’è il campo profughi palestinese di Nahr el Bahred, dove l’anno scorso i soldati hanno dato battaglia agli irriducibili di Fatah al islam, un gruppo armato sunnita che si ispira ad al Qaida – alcuni suoi membri sono andati a combattere in Iraq – e rientrato in attività dopo l’uscita di scena della Siria nel 2005. Dopo tre mesi di assedio e quattrocento morti hanno prevalso i soldati del generale Michel Suleiman, che oggi è presidente. Si sono conquistati sul campo la loro prima medaglia di credibilità militare, anche se lo scorso maggio Fatah al islam è tornata e ha rivendicato l’uccisione di un militare. Il gruppo estremista, tuttavia, non è il principale sospettato dell’attentato di ieri. Tripoli è diventata da settimane il centro di una guerriglia più vasta tra sunniti, che in città sono la maggioranza, e alawiti, gli appartenenti alla stessa setta contigua agli sciiti che è al potere in Siria. Dalla fine di giugno, sono morte 22 persone negli scontri. La battaglia a bassa intensità in città è la fotografia della situazione politica libanese: gli sciiti tentano di espandere la propria influenza, anche per conto di Damasco e Teheran, su tutta la nazione. L’attacco di Tripoli è avvenuto il giorno dopo il voto di fiducia dei parlamentari al nuovo governo, un voto che riconosce anche il diritto di Hezbollah a possedere un arsenale di armi e di razzi “per resistere a Israele”. Ed è avvenuto poche ore prima che il nuovo presidente della Repubblica, l’ex generale Michel Suleiman, lasciasse Beirut alla volta di Damasco per una storica visita in Siria. “L’esercito e le forze di sicurezza non si arrenderanno al terrorismo – dice Suleiman – “è arrivato il momento di perseguire la riconciliazione tra i libanesi”. Ma il viaggio immediato a Damasco, subito dopo il voto di fiducia proHezbollah, spinge ancora una volta l’asse del potere in direzione di Iran e Siria. Erano sessanta anni che un capo di stato libanese non si recava in visita ufficiale nella capitale siriana. Nell’incontro con il presidente siriano Bashar el Assad Suleiman ha ribadito l’importanza dei rapporti diplomatici fra i due paesi e ha annunciato l’apertura di ambasciate nelle rispettive capitali. Saad Kiwan, analista politico e giornalista libanese, spiega al Foglio che le piste da seguire sono numerose. “C’è l’ovvio interesse – dice Kiwan – a mantenere l’instabilità. Vista la crescente infiltrazione di al Qaida nel nord del paese, si potrebbe pensare immediatamente a frange di fondamentalisti islamici. Il grande problema, anche più dell’unità nazionale, è la presenza di gruppi armati in Libano. E lo stato si dimostra incapace di controllare la situazione attuale”. Nel pomeriggio di ieri un secondo attentato ha colpito il sud del Libano. Nel campo profughi palestinesi di Ain el Hilweh alla periferia di Sidone, un altro centro delle violenze, poco dopo quello di Tripoli, è esploso un secondo ordigno. L’obiettivo in questo caso era un esponente del movimento Fatah, che è uscito indenne dall’attentato. Dietro questi fatti “non si può scartare la mano siriana”, spiega Kiwan, per tenere alta la tensione.

Di seguito, un editoriale:

Il Libano ha subito un nuovo, gravissimo attentato che ha avuto come obiettivo l’esercito regolare, al quale, di fatto, sono stati conferiti i maggiori poteri con l’elezione del generale Michel Suleiman alla carica di capo dello stato. L’attentato avviene in un momento cruciale, quando si è raggiunto un accordo per mettere in funzione un governo di compromesso, ancora diretto dal leader antisiriano Fouad Siniora, ma nel quale Hezbollah detiene il potere di veto, oltre a non essere affatto tenuto a disarmare, come peraltro previsto dalle risoluzioni dell’Onu. La visita del presidente libanese in Siria dovrebbe ridefinire le relazioni tra i due paesi, con un riconoscimento almeno formale dell’indipendenza libanese dalla Siria, paese che ha esercitato a lungo un protettorato sanguinoso. C’è chi dice, con ottimismo poco giustificato, che potrebbe anche essere un tortuoso passaggio di un percorso che, contemporaneamente, emancipa la dittatura siriana dal protettorato della teocrazia iraniana e consente una trattativa con Israele per la stabilizzazione del suo confine settentrionale. Si tratta solo di una possibilità, che viene camuffata con l’esaltazione delle “vittorie” contro lo stato ebraico, alle quali Hezbollah dedica anche una patetica mostra. D’altra parte sta nella tradizione della retorica araba l’esaltazione di successi militari assai dubbi come premessa di un negoziato di pace, che se seguisse invece il riconoscimento di una sconfitta sarebbe considerato un tradimento disonorevole. Ogni minima possibilità di stabilizzazione del Libano e di sistemazione del contenzioso con il “nemico israeliano”, parallela ad analoghe operazioni siriane, preoccupa l’Iran che finirebbe con il perdere la sua principale pedina nel gioco mediorientale. Quale delle due sia la fonte diretta dell’attentato di Tripoli non si sa e probabilmente non si saprà mai. In ogni caso il messaggio intimidatorio è chiaro, sia per quel che riguarda il mittente sia per quel che riguarda il destinatario. L’ennesimo attentato è la prova che la stabilizzazione libanese attraverso il nuovo governo Siniora è fragile e comunque appesa al rispetto del volere della componente filoiraniana e filosiriana.

A non avere dubbi sulla "mano siriana" dietro l'attentato e Michael Young del quotidiano libanese Daily Star, intervistato da REPUBBLICA

Editorialista di punta del quotidiano Daily Star, da sempre una delle voci più critiche dell´ingerenza siriana in Libano, Michael Young è certo che dietro all´attentato di ieri a Tripoli ci sia - ancora una volta, sostiene - la mano di gruppi legati a Damasco.
Che messaggio porta un attacco tanto duro contro l´esercito libanese?
«La mano è siriana, non ho dubbi. Damasco vuole creare un conflitto fra i gruppi salafiti e l´esercito libanese, in modo da far piombare il Libano nel caos e tornare ad essere la potenza egemone qui. Visto che i salafiti di Tripoli sono un gruppo piccolo e neanche troppo pericoloso, ci hanno pensato i siriani a far partire la miccia dello scontro con l´esercito. Quando la battaglia inizierà i sunniti, che sono sempre stati i nemici principali dell´influenza siriana in Libano, saranno divisi e deboli. E per Damasco tutto sarà più facile».
Eppure la tempistica dell´attentato spinge a guardare in un´altra direzione: la bomba è esplosa poche ore prima dell´arrivo di Suleiman a Damasco. Davvero conviene alla Siria creare tensione?
«È esplosa oggi (ieri per chi legge, ndr), poteva esplodere due giorni fa o fra due giorni. Era un attentato atteso. Non dimentichiamo che il giorno dell´elezione di Suleiman ci fu un attentato vicino alla sede dei servizi segreti e un soldato fu ucciso: i siriani non sono nuovi a queste cose... ».
Ammetterà che la Siria non è mai stata così forte come negli ultimi mesi: grazie a Sarkozy è tornata ad essere un interlocutore per la comunità internazionale. Vale la pena sporcarsi le mani ora?
«Sì, perché una comunità sunnita forte e unita è l´ultimo ostacolo sulla via di un ritorno siriano in Libano. Va eliminato, ad ogni costo».
Molti suoi colleghi non condividono la sua analisi: puntano il dito contro i gruppi salafiti ispirati ad Al Qaeda, che hanno giurato di vendicarsi della sconfitta di Nahr el Bared...
«Sono stato a Tripoli due giorni fa per incontrare i salafiti. Mi creda, parliamo di piccoli gruppi, divisi al loro interno, ben noti alle forze dell´ordine e molto infiltrati dai servizi segreti libanesi. Non avrebbero avuto la capacità di fare quello che è stato fatto: li avrebbero fermati prima».
Che influenza avrà l´attentato sulla due giorni di colloqui in corso fra Assad e Suleiman?
«Secondo me a Suleiman è stato recapitato un messaggio chiaro: senza la Siria non può fare nulla, non controlla nulla. Bisogna guardare anche la zona dove l´attacco è avvenuto: il nord è il punto più fragile del paese in questo momento, quello più infiammabile, quello in cui i siriani ed Hezbollah fanno più fatica a controllare il territorio. Dunque l´area da dove di può far partire con maggiore forza un messaggio di caos, quella dove si possono disegnare scenari più foschi per il futuro. Questo non potrà non influenzare i colloqui».

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