Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Barack Obama, le leadership israeliana e palestinese, la minaccia iraniana le opinioni di Abraham B. Yehoshua
Testata: Autore: Umberto De Giovannangeli Titolo: «Yehoshua: Obama può essere un presidente di pace»
Da L'UNITA' del 28 luglio 2008, un'intervista di Umberto De Giovannangeli ad Abraham B. Yehoshua:
Un leader in ascesa, Barack Obama. Un Paese, Israele, in grave deficit di leadership politica; fenomeno, quest’ultimo, che investe anche il campo palestinese. E sullo sfondo, uno sfondo sempre più inquietante, la minaccia iraniana. L’Unità ne parla con il più grande scrittore israeliano contemporaneo. Abraham Bet Yehoshua. «Nel suo discorso di Berlino - riflette Yehoshua - Obama ha parlato di una sfida comune: abbattere i Muri di odio e di incomprensione tra Stati, popoli, razze e religioni. Una sfida affascinante, estremamente impegnativa. Una sfida che deve partire dal “Muro”, non solo fisico, che separa israeliani e palestinesi. E quel “Muro” si può abbattere solo realizzando una pace nella sicurezza per due popoli e due Stati. Una pace che non può più attendere». «Al mondo serve un grande presidente». Così Shimon Peres si è rivolto a Barack Obama durante la recente visita in Israele del candidato democratico alla Casa Bianca. Obama ha i requisiti giusti per esserlo, un grande presidente? «Non sono assolutamente in grado di dire se Barack Obama, qualora venga eletto, sarà un grande presidente o solo un buon presidente o perfino un pessimo presidente. Quello che posso dire è che la scelta di un leader non è solo legata alle sue qualità carismatiche, ma è il risultato di alcuni elementi: innanzi tutto il carattere del popolo che lo sceglie e che egli deve guidare; le necessità che è chiamato a risolvere; le circostanze che lo portano a spiccare proprio in quel momento. Nel caso di Obama non c’è dubbio che siamo di fronte ad un fenomeno che è frutto di delusione e reazione degli americani verso l’operato di Bush e dei circoli che lo hanno influenzato e dei cui interessi egli si è sempre preoccupato. Una protesta portata avanti sia su un piano operativo che ideologico. Le qualità di un grande leader? Saper prendere decisioni riuscendo allo stesso tempo a non distaccarsi dai processi storici, sociologici, spirituali e culturali che avvengono nel proprio popolo. Questo per quanto riguarda la gestione interna. Ma nel caso del presidente degli Usa, la questione è molto più ampia. Oggi è molto comune parlare di mondo globale. Ed è vero che anche molti dei problemi che magari potrebbero anche essere definibili geograficamente come locali o regionali, superano la loro valenza nazionale e assumono una importanza internazionale. A questo punto anche la ricerca della soluzione diventa affare non più dei leader locali - che vanno rafforzati e spronati - ma dello sforzo e dell’aiuto portato da capi di varie nazioni. È il caso del conflitto mediorientale che, a mio parere, potrà essere risolto solo con l’aiuto e l’influenza di leader delle nazioni più influenti, prima fra tutte gli Usa. Obama ha espresso in questo tutta la sua disponibilità a dare il contributo, e per il momento non possiamo che prenderne atto sperando che questa disponibilità si trasformi in atti concreti, da Presidente della pace fra israeliani e palestinesi». Un Paese in trincea, come Israele, può permettersi una leadership politica mediocre? «Purtroppo dovrà farlo fino a che non cambieranno le condizioni che sono alla fonte di questa situazione. Di fronte a scelte di particolare importanza esistono anche strumenti come il referendum, anche se personalmente non lo incoraggerei molto. Comunque da noi, lo spazio per un fenomeno del tipo di Obama è molto ristretto, quasi inesistente, soprattutto per la pochissima apertura che il sistema politico lascia a personaggi che vengono da mondi che siano diversi da quello politico-partitico. La guida del Paese ruota sempre intorno a una rosa molto ristretta di nomi: Olmert è nella politica da decenni, Nethanyahu è già stato primo ministro, lo stesso per Ehud Barak e così via per tutti gli altri che sostanzialmente si scambiano le loro poltrone ministeriali al cambio di ogni governo, con pochissime nuove entrate. Ma anche quando i leader arrivano alle loro posizioni di potere, la configurazione politica di Israele, da decenni non produce partiti di potere ma al massimo partiti che possono guidare coalizioni così ristrette da non permettere respiro politico. Sono passati i tempi in cui Ben Gurion, Levi Eshkol, Golda Meir guidavano governi con ampie maggioranze e imprimevano al Paese svolte drammatiche. All’origine di questo ci sono due fattori: il primo è che fin quando non verrà risolta la questione israelo-palestinese che divide il popolo e i suoi rappresentanti alla Knesset, non potremo avere una situazione differente da quella di oggi. Fino a quando la sorte di un governo può essere legata - non a una concessione, ma anche solo a una dichiarazione di voler fare una concessione - non esistono le condizioni per un leader forte. Il secondo fattore è che Israele è un Paese e una democrazia ancora giovane e assolutamente particolare. Il popolo che lo compone e che sta ancora oggi contribuendo alla costruzione del Paese, è da soli 60 anni una democrazia, dopo essere stato per 2000 anni abituato a vivere nella diaspora, sotto leggi di altri popoli. Per tutto questo lunghissimo periodo, si doveva comportare in base a leggi e a decisioni politiche in cui esso giocava un ruolo totalmente passivo. Dalla nascita dello Stato d’Israele l’Ebreo, insieme alla costruzione del Paese, deve costruire una parte della sua personalità come cittadino e - dopo 2000 anni - deve decidere della sua sorte e accettare che siano altri Ebrei a decidere tanto del suo quotidiano quanto del suo futuro. L’"Ebreo totale" è ancora in fase di costituzione». Un problema di leadership è presente anche tra i palestinesi. Chi ha vinto le elezioni, Hamas, non è considerato da Israele un interlocutore con cui dialogare, mentre chi si ritiene "affidabile", il presidente Abu Mazen, non gode di un grande seguito popolare. «Nel loro caso il problema è ancora più profondo. Si tratta di convincere il popolo palestinese che una certa via è migliore di un’altra. Questo non può essere fatto con l’imposizione o la violenza, ma con un’opera di convincimento che deve essere frutto di una collaborazione internazionale. Quando parlavo prima del coinvolgimento dei leader delle grandi nazioni nella risoluzione di problemi che pur essendo regionali hanno implicazioni globali, pensavo soprattutto al nostro conflitto. Tutte le parti devono far confluire i loro sforzi nel far rendere conto ai palestinesi che la via del dialogo non solo è l’unica ma è anche la migliore soluzione al conflitto con Israele. Aiutarli ad avere una vita migliore, uno sviluppo economico, far capire loro che la loro speranza per il futuro è nella vita e non nel martirio. Oggi il problema non è quasi più l’accordo - i cui termini sono più o meno chiari alle due parti - ma spingere i due popoli, soprattutto quello palestinese, ad accettarlo». Tra le emergenze dell’oggi, la più urgente è senz’altro quella dell’Iran. C’è chi, dentro e fuori Israele, perora l’opzione militare. Israele può avventurarsi in un’operazione del genere con una leadership traballante? «Senza entrare nella questione della necessità o meno di un’azione militare, posso dire che se è vero che situazioni di drammatica emergenza e minaccia esterna impongono alla leadership decisioni difficili, è anche vero che uniscono la popolazione e creano generalmente un consenso che mette a tacere le divisioni e la corrosività delle critiche. Quanto più è grave la situazione, tanto più i leader godono dell’appoggio del popolo. Così è sempre stato in tutte le situazioni vitali di Israele: prima si combatte, si supera il pericolo e dopo - solo dopo - si mettono in discussione le decisioni prese. In ogni caso, qui la situazione è differente perché il pericolo iraniano non riguarda solo Israele ma tutto il mondo e mi aspetto che sia la leadership mondiale ad affrontare e risolvere il problema».
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