Sul GIORNALE e sul FOGLIO, due articoli su Samir Kuntar (Gian Micalessin, "Israele dà la caccia al terrorista libanese che ha appena liberato") e un'intervista a Dan Segre sul significato della sepoltura in terra d'Israele dei soldati caduti in guerra (Giulio Meotti, "Perchè il corpo di un soldato israeliano vale più di un terrorista vivo").
IL GIORNALE: Gian Micalessin, "Israele dà la caccia al terrorista libanese che ha appena liberato"
Israele seppellisce i propri morti e promette vendetta. Lo fanno capire, pronunciando esplicitamente il nome di Samir Kuntar, fonti anonime dei servizi di sicurezza israeliani. Lo annunciano le misteriose chiamate che fanno squillare centinaia di telefoni libanesi e anticipano una possibile imminente rappresaglia.
Ventiquattro ore dopo lo scambio di salme e prigionieri celebrato come una grande vittoria, Hezbollah, i suoi capi e i prigionieri appena liberati sono di nuovo in trincea. Su tutti pende la spada di Damocle della rappresaglia israeliana. Le due prede più ricercate sono il segretario generale Hasan Nasrallah e Samir Kuntar, la “belva” sottratta ai quattro ergastoli comminatigli dopo l’attacco del 1979 costato la vita a un poliziotto, a un padre di famiglia e a una bimba di quattro anni massacrata a mani nude dallo stesso Kuntar.
L’inserimento di Kuntar nella lista dei nemici da liquidare senza troppi complimenti è confermato dagli stessi servizi di sicurezza israeliani. «Kuntar, per quanto ci riguarda, è soltanto un morituro destinato ad esser raggiunto e liquidato quanto prima - annunciano fonti ovviamente anonime. Dopo la sua liberazione – aggiungono - non abbiamo più obblighi... da questo momento è solo un infame assassino col quale il prima o poi salderemo il conto».
La belva trasformata in eroe non sembra disposta ad ascoltare le raccomandazioni del nemico che gli consiglia «di non uscire da casa e di non circolare alla luce del giorno». Nelle prime 24 ore di libertà batte le piazze di mezzo Libano, rivendica sfrontatamente gli assassinii commessi durante l’incursione del 1979 e promette di tornare a combattere gli israeliani tra le file di Hezbollah.
«Non mi sono pentito neppure per un giorno e tornare tra le file della resistenza mi dà la stessa gioia che riabbracciare la mia famiglia», spiega Kuntar dopo esser stato accolto come un trionfatore nel villaggio druso di Aley, pochi chilometri a sud di Beirut.
In quel tripudio di folla assiepata tra le case dello stesso villaggio diventato due mesi fa il simbolo delle minacce del Partito di Dio alla comunità drusa si annidano le ipocrisie e i misteri del Libano. Il villaggio che per una lunga e sanguinosa domenica di maggio resistette agli assalti dei combattenti sciiti uccidendone una dozzina accoglie come un eroe il figlio terrorista fatto liberare dagli stessi nemici di Hezbollah. E il druso Kuntar è da ieri un militante di Hezbollah a tutti gli effetti, desideroso, a quanto ripete, di «tornare a confrontarsi con il nemico sionista».
Se la promessa rappresaglia israeliana non spegnerà prematuramente le sue velleità, le occasioni non mancheranno. Da ieri i telefoni libanesi sono tempestati da chiamate in cui un messaggio registrato spiega, a nome del governo di Gerusalemme, che qualsiasi attacco del Partito di Dio innescherà una dura reazione e invita i cittadini libanesi a ribellarsi ai tentativi di Hezbollah di creare uno Stato nello Stato.
A preoccupare Israele, dopo la formazione del nuovo governo libanese su cui Hezbollah esercita potere di veto e controllo attraverso un terzo dei ministri, sono i nuovi, sofisticati armamenti transitati dalla frontiera libanese. Tra questi un sistema radar e missilistico, installato sulle cime della Bekaa, che minaccia la supremazia degli aerei con la Stella di David.
Dall’altra parte del confine migliaia di israeliani hanno, intanto, seguito in un’atmosfera di cordoglio e commozione i funerali di Eldad Regev e Ehud Goldwasser, i due riservisti restituiti cadaveri da Hezbollah. Parlando alle esequie di Goldwasser il ministro della Difesa Ehud Barak, il militare più decorato d’Israele, ha ricordato con commozione l’obbligo morale che lega lo Stato ebraico ai propri figli in divisa. «Se, Dio non voglia, qualcuno di voi dovesse venir fatto prigioniero o peggio mentre combatte i nemici e terroristi sappiate che lo Stato d’Israele non rinuncerà mai a intraprendere tutti gli sforzi legittimi e possibili per riportarvi a casa».
IL FOGLIO: Giulio Meotti, "Perchè il corpo di un soldato israeliano vale più di un terrorista vivo"
Quel fotogramma è come un lembo di vita postuma che arriva dall’inferno. Sono trascorsi vent’anni da quando un fotografo di Hezbollah scattò l’immagine di Ron Arad che Israele ha avuto dai terroristi libanese e che è rimasta davanti agli occhi di tutti mentre identificavano i corpi di Ehud Goldwasser e Eldad Regev. Emaciato, barba lunga e occhi smarriti, forse reduce da torture. I suoi occhi dicono tanto. Dicono del momento in cui l’avviere baciò la moglie e la figlia prima di partire per l’ultima missione. Dicono dei diciannove soldati mai rientrati dalla guerra del 1973. Dicono di Zachary Baumel, Yehuda Katz e Tzvi Feldman, ancora in Libano dal 1982. Dicono di Guy Hever, il soldato israeliano che nell’agosto del 1997 fu visto per l’ultima volta vicino al confine siriano. Scandaloso e incomprensibile appare Israele che baratta vite dedite alla morte per riavere salme di soldati caduti. Ma chi oggi accusa il governo di cedere al nemico, chi assume a priori la posizione intransigente dimentica lo spirito di quella democrazia combattente. Dimentica che in Israele ci sono 900 monumenti di guerra, uno ogni 17 caduti rispetto all’Europa che ne ha uno ogni 10 mila. Ma in Israele non ce n’è neanche uno al milite ignoto. Dimentica che ci sono tombe sul Monte Herzlprive dei corpi, ma con già il nome e la placca. In attesa che li riportino “a casa”. Dimentica il dramma di evacuare dalle colonie di Gaza le 48 tombe di israeliani. Nel 1985 Israele rilasciò 1.000 miliziani arabi in cambio di tre soldati rapiti da Hezbollah. Hezi Shai, prigioniero in Siria, ieri ha detto: “Un solo pensiero mi teneva in vita, laconsapevolezza che il mio paese stava facendo di tutto pur di portarmi a casa e restituirmi alla mia famiglia e alla mia terra. Ci furono momenti in cui pensavo di togliermi la vita. I miei aguzzini avrebbero avuto un cadavere e non un soldato vivoMa sapevo che Israele avrebbe fatto di tutto per portare a casa anche solo il mio corpo, sapevo che non si sarebbe mai accontentato di dire ‘è disperso’”. Ha detto Shimon Peres che “Israele è giusta, e giustizia è il vero nome della vittoria. Abbiamo pagato un prezzo dolorosissimo per riportare a casa Ehud ed Eldad, perché avessero il riposo del guerriero nella loro casa, con ognuno di noi: i caduti e i vivi”. Per lo scrittore e reduce della guerra israeliana del 1948 Vittorio Dan Segre, due elementi spiegano lo scambio. “Da un lato la tradizione sionista, pioniera ed eroica per cui non si lasciano in mani nemiche i combattenti, vivi o morti”. C’è poi un fenomeno inconscio. “Gli ebrei non sono una religione o una nazione, ma una famiglia allargata. E’ la reazione tipica di una famiglia. Non si abbandonano i cari. Nel giudaismo anche quando è privo dell’anima il corpo è sacro. Spiega le proteste contro la costruzione di una strada quando si scopre una necropoli giudaica. Ci si ferma”. L’eroe del Kippur Avraham Rotem dice che “qui i soldati non combattono con una canzone sulle labbra e il patriottismo per cui ‘è bello morire per la patria’. Si battono con e per gli amici con i quali mangiano e dormono. Un soldato non ha ragione di rischiare la vita se avverte che i suoi compagni nonfarebbero lo stesso per lui”. Per Segre, Rotem ha ragione. “Se c’è stato uno sbaglio, è ammettere il principio ‘corpi per terroristi’. Ma non si sapeva se erano vivi o morti, Hezbollah non l’ha detto fino all’ultimo. Si è voluto alleviare il dolore. La superiorità civile dimostrata da Israele ha un’immensa forza. E’ una società libera che combatte non per odio, ma per la difesa delle case. E’ un grande esempio di civiltà, anche se non rientra nella Realpolitik. Ha ragione sia chi dice ‘non trattare’ sia chi tratta. La tragedia e la grandezza dell’ebraismo è che non accetta assolutismi. Una storia hassidica bellissima racconta che la moglie del rabbino tratta male la domestica e lei protesta. Il rabbi le dice: ‘Hai ragione’. La moglie viene a sapere: ‘Non ho autorità su di lei?’. E il rabbino: ‘Hai ragione’. Un allievo dice: ‘Rabbi, non possono avere tutti ragione’. E lui: ‘Hai ragione anche te’”. Nella guerra del 1967 il rabbino dell’esercito Shlomo Goren attraversò le linee nemiche per chiedere indietro i corpi dei propri soldati. Un arabo a Betlemme gli disse: “Lei è pazzo, rischia la vita per delle ossa?”. Goren replicò: “E’ grazie a quelle ossa se io sono vivo”. Il primo a dirlo fu un ebreo deportato a Babilonia quasi tremila anni fa.
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