Visti i risultati politici quasi nulli dell'incontro parigino tra capi di stato dei paesi mediterranei, i quotidiani italiani si sono buttati sull'aspetto mondano della notizia.
Gli articoli più approfonditi riguardano le mogli dei leader, che appartengono al genere "copertina di Vogue". Ve ne risparmiamo la lettura: non che ci sia qualcosa di male, di per se, nelle cronache mondane, ma ci chiediamo quanto conti, di fronte a problemi come la mancanza di democrazia della Siria, il suo sostegno al terrorismo, la sua alleanza con l'Iran, l'avvenenza di Asma.
Di seguito, riportiamo invece la cronaca di Massimo Nava, fautore piuttosto acritico del "dialogo" con i dittatori:
PARIGI — La parata del 14 luglio è la festa popolare più amata dai francesi. Nel solco della tradizione, una folla immensa applaude soldati, cavalleggeri, legionari e bande militari che sfilano dall'Arco di Trionfo a Place de la Concorde. Ma Nicolas Sarkozy ha voluto un po' di «rupture» anche per l'occasione più tradizionale, trasformandola in evento politico, diplomatico e mediatico di grande impatto internazionale, celebrando — con il coro della Marsigliese e la pattuglia tricolore che sfreccia nel cielo — il successo del vertice di sabato, in cui sono state gettate le basi dell'Unione per il Mediterraneo e fatti passi significativi per la pace in Medio Oriente.
Per la prima volta, hanno assistito alla festa nazionale una quarantina di capi di Stato e di governo dell'Europa, dell'Africa e dei Paesi arabi. Gli stessi riuniti l'altro ieri a parlare di pace e cooperazione sotto la volta del Grand Palais. Il presidente siriano Assad, il presidente dell'Autorità palestinese Abbas e il premier israeliano Olmert non si sono stretti la mano, ma erano seduti alla stessa tribuna, accanto al segretario generale dell'Onu e al presidente Sarkozy che ha aperto con coraggio il canale di comunicazione. Per la prima volta, ha sfilato un contingente di caschi blu, come per marcare l'impegno per la pace di tutte le nazioni, comprese quelle i cui rappresentanti — in tribuna — sono ancora in guerra. Per la prima volta, sono stati letti ad alta voce passi della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Compito affidato all'attore comico Kad Merad, di origini algerine, protagonista di «Bienvenue chez les Ch'tis», il film visto da venti milioni di francesi. Un messaggio solenne e popolare, diretto a quanti, sulla tribuna, non lo hanno ancora inteso nelle pratiche politiche di casa propria.
È stata la prima volta anche per Ingrid Betancourt, libera, raggiante e protagonista del «garden party» all'Eliseo dove Sarkozy le ha consegnato la Legion d'Onore. Fra tante «ruptures », c'è anche quella dello stile, che vuole sottolineare una Francia più fresca e aperta. Cibarie multiculturali e multietniche per quattromila invitati. È stata la prima volta di Carla Bruni, il cui nome figurava sui biglietti d'invito con uno strappo al protocollo. Completo viola, capelli raccolti, ha fatto gli onori di casa. «Sono commossa, è una grande festa per il nostro Paese», ha detto, sottolineando la recente cittadinanza. Impossibile non ricordare il primo garden party di Sarkozy, l'anno scorso, nell'imbarazzo di una gioia ostentata, accanto a Cécilia che stava per andarsene.
La parata del 14 luglio è la festa delle forze armate. E, per la prima volta, è stata una festa controversa, con contestazioni e polemiche striscianti. Sempre a causa di Sarkozy. La sua «rupture » diplomatica, con la riabilitazione della Siria, ha fatto storcere il naso agli ambienti militari che non dimenticano le vittime del Libano. Reduci e parenti dei soldati caduti hanno fatto sapere la loro indignazione per la presenza di un capo di Stato «che ha le mani sporche di sangue francese». Ma è la «rupture » riformista che ha suscitato maggiori malumori. Il piano di Sarkozy prevede infatti tagli di organici e riorganizzazioni dolorose.
La presenza del presidente Assad e di alcuni autocrati africani è stata contestata da militanti dei diritti umani che hanno inscenato manifestazioni, mostrando fotografie di giornalisti imprigionati in Siria, Tunisia, Egitto e Marocco. La polizia ha effettuato diversi fermi. Fra questi, il segretario di Reporters sans Frontières, Robert Ménard, e il responsabile per l'Asia, Vincent Brossel: «La festa del 14 luglio, la presa della Bastiglia, è il simbolo della lotta contro l'autoritarismo e uno dei peggiori dittatori si trova in tribuna d'onore». Anche la sinistra si è unita alla protesta. Ségolène Royal ha parlato di «intollerabile affronto» imposto alle forze armate francesi. Ma contro i «peggiori» dittatori, l'alternativa alla ghigliottina (o ai bombardamenti) è appunto il dialogo.
Le polemiche tra israeliani e palestinesi che hanno rallentato l'approvazione della dichiarazione finale:
PARIGI — L'approvazione della dichiarazione finale del summit per l'Unione del Mediterraneo si è incagliata domenica per almeno mezz'ora su una parola, a causa di divergenze tra israeliani e palestinesi sul concetto di Stato nazionale. Lo ha rivelato ieri il ministro degli Esteri Bernard Kouchner in un'intervista. Il testo finale adottato da 43 nazioni riafferma l'appoggio per il processo di pace ma non fa riferimento allo Stato nazionale. «C'è stato un blocco dell'ultimo momento tra israeliani e palestinesi — ha detto Kouchner alla radio Europe 1 — che ha fatto sì che il testo fosse di nuovo corretto». La divergenza riguarderebbe il termine «Stato nazione, Stato nazionale e democratico». Una dicitura che, ha proseguito Kouchner, «sottintende tutta una difficoltà di ritorno dei rifugiati e di Stato ebraico o non ebraico, Stato palestinese. In breve, la dicitura non è stata inserita». Dichiarazioni che il quotidiano parigino Le Monde ha tentato di chiarire in un commento apparso ieri sul sito. La delegazione araba avrebbe tentato «senza successo» di far includere un riferimento all'iniziativa della Lega araba, datata 2002, che «condiziona la normalizzazione» dei rapporti con il vicino israeliano «alla creazione negoziata di uno Stato palestinese» in base alle frontiere del 1967.
Anche Israele, spiega Le Monde,
avrebbe spinto per l'inclusione di un riferimento controverso, «una formulazione mirata a escludere preventivamente ogni ritorno dei rifugiati palestinesi», ma senza miglior fortuna.
Divergenze d'opinione confermate dal ministro degli Esteri palestinese Riad al Maliki, secondo il quale «gli israeliani hanno insistito per inserire la menzione "Stato per il popolo ebraico", cui ci siamo categoricamente opposti», ma smorzata da un rappresentante della delegazione israeliana. Il testo finale dei 33 articoli fondanti dell'Unione per il Mediterraneo dunque non contiene affermazioni specifiche sulla questione israelo-palestinese, ma si limita prudentemente a rinviare a dichiarazioni precedenti.
Sui giornali di partito i giornalisti sfruttano il verice per tirare l'acqua al proprio mulino, esaltando il leader di riferimento. Così fa Umberto De Giovannangeli che sulle pagine dell'UNITA' si preoccupa sostanzialmente di ribadire che allora D'Alema aveva ragione.
Puntare su Bashar per isolare il «folle di Teheran». Riabilitare un regime dispotico per provare a disinnescare la bomba (nucleare) iraniana. Un azzardo, ma un azzardo calcolato. «La pace non è mai stata così vicina»: un’affermazione impegnativa, fin troppo. Tanto più se a pronunciarla è un leader in caduta libera nel suo Paese, come lo è il premier israeliano Ehud Olmert. Ma quella materializzatasi a Parigi è qualcosa di più di una fragile speranza. È la consapevolezza che se la pace non si avvicina, ad avvicinarsi, a grandi passi, è la guerra. Una guerra che rischierebbe di far esplodere la polveriera nucleare mediorientale. Per questo l’Europa, ancor più che un’assente America, a Parigi ha provato a giocare la «carta siriana». Per provare a dividere Damasco da Teheran, innanzitutto. Il tempo non lavora per la pace: lo sanno bene i leader che si sono riuniti a Parigi.
Come sanno che in Medio Oriente il vuoto dell’azione diplomatica è sempre riempito dal sinistro linguaggio delle armi. E del terrore. Una cosa appare certa: l’attuale status quo non regge più. Non regge sul fronte israelo-palestinese, e ancor più su quello iraniano. Fuori dai sorrisi, dalle strete di mani, dagli abbracci e dalle frasi roboanti, spenti i riflettori, a restare viva è la consapevolezza che la posta in gioco, nei prossimi mesi, è di quelle che fanno tremare le vene dei polsi: evitare la guerra. E per farlo, occorre un di più di politica. Aprire a Damasco per dare un segnale di speranza a Gerusalemme (un accordo con Israele «forse entro sei mesi» non è da escludere, dichiara Assad). E per parlare a quella componente del regime degli ayatollah che pur di evitare la guerra, e salvare la nazione, potrebbe essere disposta anche a rimettere in discussione alcuni capisaldi della rivoluzione khomeinista. Dimostrando che è possibile ritornare nel gioco, politico-diplomatico, del Grande Medio Oriente. Come sta accadendo per la Siria di Bashar el-Assad. La diplomazia internazionale è costretta a muoversi. Costretta, perché le notizie che giungono da quella tormentata, e nevralgica, area del mondo dicono che uno strike aereo israeliano contro l’Iran è qualcosa di più di una opzione: è una prospettiva ravvicinata.
La pace non sarà più vicina, di certo non può più attendere, o restare confinata a conferenze tanto pubblicizzate quanto prive di concreti sviluppi sul campo. E la pace, più che da Ramallah, passa oggi per Gerusalemme, Damasco, Teheran. E da questa triangolazione è possibile far discendere, una soluzione della stesa vicenda israelo-palestinese. Per questo ha senso tirar dentro il giovane Assad. L’esito positivo è tutt’altro che scontato, ma vale la pena provarci. È quello che aveva cercato di fare il governo di centrosinistra italiano. Il governo di Romano Prodi. Ieri, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha voluto vicino a sé, nel giorno della festa nazionale, Bashar el-Assad. Poco distante, nella tribuna d’onore, c’era Silvio Berlusconi. Nessuno ha menato scandalo. Così non era stato quando Romano Prodi, e l’allora ministro degli Esteri Massimo D’Alema, avevano sollecitato un impegno siriano nella difficile stabilizzazione del Libano dopo la devastante guerra dei 34 giorni di due estati fa. Allora, fu un fuoco di fila di critiche, di invettive da parte dell’opposizione di centrodestra, ora al governo, contro un «premier irresponsabile» e un ministro degli Esteri «amico degli Hezbollah». Ora a Beirut gli Hezbollah sono parte decisiva del nuovo governo libanese. Ora chi dialoga con Assad non è considerato un «irresponsabile» ma un politico accordo, lungimirante. E chi prova a farsi da tramite, come Sarkozy o il premier turco Erdogan, viene considerato un amico di Israele. Va ricordato. Non per spirito di polemica. Ma perché la politica estera non dovrebbe mai essere piegata alla miseria della polemica interna.
Umberto Ranieri sul RIFORMISTA ribadisce invece che le buone intenzioni sono buone.
Certo, se davvero Damasco si staccasse da Teheran sarebbe una buona cosa, ma questo non può essere un giudizio sull'iniziativa del vertice di Parigi. Si dovrebbero invece valutare la possibilità di successo della strategia (probabilmente bassa) e i rischi connessi (sicuramente alti).
Ecco il testo:
Sotto le volte del Grand Palais di Parigi è nata l'Unione per il Mediterraneo voluta dal presidente francese Nicolas Sarkozy. L'obiettivo è ambizioso anche se suona un po' retorico il documento conclusivo dei lavori del vertice: «Trasformare il Mediterraneo in un mare di pace, democrazia, cooperazione e prosperità». Forse occorrerebbe essere più sobri. Nel corso dei mesi il progetto francese è stato emendato. Secondo l'iniziale proposta avrebbe coinvolto solo i paesi rivieraschi dell'Unione europea. Inevitabile il sospetto che la Francia intendesse riaffermare il proprio ruolo dopo aver vissuto con inquietudine l'allargamento ad est sotto il segno della Germania. Poi, la correzione di tiro imposta dalla signora Merkel. L'Unione nel suo complesso si sarebbe impegnata nell'impresa. Che l'Europa tornasse a fare i conti con il Mediterraneo e i paesi della riva sud era indispensabile. La strategia del Partenariato avviata a Barcellona nel 1995 procede a fatica. Vertici ministeriali e conferenze si succedono ritualmente senza riuscire a ridarle slancio. I dati sono eloquenti. La distanza tra le due sponde si allarga.
Per avere una idea delle dimensioni e gravità dei problemi basta ricordare che, per mantenere gli attuali livelli di disoccupazione occorrerebbe creare entro il 2020 nei paesi della riva sud qualcosa come venti milioni di posti di lavoro; per combattere efficacemente la povertà ne occorrerebbero cinquanta. La verità è che la situazione sembra muovere in direzione opposta. Si pensi agli scambi commerciali. Siamo a cifre del tutto insoddisfacenti: le esportazioni dei paesi dell'Unione verso i paesi rivieraschi del sud sono solo il 2/3 per cento del totale mentre le importazioni rappresentano meno dell'1%.
Altro che creazione di un'area di libero scambio entro il 2010. In termini di sistemi finanziari e monetari i paesi della sponda sud hanno livelli di inflazione molto alti, condizioni di accesso al credito del tutto svantaggiose.
All'origine di questa situazione non c'è una sola causa. Hanno agito in modo convergente diversi fattori. Un limite interno al Partenariato avviato a Barcellona che indicò obiettivi senza attivare concrete politiche e soprattutto senza efficaci strumenti di controllo del loro raggiungimento. Né hanno favorito la strategia euromediterranea alcune tendenze prevalenti nelle relazioni internazionali negli ultimi dodici anni: la concentrazione degli sforzi politici e finanziari dell'Unione verso l'integrazione dei paesi della Europa centrale e orientale; la corsa delle imprese verso i mercati di Cina e India; la crescente diffidenza tra universo musulmano e occidente successiva agli attentati dell'11 settembre del 2001. Tutto questo in un contesto segnato dalle conseguenze di conflitti che si trascinano irrisolti, da quello israelo-palestinese alle tensioni tra Algeria e Marocco per il Sahara occidentale.
In un quadro così complesso e logorato l'iniziativa francese (a condizione che non si risolva in retorica) è di estrema importanza. Occorre tuttavia evitare duplicazioni. Selezionare gli obiettivi. Ancorare la cooperazione tra le due sponde più che a istituzioni pletoriche a progetti concreti da realizzare in tempi non biblici. La questione dei tempi è decisiva in una realtà che, con le tendenze demografiche prevalenti, assume sempre più i caratteri di una bomba ad orologeria.
Il vertice di Parigi ha posto infine alcuni problemi politici di estrema delicatezza. L'invito all'Eliseo del presidente siriano ha fatto di Bachar Assad uno dei protagonisti della nascita dell'Unione per il Mediterraneo. Una scelta audace considerato che Assad è sospettato di complicità nella eliminazione del premier libanese Rafik Hariri e la Siria non vanta certo un curriculum democratico immacolato. La ragione di questa apertura della Francia verso la Siria si spiega con la convinzione, che si è fatta strada all'Eliseo, che Damasco abbia cambiato linea aprendosi al negoziato con Israele e rinunciando alle pretese egemoniche sul Libano. Più o meno il ragionamento che aveva portato Sarkozy a incontrare Gheddafi nel momento in cui il leader libico rinunciava alle armi di distruzione di massa e dichiarava di voler contrastare il terrorismo. Una condotta che Andrè Glucksmann, intellettuale molto ascoltato all'Eliseo e impegnato nella difesa dei diritti umani, riassume con limpidezza: «Se i dittatori danno segni di muoversi verso la pace e mostrano un minimo di rispetto per la popolazione è giusto aiutarli. Demonizzarli è un atteggiamento irresponsabile e privo di alcuna efficacia».
In realtà la grande ambizione politica di Sarkozy è di lavorare per allontanare la Siria dall'Iran favorendo un ritorno condizionato di Damasco nell'alveo del dialogo internazionale. Dovrebbe rendere possibile questa prospettiva la stabilizzazione del Libano avviata con la costituzione di un governo di ampia coalizione a Beirut e lo sviluppo, auspice la Turchia, del negoziato tra Damasco e Israele. Difficile nascondersi le incognite e i rischi di una tale strategia. Nella condotta della Siria sui punti caldi della situazione mediorientale permangono ombre e contraddizioni. Il prezzo per riconoscere autonomia e dignità nazionale al Libano da parte di Damasco è stato alto: il diritto di veto sul governo di Beirut della fazione filosiriana. Un veto che può bloccare non solo la riforma del sistema elettorale ma ritardare l'avvio del processo internazionale sull'assassinio di Hariri.
In realtà è probabile che Damasco avverta che l'intesa con Teheran, malgrado gli aiuti che la Siria riceve dal regime iraniano, sia un ostacolo insormontabile alla prospettiva di una restituzione del Golan da parte di Israele. Così come non è da escludere che per un paese come la Siria che rivendica la laicità delle proprie istituzioni una stretta alleanza con l'Iran possa diventare pericolosa. Decisiva sarà in ogni caso la verifica concreta dell'affidabilità siriana. Una verifica che non tarderà sui due banchi di prova cruciali: il Libano, la cui pacificazione è messa a repentaglio dal riarmo indiscriminato di hezbollah; gli accordi tra l'Anp di Abu Mazen e il governo israeliano sullo Stato palestinese. Come intenderà muoversi Damasco su questi due punti cruciali dello scacchiere mediorientale? Khaled Meshaal continuerà a dirigere Hamas da Damasco? C'è da augurarsi che l'Eliseo abbia visto giusto e che realmente prevalga nella leadership siriana la volontà di apertura e negoziato. Sarebbe una svolta storica. Forse è il caso che l'Italia, i cui interessi economici e politici nel mediterraneo sono strategici, rifletta seriamente su quanto sta accadendo. E si muova con la rapidità e l'energia che la situazione richiede.
Ottimismo di Silvio Berlusconi sul processo di pace in Medio Oriente. Purtroppo, l'ottimismo può essere smentito in modo chiaro solo dal futuro. Al presente è sempre molto facile, ma generalmente, per quanto riguarda il Medio Oriente, si rivela errato. Cosa è rimasto della conferenza di Annapolis, che doveva essere fondamentale nel portare la pace nella regione ?
Da Il GIORNALE, un articolo di Alessandro Caprettini:
Se davvero, come assicurato da Silvio Berlusconi dopo il faccia a faccia mattutino all'hotel Raphael con il premier israeliano Ehud Olmert, si è giunti a mettere sul tavolo «i particolari della negoziazione che sono molto concreti», non c'è da meravigliarsi che il presidente del Consiglio si lanci in una considerazione che suona molto più forte di un auspicio: «C'è davvero da sperare che questa volta possa esserci una conclusione positiva per il Medio Oriente. Sono molto più ottimista che nel passato».
In un soleggiato 14 luglio, prima di presenziare alla Concorde - al fianco di Gordon Brown - alla consueta parata militare e prima di un'ultima colazione di lavoro all'hotel de Marigny con il presidente francese Nicolas Sarkozy e la prèmiere dame Carla Bruni, il presidente Barroso e il segretario dell’Onu Ban Ki-Moon, Berlusconi affronta in un ultimo bilaterale Olmert. Gli fa capire che l'Italia farà quanto nelle sue possibilità per la «svolta» che si annuncia vicina. Gli fa sapere che tenderà una mano ai palestinesi per impegnarli alla sospirata firma di una pace che si spera definitiva. Che è pronto ad offrire ospitalità ad Erice per la messa a punto degli ultimi capitoli del contenzioso.
Ma non gli nasconde che anche Israele deve fare le sue brave concessioni. «Credo - spiega prima di lasciare l'albergo in cui ha soggiornato, a fianco dell'Arc de Triomphe - che da entrambe le parti ci debba essere elasticità: mi è parsa di coglierla nella parte israeliana, cercheremo di mettere in campo la nostra capacità di convincimento per quanto riguarda quella palestinese».
Il punto di arrivo, il target cui si tende tutti (specie Bush, tiene a ricordare) è che in questo 2008 si giunga all'intesa che permetta la nascita dello Stato palestinese che viva in pace con quello di Gerusalemme. «Per arrivarci - insiste e sottolinea - tutti debbono essere capaci di fare qualche rinuncia. D'altronde, anche nel mondo del lavoro non si può mai andare a una trattativa riuscendo poi a cogliere il cento per cento degli obiettivi. Si deve essere capaci di riuscire a considerare un successo il raggiungimento di un accordo, ma qualche sacrificio entrambe le parti lo devono fare».
Ad Abu Mazen, nome di battaglia di Mamhoud Abbas, il premier italiano torna a ripetere - come gli aveva già detto a Roma un paio di giorni fa - che si farà il possibile per venire incontro alla necessità di finanziamenti per sorreggere il nuovo Stato palestinese. Ad Olmert garantisce la permanenza delle nostre truppe in Libano, almeno fin quando la situazione non sarà stabilizzata, azioni diplomatiche nei confronti di Beirut ma anche di Damasco e la conferma di una linea rigida nei confronti di Teheran.
«Il ruolo dell'Italia? Quello - spiega ancora Berlusconi - di essere amici dell'una e dell'altra parte e avvicinare le loro posizioni il più possibile». Certo, il quadro «è molto complicato» per cui bisogna sempre tenerlo sotto controllo «con le armi della diplomazia, dell'amicizia, dei consigli disinteressati», ma la strada gli sembra ormai abbastanza spianata grazie alle terapie messe a punto in questi ultimi anni. Non solo da parte di Sarkozy (che in patria punta sul suo ruolo di «pacificatore») ma anche dell'amministrazione americana e di numerosi «protagonisti in Europa», pronti tuttora a «impegnarsi in direzione di una pace duratura».
Berlusconi lascia Parigi - dopo la parata che ha mostrato di gradire e la colazione all'Hotel de Marigny - avendo rafforzato nella due giorni francese il suo ruolo internazionale («Ormai ho rapporti di amicizia con tanti capi di Stato e di governo...») e non mancando di lanciare un amo di non poco peso sulla necessità di una intesa in tempi rapidi sul costo del barile di greggio. «Bisogna convocare subito i Paesi produttori, farli incontrare coi Paesi consumatori - ha detto -. E da questo incontro deve nascere un limite alla speculazione, che non giova a nessuno».
Un tema che forse riprenderà già oggi quando, a palazzo Chigi, riceverà il presidente della commissione europea Barroso. Col quale esaminerà certo il complesso tema dello stop irlandese imposto alla Ue. Ma con il quale non mancherà certo di chiedere un maggior interventismo di Bruxelles sull'impennata petrolifera. Che, come aveva detto con chiarezza al Grand Palais, rischia di bruciare tutti i sogni di sviluppo. Non solo europei. Ma anche mediterranei e medio-orientali.
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