Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Dalle leggi razziali all'antisemitismo nazifascista una pagina incompleta di Repubblica e un articolo del Corriere su Rodolfo Graziani
Testata:Corriere della Sera - La Repubblica Autore: Nello Ajello - Antonio Carioti Titolo: «Intellettuali antisemiti - L'invettiva di Graziani contro gli ebrei e la Chiesa»
Utile e necessaria la pagina dedicata da La REPUBBLICA del14 luglio 2008 all'adesione degli intellettuali italiani all'antisemitismo fascista e alle leggi razziali. Fa impressione leggere nomi di persone ancora in vita, e attive nella cultura italiana di oggi. Più elegante, da parte di REPUBBLICA, sarebbe stato citare anche i nomi del fondatore Eugenio Scalfari, fascista della prima ora, o di un collaboratore come Giorgio Bocca, che dalla pagine del giornale del Partito fascista di Cuneo addirittura rimproverava al regime di non essere al livello del nazismo nella politica antisemita e lanciava l'allarme sul rischio che l'Italia divenisse una nazione dominata dagli ebrei. Ancora più "elegante" sarebbe stato forse non fare nessun nome, mantenere il silenzio su una pagina di storia poco nota, come hanno fatto quasi tutti i membri della classe dirigente italiana uscita dal fascismo e divenuta per miracolo antifascista e resistente.
E' un peccato che da tempo non sia più disponibile nelle librerie il libro di Ruggero Zangrandi "Lungo viaggio attraverso il fascismo", nel quale si narravano queste vicende e si spiegava perché in Italia i conti con il fascismo non sarebbero mai stati fatti. Come sarebbe stato possibile, dopo che molti protagonisti di quella stagione si erano riciclati e avevano cancellato con un'abile giravolta il loro passato ?
Ecco l'articolo:
A emettere il primo acuto è Il Giornale d´Italia. Lì, il 14 luglio 1938 (sotto la data del 15 trattandosi di un quotidiano della sera) appare un manifesto intitolato «Il fascismo e i problemi della razza», attribuito a «un gruppo di studiosi fascisti», di cui non si fanno i nomi. Il testo, diviso in dieci punti, culmina in una rivendicazione della purezza razziale degli italiani e denuncia il rischio che il loro sangue venga contaminato dall´incrocio con ceppi extra-europei, portatori di varietà biologiche diverse da quella ariana. Il punto 9 del manifesto porta un titolo rivelatore: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana». Solo il 26 luglio, il Partito nazionale fascista rivela le generalità degli autori del manifesto. Tra i quali i più celebri sono il patologo Nicola Pende, il biologo Sabato Visco e lo psichiatra Arturo Donaggio. Si informa che gli estensori del documento, redatto sotto l´egida del Ministero della Cultura Popolare, sono stati ricevuti dal segretario del Partito, Achille Starace. Poco più tardi Pende e Visco protestano, sostenendo che il testo originario è stato "rimaneggiato". Ma ben presto tacciono. Chi non tacque affatto, fin da principio, furono gli intellettuali "militanti" - letterati, storici, giornalisti - quasi che l´avvio ufficiale della campagna antisemita rientrasse nei loro più fervidi voti. L´acuto risuonato sulle colonne del Giornale d´Italia diventò così un coro. Non soltanto gli organi di stampa del razzismo ufficiale, come La vita italiana di Giovanni Preziosi, Il Quadrivio o Il Tevere di Telesio Interlandi, Il Regime fascista di Farinacci, ma anche i quotidiani meno etichettati aderirono alla nuova missione. E per un certo numero di scrittori l´antisemitismo rappresentò una palestra per esercitare virtù retoriche e talenti pedagogici. Fu proprio Interlandi a proclamare sulla Difesa della razza, fin dai primi giorni dell´agosto 1938, che la campagna antisemita mirava alla «liberazione dell´Italia dai caratteri remissivi» che le erano «stati imposti dalle precedenti classi politiche». Quale occasione migliore, dunque, per mostrarsi aggiornati e «rivoluzionari»? In un saggio pubblicato in quattro puntate nella rivista Il Ponte fra il 1952 e il 1953, Antonio Spinosa avrebbe poi offerto una nutrita antologia di scritti di chiara obbedienza razzistica. Altrettanto ricca in questo senso è la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice. Si tratta di una documentazione inquietante. Per questo genere di letteratura, il 1938 è un anno privilegiato. Esce un trattato di Gabriele De Rosa, intitolato La rivincita di Ario. Vi si sostiene «l´identità ebraismo=comunismo», binomio al quale si oppone con i fatti «l´asse Roma-Berlino»: l´Italia, specifica l´autore, sta combattendo «in terra di Spagna non l´iberico nemico, ma la terza internazionale ebraica, quella creata dall´ingegno giudaico-massonico del Komintern». Gli fanno eco, tra gli altri, giornalisti come Felice Chilanti e Ugo D´Andrea. Critici delle più varie discipline denunziano, intanto, i danni che l´ebraismo infligge alla creazione artistica. In agosto un noto musicologo, Francesco Santoliquido, definisce la musica moderna «un vero e proprio monopolio della razza ebraica». Il critico letterario Francesco Biondolillo cerca di dimostrare che «il pericolo maggiore è nella narrativa». Qui, «da Svevo, ebreo di tre cotte, a Moravia, ebreo di sei cotte, si va tessendo tutta una miserabile rete per pescare dal fondo limaccioso della società figure ripugnanti». Moravia non era nuovo a simili attacchi. Già nel 1931, in visita a Giovanni Papini, era stato da lui accolto con le parole: «Lei collabora alla rivista Solaria. I solariani sono o zoppi, o ebrei, o omosessuali. Lei è tutte e tre le cose». Era una frase almeno in parte inesatta, avrebbe poi commentato il romanziere. Essa rientrava comunque nello stile dello scrittore fiorentino il cui romanzo Gog, edito proprio nel ´31, si ispirava al più schietto antisemitismo. Ora, nei tardi anni Trenta, quei precedenti si amalgamavano al seguito di una parola d´ordine unitaria. Gli intellettuali razzisti di sentimenti razzisti si moltiplicavano. Fra quelli destinati a diventare proverbiali figura Guido Piovene. È lui a firmare, sul Corriere della sera del 15 dicembre 1939, una recensione entusiastica al libello di Interlandi Contra judaeos. Gli attribuisce il merito di «aver ridotto all´osso la questione ebraica». Salvarsi dagli influssi semitici, suggerisce, non è difficile: «si deve sentire d´istinto, e quasi per l´odore, quello che v´è di giudaico nella cultura». Nella Coda di paglia (1962), lo scrittore formulerà una drammatica abiura, confessando di aver «obbedito da schiavo», senza sentirsene mai «partecipe», alle direttive del regime. In altri casi, come quello di Amintore Fanfani - il quale sostenne nel ´39 che «per la potenza e il futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri» - un´abiura altrettanto recisa non ci sarà. E neppure qualcosa di simile verrà espressa dallo storico Gioacchino Volpe (1876-1971), al quale la politica della razza pura parve una tappa verso la costruzione di un´Europa «veramente unita e solidale». Ma torniamo a letterati e giornalisti. Con lo scoppio della guerra l´antisemitismo assurge a epidemia. Dal ghetto di Varsavia, nel ´39, Paolo Monelli scrive per il Corriere della sera: «Nulla ci pare di avere in comune con questa schiatta ebraica, con la sua strana lingua, le sue insegne illeggibili, gli esotici costumi, i gesti paurosi, l´andare sbilenchi il più rasente al muro possibile». Dalla Cecoslovacchia Curzio Malaparte denunzia sullo stesso giornale «il pericolo sociale che rappresenta», per le città boeme, «l´enorme massa del proletariato giudaico»; mentre Giovanni Ansaldo scopre sulla Gazzetta del Popolo che sono stati gli ebrei ad aggravare il conflitto mondiale: «i "rabbi" di Nuova York, spingendo l´America alla guerra, hanno seguito l´istinto e la tradizione della razza». Ci sono poi gli ossessi, come Mario Appelius e Marco Ramperti. Il primo definisce «Israele traditore del mondo». Per il secondo «più che dalla stella gialla gli ebrei si riconoscono dalla ferocia dello sguardo». Fra questi mostri, egli ne privilegia uno: «il più sozzo, il più ripugnante, il più disumano e nemico è Charlot». Furono tutti così, gli "osservatori" italiani degli anni Trenta? Perfino nelle file fasciste si riscontrano casi di adesione al razzismo solo parziale, o perfino di ripudio. Pur ufficialmente antisemita, Giuseppe Bottai, a detta di un suo biografo, Alexander J. De Grand, «fu in grado di limitare l´applicazione alla cultura» delle teorie discriminatorie. Martinetti espresse la sua disapprovazione fin dal novembre 1938. A contrasti significativi si assiste anche nel dibattito sul tema «arte e razza». Ugo Ojetti si riconosce nel "pollice verso". Di parere opposto è Carlo Carrà: «Chiamare ebraizzante l´arte moderna», dichiara, «è tutto sommato molto puerile». Non per motivi di estetica, ma di fede, si oppone al razzismo Giorgio La Pira. In campo cattolico le posizioni in materia sono variegate. Papa Pio XI, Achille Ratti, non smetterà di deprecare le «ideologie totalitarie», di cui sono frutto il «nazionalismo estremo» e il «razzismo esagerato», mentre meno reciso risulta l´atteggiamento di buona parte della gerarchia. Un simile quadro, già noto, s´arricchisce in questi giorni di nuovi particolari. Nel prossimo numero della Civiltà cattolica padre Giovanni Sale, storico della Compagnia di Gesù, ripercorre la vicenda, pubblicando una lettera inedita di Bonifacio Pignatti, ambasciatore d´Italia in Vaticano. In questa lettera, datata 20 luglio 1938 (cinque giorni dopo la pubblicazione del manifesto antisemita), il conte Pignatti scrive che «il Papa medita le contromisure da adottare dinnanzi alla campagna anti-israelitica progettata dall´Italia, e che verrà condotta in base ai principi di purezza di razza, redatti dai professori universitari italiani». L´articolista ricorda che una settimana più tardi lo stesso Pio XI - in un discorso agli studenti di Propaganda Fide attaccò con forza l´indirizzo filo-tedesco adottato dal regime in campo razziale. La stessa severità il pontefice avrebbe mostrato il 6 settembre del ´38 - quasi in extremis: sarebbe morto il 10 febbraio successivo - sostenendo di fronte a un gruppo di pellegrini belgi «che l´antisemitismo è inammissibile e che spiritualmente siamo tutti semiti perché discendenti da Abramo, nostro padre nella fede». Era, osserva padre Sale, «la prima volta che un pontefice in modo chiaro ed esplicito condannava l´antisemitismo». Ci si può chiedere se ci sarebbero state altre volte.
Dal CORRIERE della SERA, un articolo su Rodolfo Graziani:
"R esurrexit Christus!" Ma i giudei che lo crocifissero sembra che oggi debbano dominare il mondo con l'oro per cui Cristo li scacciò dal tempio. Nel tempio stesso oggi essi si annidano. Protetti da chi ci ha insegnato a definirli nemici di Cristo e della Chiesa!». Questa invettiva antisemita, ma rivolta anche contro il clero cattolico, venne scritta il giorno di Pasqua del 1945, poco dopo l'apertura dei cancelli di Auschwitz. L'autore era il maresciallo Rodolfo Graziani, ministro della Difesa di Mussolini nella Repubblica sociale, le cui agende — ritrovate negli archivi di Washington dallo studioso Tommaso Piffer — sono ora depositate presso il Centro studi sulla Rsi di Salò, diretto da Roberto Chiarini, in attesa di una completa trascrizione. Le note di questi diari sono di solito brevi e frettolose, per cui acquista ancor più rilievo l'asprezza dello sfogo antiebraico. Ma assai significative appaiono anche le frasi che, in data 29 aprile 1945, mentre è prigioniero degli americani a Milano, Graziani scrive per la moglie Ines. Sono parole di un uomo che si mostra rassegnato all'esecuzione («muoio tranquillo», «cado sulla breccia di soldato»), mentre se la sarebbe cavata con circa cinque anni di prigionia. Ovviamente il maresciallo, in quel momento drammatico, non poteva prevedere che il «vento del Nord» resistenziale si sarebbe presto esaurito, lasciando il posto a una situazione assai più confortevole per gli ex gerarchi fascisti di Salò. Proprio sul processo a Graziani forniscono ora nuovi dettagli i diari del generale Emanuele Beraudo di Pralormo, presidente della corte militare alla quale la magistratura civile rinviò il giudizio sul maresciallo nel 1949. Raccolti in due volumi fuori commercio con il titolo Il mestiere delle armi (L'Artistica Savigliano, pp. 870), essi rivelano la crescente insofferenza dell'autore per le pressioni del governo, specie del ministro della Difesa repubblicano Randolfo Pacciardi, che si aspettava un verdetto severo. Come nota lo storico Nicola Labanca, curatore dei diari, Pralormo non amava affatto Graziani, ma lo considerava colpevole solo di aver violato il giuramento di fedeltà al re, non di aver tradito la patria. Nel clima di generale indulgenza verso i fascisti sancito dal fiasco dell'epurazione, il collegio giudicante si lasciò trascinare dall'unico magistrato militare che ne facesse parte, Enrico Santacroce. Costui, che più tardi avrebbe contribuito all'insabbiamento delle inchieste sulle stragi naziste, pilotò il processo verso un verdetto mite: tra insufficienze di prove e attenuanti varie, più l'applicazione del condono, Graziani si vide infliggere una pena che (tenendo conto della detenzione già scontata) gli consentì di tornare in libertà nell'agosto 1950, poche settimane dopo la sentenza. Pacciardi non la prese bene. E decise l'immediata uscita di Pralormo dai ranghi dell'esercito per limiti di età, mentre aveva fatto molte eccezioni, in casi analoghi, con altri generali. Di qui il risentimento dell'alto ufficiale, che nei suoi diari dipinge il ministro come un «guerrafondaio e umile servo degli statunitensi », con una mentalità da «gerarca fascista». Accuse curiosamente molto simili a quelle che, proprio in quel periodo, rivolgeva allo stesso Pacciardi (antifascista, ma anche anticomunista ferreo) la sinistra di osservanza filosovietica.