Haipai e jingpai (o «guanpai»): ovvero, stile di Shanghai e stile della capitale, anche chiamato «stile dei funzionari». Queste in Cina, da un secolo e mezzo, sono le due grandi correnti artistiche, di moda, e più in generale di stile di vita che si contendono il primato. Jingpai, per chi sa apprezzarlo, significa tutto quello che è serio, dalla letteratura alla politica, e «cinese», nazionale, tradizionale - per i suoi detrattori, invece, significa ipocrisia e rigidezza. Haipai? Chiedi cosa ne pensano al nord, e ti diranno che è tutto frivolezza, superficialità, e commercio. Ma se invece lo chiedi agli shanghaiesi, haipai significa classe, modernità, e la totale mancanza di timore nel mescolarsi con nuovi arrivati da tutto il mondo. Nella fantastica Shanghai degli Anni Venti e Trenta, infatti, essere alla moda significava essere molto cosmopoliti, e c'era di che esserlo: città aperta agli affari e alla speculazione finanziaria, governata a seconda dei quartieri da francesi, britannici, giapponesi, e in parte anche dai cinesi, porto franco raggiungibile senza visto, era diventata il rifugio di russi bianchi ed ebrei in fuga dagli orrori della persecuzione, prima sovietica, poi europea. Una volta arrivati a Shanghai, novella protettrice dei senza patria, nessuno faceva domande. Secondo un detto dell'epoca, qui era dove «donne con un passato e uomini senza futuro» potevano rifarsi un'identità, cancellare passati ingombranti e costruire futuri fantasiosi. Non solo, la diaspora ebrea poté anche contare sull'aiuto di un certo numero di uomini d'affari illustri, ebrei sefarditi di origine irachena, che avevano fatto fortuna proprio a Shanghai, con il commercio e la promozione immobiliare, in particolare sul Bund, lo spettacolare lungofiume di Shanghai: i Sasson, i Kadoorie, e Silas Hardoon. Man mano che la Germania nazista proseguiva nella sua follia omicida, però, Shanghai si ritrovò ad ospitare più di trentamila rifugiati nel giro di breve tempo. La comunità ebraica delle prime due ondate riuscì a costruire scuole, ospedali, dormitori e centri culturali per i nuovi arrivati, e l'elettrizzante Shanghai riuscì a salvare decine di migliaia di vite. L'occupazione giapponese non portò alle calamità temute: alleati della Germania di Hitler, i giapponesi non vedevano il motivo di essere antisemiti, e non si piegarono alle richieste tedesche di "liberarsi" degli ebrei arrivati a Shanghai. Negli ultimi due anni della guerra il "ghetto" ebraico dove erano ospitati molti dei rifugiati subì pesanti controlli, e i suoi abitanti dovettero sottostare a un'umiliante restrizione dei loro movimenti nel resto della città, ma fu tutto. Poi, la vittoria delle truppe comuniste di Mao Zedong contro i nazionalisti di Chiang Kai-shek significò la fine dell'avventura shanghaiese della comunità ebraica, per alcuni decenni almeno. Mao scacciò tutti gli stranieri, anche quelli che erano nati in Cina e che non conoscevano altra patria, e gli ebrei di nuovo dovettero spostarsi altrove: alcuni ad Hong Kong, molti in Australia, altri tornarono in Europa ed altri ancora proseguirono fino agli Stati Uniti. Il capitolo sembrò chiuso. Oggi però Shanghai, dopo i rigori del maoismo e l'iniziale sfiducia di Pechino nei confronti dell'ex capitale del vizio, è tornata a brillare, ed è di nuovo la città più internazionale della Cina (esclusa Hong Kong, ovviamente). E comincia a rispolverare il suo passato: incluso quello ebraico. Per anni, persone che devono la loro vita all'esistenza del porto franco di Shanghai sono venute qui, cercando di ritrovare le tracce della vita degli ebrei in Cina durante la Seconda Guerra Mondiale, raccogliendo soldi e donazioni per, fra le altre cose, restaurare le sinagoghe, recuperare le lapidi ebraiche, ed onorare la memoria del Dottor Ho - sorta di Schindler cinese che, diplomatico a Vienna durante la guerra, stampò in segreto il passaporto di centinaia di ebrei che avevano bisogno di un visto di uscita dall'Europa. Il governo di Shanghai, sulle prime, era parso un po' scettico. Poi, come spiega Dvir Ben Gal, un israeliano che si occupa di preservare la memoria ebraica di Shanghai, «il pregiudizio che gli ebrei siano ricchi ha fatto sì che, d'un tratto, venisse rivalutato il potenziale turistico offerto dalla memoria». Finora, il progetto di recupero e valorizzazione del passato ebreo era rimasto affidato all'iniziativa e all'energia individuale, ma un po' per volta l'interesse si espande, gli edifici vengono salvaguardati, e le istituzioni cominciano ad essere un po' più sensibili al progetto. Da questa settimana, infatti, è attivo un database dove vengono raccolti i nomi degli ebrei che transitarono per Shanghai, e le storie delle loro vite, un lavoro ancora agli inizi: dei circa trentamila ebrei salvati da Shanghai, infatti, si hanno informazioni precise e documentate solo di 600 di loro. Ma il lavoro di recupero della memoria è cominciato, e questo capitolo del frizzante stile haipai potrà via via essere arricchito di sempre nuovi dettagli.
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