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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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La Repubblica - La Stampa - Il Foglio - Il Riformista - Il Messaggero - Il Mattino - L'Opinione Rassegna Stampa
06.05.2008 Israele alla Fiera del libro: trentasettesima puntata
rassegna di cronache e opinioni

Testata:La Repubblica - La Stampa - Il Foglio - Il Riformista - Il Messaggero - Il Mattino - L'Opinione
Autore: Adriano Prosperi - Massimo Novelli - Paolo Griseri - Muin Masri - Giulio Meotti - Emanuele Fiano - Cinzia Leoni - Giovanni Sabatucci - Dimitri Buffa
Titolo: «Napolitano, una visita sprint alla Fiera - Attendesi segno da Napolitano - Le galere arabe per i ragazzi incendiari -Il tallit, così è nata una stella. Di David -»

 "Israele i pregiudizi dietro ai giudizi - A Torino boicotaggio antisemita

Un editoriale di Adriano Prosperi da La REPUBBLICA del 6 maggio 2008:

La fiera internazionale del libro di Torino è una manifestazione bella, ricca di incontri tra autori, editori e lettori, una festa del libro e della lettura, una celebrazione del valore positivo del dialogo tra culture che ha trovato il suo luogo nella città e nell´edificio – il Lingotto – simboli della modernità italiana.
La proposta del boicottaggio del Salone perché l´ospite d´onore era Israele è stata la spinta decisiva per convincermi a partecipare. Anzi a considerare assolutamente obbligatoria la partecipazione, come atto di civile responsabilità. Ero stato invitato a una discussione a più voci su di una grande realizzazione editoriale dedicata alla storia della Shoah. Mi si proponeva di contribuire alla riflessione comune offrendo qualche traccia di risposta alla questione delle origini remote dell´antisemitismo nella cultura del popolo italiano.
Ho accettato senza nemmeno un attimo di incertezza. Ma non perché ritenessi di avere cose importanti da dire o aspetti inediti da rivelare. Certo, il problema non è irrilevante, non riguarda solo il passato. Anche nei fenomeni storici maggiori c´è, come nei grandi fiumi, una piccola sorgente da scoprire. Chi celebra il Po recandosi alla sua sorgente può capire questa metafora (meglio, forse, di quanto non capisca le origini e i valori storici incarnati da simboli come le camicie verdi; ma questo è un altro discorso). Risalire alle sorgenti dell´antisemitismo significa cercare di capire quando, dove e perché è affiorato il primo rivolo della fiumana nera che ha travolto la cultura e la civiltà europea nell´immane abisso che va sotto il nome di Auschwitz.
E per l´Italia in particolare si tratta di fare i conti una volta per tutte, in modo aperto e senza le consuete facili auto-assoluzioni, con una grande tragedia rimossa della nostra storia. Si pone per questo nostro Paese, dove una maggioranza di destra ha appena ammesso (un po´ a denti stretti, ma tant´è) il valore fondante della Liberazione antifascista del 25 aprile 1945, il problema di capire quale deposito nascosto di violenza, quale profondo, inconsapevole ma non incolpevole fondo di intolleranza e di antisemitismo condiviso dalla maggioranza degli italiani abbia fatto accettare a un popolo generalmente ritenuto mite e civile le leggi razziali del 1938 - punto di partenza da cui si sono via via srotolati gli anelli successivi, inclusa la grande retata degli ebrei anche nella capitale del mondo cattolico, anche sotto le finestre del Vaticano. Finché quel problema resta irrisolto, ci toccherà voltare altrove lo sguardo e fingere di non vedere le manifestazioni del risorgere dell´orrore dell´antisemitismo.
Ma non confondiamo la farsa con la tragedia. C´è chi oggi approfitta dello sciagurato protagonismo di intellettuali che si fregiano ingiustamente di un titolo che indicherebbe di per sé l´esercizio dell´intelletto; e ne approfitta abilmente per proporre una specie di scambio di prigionieri. Da una parte l´intolleranza di chi chiede da sinistra il boicottaggio della Fiera internazionale del libro di Torino, dall´altra la violenza neonazista di chi uccide per il piacere di uccidere in nome dei simboli e delle idee che hanno prodotto la Shoah.
L´intolleranza ha un volto antico. Lo si può facilmente riconoscere al di là delle giustificazioni con cui si copre e delle sue mutevoli maschere ideologiche: il rogo dei libri ordinato dall´Inquisizione che distrusse più di ventimila testi ebraici nella città di Cremona a metà Cinquecento è parente stretto degli altri roghi che nella Germania nazista inaugurarono il percorso che doveva condurre ad Auschwitz. Quando si tratta di libri, non si parli di boicottaggio: si parli di elogio dell´ignoranza, di volontà di non sapere e di non ascoltare.
Come tutte le forme di stupidità, anche questa ha trovato credito e seguaci. Si è fatta incombente, ossessiva, tanto povera di argomenti quanto intimidatoria nel tono. Se ci fosse un contesto di civile confronto sarebbe facile smontarne gli argomenti. Per esempio: si può criticare la politica dello Stato di Israele così come si può criticare quella di qualsiasi Stato. E del resto questo lo fanno molto bene alcune voci che vengono proprio dalla cultura e dalla letteratura di Israele. Tuttavia, finché la minaccia che pende sullo Stato di Israele è quella della sua distruzione, l´indiscutibile dovere primario di ogni essere umano memore della storia che ha alle spalle è quello di solidarizzare col popolo che vi ha ritrovato la sua unità e ricomposto le forme della sua esistenza dopo l´immane genocidio di cui noi, gli europei, i figli della civiltà cristiana, portiamo la responsabilità storica.
Portiamo anche qualcosa di più. Molti lo scoprono solo adesso, perché la violenza, il razzismo, l´antisemitismo come figli legittimi dell´ideologia nazifascista hanno fatto un´altra vittima. Un giovane uomo è morto per le strade di una bella e civilissima città italiana. Ma quanti anni sono che negli stadi italiani, nelle piazze e per le vie e i vicoli delle nostre città apparentemente più ricche e civili l´antisemitismo più sgangherato e il razzismo più becero hanno costituito la carta di presentazione di movimenti giovanili alimentati o addirittura appoggiati da forze politiche impegnate nel gioco del potere nazionale?
Oggi le carte del gioco sono quasi tutte nelle mani di quelle forze politiche. Dopo avere vinto, ci aspettiamo che ci convincano. E questo deve avvenire a caldo, nella lettura dei sintomi della crisi italiana e nelle decisioni necessarie e urgenti con cui quei sintomi devono essere contrastati e curati. Ci aspettiamo non l´ennesimo scaricabarile, non la finzione del non sapere, non la caricatura dell´argomento di chi ha osato opporre una ipoteticamente maggiore colpevolezza delle idee dei gruppi sedicenti di sinistra rispetto all´assassinio compiuto da giovani nazifascisti. Ben altro è quello che occorre se davvero si vuole rimuovere la cupa sindrome di imbarbarimento e di regressione che – non da oggi – grava sul nostro Paese.

Dalle pagine di Torino de La REPUBBLICA del 6 maggio 2008, la cronaca di Massimo Novelli.
Nella quale si legge che il poeta Aharon Shabtai sarebbe un "dissidente" israeliano. In realtà, Shabtai non è certo un perseguitato. In Israele può esprimere liberamente le sue opinioni. E' un estremista di sinistra, non un dissidente.
Ecco il testo:

Grande è il disordine sotto il cielo del Lingotto, resta da vedere se la situazione sarà eccellente. A due giorni dall´inaugurazione della ventunesima edizione della Fiera del Libro, crescono di tono le polemiche originate dalla presenza di Israele come ospite d´onore, peraltro proprio in occasione del sessantesimo anniversario dello Stato di Tel Aviv, la cui nascita, per il popolo palestinese, è paragonata a una «catastrofe». Sono tensioni e muri contro muri che fanno temere per l´ordine pubblico, coinvolgono il mondo della cultura come quello della politica, diventano spesso il pretesto per strumentalizzazioni di vario genere.
Napolitano. Intanto, sperando che tutto fili liscio, è stato quasi definito il programma della visita che il capo dello Stato Giorgio Napolitano farà alla Fiera giovedì mattina. Il presidente della Repubblica arriverà al Lingotto verso le 10 e, dopo avere inaugurato la manifestazione alla presenza delle autorità, raggiungerà il Bookstock Village, il padiglione dedicato ai giovani, per poi ripartire subito per Roma. Tutto ciò dovrebbe consentire di aprire i battenti al pubblico verso le 11, quasi in concomitanza con la partenza di Napolitano.
Le defezioni. La prima vittima, per così dire, dell´aria pesante che si respira, è nientemeno che Beppe Grillo. L´inventore del cosiddetto Vaffa-Day ha fatto sapere che non parteciperà a Librolandia. La causa? La presunta «censura preventiva» esercitata da Rolando Picchioni ed Ernesto Ferrero, i timonieri dell´evento, che gli avevano chiesto di non tenere comizi politici. Il comico, però, non rinuncia al suo intervento: lunedì 12 maggio sul suo blog, in diretta da casa sua. Sembra destinato al fallimento, inoltre, il tentativo degli organizzatori della kermesse di offrire ai movimenti di Free Palestine alcuni spazi esterni alla Fiera.
Le polemiche e il seminario alternativo. È entrato nel vivo anche il seminario «Le democrazie occidentali e la pulizia etnica della Palestina», promosso dall´Ism-Italia presso la facoltà di Scienze politiche dell´Università. Tra i relatori il teologo islamico Tariq Ramadan, che, ai margini del convegno, ha attaccato il presidente Napolitano. Duro pure il poeta dissidente israeliano Aharon Shabtai. Ha spiegato di avere rifiutato di essere ospite della Fiera in quanto si tratta di «una manifestazione di propaganda del governo di Tel Aviv». «Io sono qui – ha continuato Shabtai - perché mi sta a cuore il futuro dei miei figli e anche per chiedere aiuto all´Europa. In Israele molte persone, più di quanto si creda, sono contro l´occupazione, ma non hanno un partito di riferimento».

Sempre da La REPUBBLICA un'intervista a uno dei capi del boicottaggio antisraeliano a Torino. Dalla quale si apprende che agli odiatori di Israele era stato offerto un padiglione all'interno della Fiera. Nella quale il paese ospite sarebbe allora stato accolto  dalla contestazione del suo diritto all'esistenza.
Ecco il testo:

Luigi Casali, coordinatore piemontese di Rdb-Cub è uno dei portavoce locali dell´Associazione «Free Palestine» che in questi mesi ha trattato con i vertici della Fiera del Libro. Ancora nelle ultime ore ha rifiutato l´offerta di allestire un padiglione per ospitare i dissidenti che contestano le posizioni del governo di Gerusalemme: «Abbiamo deciso il boicottaggio e dunque non avremmo mai potuto accettare un´offerta del genere».
Signor Casali, quando sono cominciati i contatti con i vertici della Fiera?
«A gennaio abbiamo avuto un incontro con il presidente della Fondazione, Rolando Picchioni. Nell´occasione ci aveva proposto di occupare uno stand all´interno dello spazio espositivo».
Voi che cosa avete risposto?
«Noi abbiamo riportato la proposta all´assemblea di Free Palestine. E tutti insieme abbiamo deciso di rifiutare l´offerta dei vertici della Fiera».
Perché?
«Perché l´assemblea ha preferito chiedere uno spazio fuori dai padiglioni del Lingotto. In questo modo la nostra protesta sarebbe stata più visibile a tutta la città».
Non siete stati voi ad accusare la Fiera di non dare spazio ai dissidenti palestinesi e israeliani?
«Noi abbiamo accusato la Fiera di aver invitato Israele come ospite d´onore. Per questo abbiamo deciso il boicottaggio. E certamente non avrebbe avuto senso, visto il boicottaggio, accettare di avere uno stand all´interno dei padiglioni della manifestazione».
Avete avuto altri contatti con i vertici della Fiera?
«Negli ultimi giorni ci sono stati nuovi contatti dopo che la questura ha deciso di istituire una zona rossa intorno al Lingotto».
Zona rossa?
«Come lo definisce uno spazio in cui è impedito ai cittadini di manifestare il proprio pensiero con volantini, banchetti, speakeraggi? Per me è un zona rossa e a Torino una cosa del genere non si era mai vista».
Veramente nelle zone rosse non è consentito l´accesso ai cittadini...
«Qui però, come a Genova per il G8, c´è un´area in cui sono sospesi alcuni diritti civili».
Qual è stato l´argomento dei vostri ultimi colloqui con i vertici della Fiera?
«Nei giorni scorsi ci hanno nuovamente offerto la possibilità di avere uno stand e noi abbiamo nuovamente rifiutato. È fin troppo facile cavarsela con uno spazio riservato al dissenso. Noi contestiamo l´impostazione stessa della Fiera, la scelta di invitare Israele, l´organizzazione tutta orientata a dare visibilità alle tesi del governo di Olmert. Dopo aver fatto questo, nonostante le proteste dei palestinesi a livello internazionale, non basta uno stand a invertire il segno della manifestazione. Così abbiamo preferito dire di no e organizzare il corteo nazionale di protesta che partirà sabato pomeriggio da corso Marconi angolo via Madama Cristina».

Nella cronaca di Torino La STAMPA pubblica la ragionevole presa di distanza dai bruciatori di bandiere israeliane da parte di un palestinese di Torino 

La storia narra di un sufi che capitò per caso nella regione cinese di Xinjiang.
Era l'inizio dell'Ottocento e la gente di allora era più chiusa, ma sta di fatto che il sufi, per il suo modo di fare e di essere, fu subito ben accolto dalla popolazione locale: appena metteva il naso fuori casa uno sciame di persone lo seguiva sorridendo, qualcuno gli lanciava fiori e gli chiedeva lumi.
Educato e credente come era rispose a tutti con belle parole, mai sopra le righe. Un giorno il vecchio sufi, spaventato dal suo ascendente sulla gente, decise di metterli alla prova, voleva verificare se amavano veramente la sua persona e la sua causa o solo le sue parole.
Cominciò a rispondere in malo modo e, in qualche giorno, attorno a lui ci fu il deserto.
Ecco, spero di non fare la fine del vecchio amico sufi. Spesso mi chiedo: «Si può rifiutare la solidarietà?». Non saprei perché l'aiuto reciproco è una cosa seria, una sorta di religione, un amore senza confine, è la carità per eccellenza.
C'è gente, nonostante i problemi quotidiani, che è disposta a spendere tempo e denaro per aiutare il prossimo, qualcuno addirittura si gioca un'intera vita a volte senza neanche sapere come è andata.
Per noi palestinesi la solidarietà della gente comune è ossigeno, ci dà forza per resistere e voglia di una vita normale, umana. Impossibile trovare le parole giuste per ringraziare le donne e gli uomini grazie ai quali non abbiamo perso la speranza di un futuro migliore. Poi, ci sono coloro che si lasciano prendere la mano, esagerano con le azioni, scendono nelle piazze a bruciare la bandiera dell’avversario, pronti a calpestare i suoi libri in nome dell'amore per la nostra causa.
Ecco, a loro vorrei dire qualcosa ma non riesco a trovare le parole giuste, senza ferirli, naturalmente. Potrei dire che siamo stanchi di morire arrabbiati, voi che avete imparato sulla vostra pelle la pace, piuttosto di portare lo scontro al punto del non ritorno, insegnateci la pace, un giorno dovremmo pur convivere con lo Stato di Israele.
Dopo queste parole mi auguro di non fare la fine del vecchio sufi di Xinjiang che da quel giorno venne abbandonato e nessuno seppe più niente di lui oppure, come diceva Mahmoud Darwish, «Quando le mie parole erano grano io ero terra / Quando le mie parole erano collera ero tempesta / Quando le mie parole erano roccia ero fiume / Quando le mie parole sono divenute miele / Le mosche hanno ricoperto le mie labbra».

Da Il FOGLIO del 6 maggio 2008 un editoriale di Giulio Meotti

A due giorni dal taglio del nastro per l’inizio della Fiera del libro di Torino, alla presenza del presidente Giorgio Napolitano, il direttore Ernesto Ferrero si aspetta un clima sereno, “certi che prevarrà la ragione”. Fino ad ora l’unica certezza è che Napolitano andrà a presenziare una manifestazione fallimentare sul diritto a esistere di Israele. Prima di oggi nessuno stato, per giunta l’unico nato da una decisione delle Nazioni Unite, aveva mai subito un simile fuoco ideologico. Neppure nel periodo più cupo della Guerra Fredda si è pensato di interrompere le relazioni culturali con l’Urss. Sulla bandiera d’Israele, popolo e focolare dei dispersi e dei salvati, che porta i colori bianco e azzurro della tradizione ebraica decimata nell’Europa delle fiere librarie, il ministro Giuliano Amato non ha saputo spendere parole che consentissero di sventolarla nel giorno dell’inaugurazione. Saranno liberi soltanto gli intolleranti di bruciarla a piene mani. La dirigenza di Torino doveva mostrare orgoglio nell’ospitare per il sessantesimo anniversario d’Israele i suoi scrittori “sionisti”, come Aharon Appelfeld. Assisteremo invece a una sfilata di “equidistanti”. Lo spirito di una meritevole iniziativa come “Israele tra noi”, vero significato della Fiera, l’abbraccio nella tragedia e nella libertà, doveva essere imposto all’insegna di una solidarietà esistenziale. Anche per quel popolo palestinese distrutto da anni di corruzione e faide. Qui non si tratta più di rispondere a Gianni Vattimo, che all’Infedele chiama “fascista” Fiamma Nirenstein, senza che Gad Lerner, che teme di essere confuso con i “guerrafondai israeliani”, le concedesse la possibilità di rispondere. Il caso è europeo, l’edizione parigina della Fiera è sottoposta allo stesso linciaggio. “Torino medaglia d’oro della Resistenza sventoli la bandiera d’Israele” chiede Roberto Della Seta del Partito democratico. Il problema è proprio l’uso del termine “fascista” da parte della cultura azionista dominante. Non lo ha risparmiato allo statista e generale Ariel Sharon, alle comunità ebraiche che hanno abbandonato pacificamente Gaza, all’esercito di Tsahal impegnato nello snidamento delle cellule terroristiche e a quella diaspora americana che il poeta Tom Paulin chiama “SS sioniste”. Su questo terreno fertile cadono le parole di Mahmoud Ahmadinejad, nella forma di una delegittimazione d’Israele, che respira fra la vita e la morte.
La minaccia al diritto di esistere d’Israele non è uno scherzo da accogliere con indulgenza o indifferenza. Come scrive Gerald Steinberg sul Jerusalem Post, “il più grande successo di Israele in sessant’anni di indipendenza è la sopravvivenza, essere sulla mappa come stato sovrano”. Negli ultimi due mesi abbiamo visto studenti rabbinici massacrati, 200.000 israeliani sotto la minaccia dei razzi palestinesi e una decina di kibbutzim uccisi durante le incursioni di Hamas, come i feddayin negli anni cupi del nasserismo. La fiera doveva accogliere l’eco di questa mattanza. Ma dopo tutto, ci dicono, Israele è forte. E i palestinesi sono deboli. E le minacce arabe sono a uso e consumo interno, Ahmadinejad è “un pazzo”.
Per il matematico Ronnie Fraser il boicottaggio è figlio di una “mentalità razzista”, per lui i satrapi dell’annientamento e i musicanti antisionisti come Theodorakis hanno qualcosa in comune. Non è virtuale. Paul Zinger dell’Associazione scientifica d’Israele rivela al Telegraph che la maggior parte delle settemila ricerche mandate da Israele all’estero ogni anno torna indietro. Citandone una, Oren Yiftachel dell’Università Ben Gurion se l’è vista rifiutare con una nota che lo informava che il Political Geography non accettava niente che provenisse da Israele. A Judea Pearl, il padre del giornalista del Wall Street Journal ucciso in Pakistan, l’infame boicottaggio ne ricorda un altro. “Nel 1934 Nature, principale rivista scientifica britannica, conteneva due lettere dello scienziato tedesco Johannes Stark, premio Nobel della fisica, in cui spiegava ai colleghi inglesi perché i professori ebrei dovevano essere cacciati dalle università. E’ istruttivo leggere queste lettere per ricordare”.
Mentre Israele piangeva i martiri dell’Olocausto durante Yom Ha Shoah, mentre iniziava la “Marsch der Lebenden” al suono dello shofar davanti alla scritta “Arbeit macht frei”, Hamas si rivolgeva così al mondo: “L’Olocausto fu perpetrato dagli stessi israeliani affinché gli ebrei potessero approfittare della simpatia internazionale”. Spazzatura a cui la nostra intellighenzia, da Repubblica al Guardian, non osa rispondere. Il ministro della cultura siriano, Riyad Na’san Al Agha, mentre a Torino si bruciano le bandiere israeliane, si dice “ottimista sul fatto che entro dieci anni Israele sarà arrivato alla fine”. La minaccia dello sterminio è una promessa, ma in occidente i custodi della memoria usano distinguere fra l’antisemitismo, condannato con animo pietistico fino a rendere digeribile l’Olocausto, e il veleno antisionista. A Torino è passato anche il trucco “un conto è la politica d’Israele, un conto è la cultura”. Falso e subdolo. Il figlio di David Grossman è morto difendendo Israele da Hezbollah, boicottatrice di Torino. Il capo di stato maggiore israeliano Gabi Ashkenazi, uno dei più grandi comandanti della storia ebraica, nel cratere di Auschwitz ha detto che non è scontata la sopravvivenza d’Israele e che la stella di David da simbolo del collasso giudaico è oggi il segno della rinascita. Sarebbe bello se Napolitano usasse le stesse parole a Torino, ora che i forni dell’odio sono a pieno regime.
A un solo soldato americano che ha combattuto per un esercito straniero è stata concessa la sepoltura nel cimitero dell’accademia di West Point. Si chiamava David Marcus e cadde nella guerra israeliana del 1948, dopo aver servito sotto Ben Gurion. Per questo a Torino la bandiera bianca e azzurra d’Israele è stata e sarà bruciata insieme a quella a stelle e strisce. Perché sono entrambi pegni irrinunciabili della nostra libertà.

Da Il RIFORMISTA, un articolo di Emanuele Fiano:

Mi domando da quale parte sarebbero stati i ragazzi ornati di Khefie, che l'altro giorno a Torino hanno riproposto il rito necrofilo delle bandiere di Israele bruciate. Da quale parte sarebbero stati, il giorno del voto delle Nazioni Unite in favore della spartizione della Palestina, il giorno in cui il mondo arabo decise sopra la testa dei Palestinesi per un destino di guerra continua e contro una prospettiva di convivenza che Israele e le Nazioni Unite avevano accettato. Sarebbero stati con i primi o con i secondi ? Necrofilo quel rito, come dice giustamente David Meghnagi, perché figlio di un amore per la morte che se prima, nei secoli, aveva adorato l'idea della morte degli ebrei come individui, oggi si scaglia contro Israele, male assoluto tra le nazioni. La bandiera di Israele arde nelle loro mani a prescindere, a priori delle scelte oggettive del suo governo. È un apriori assoluto il loro odio, ontologico, non necessità di odiare direttamente e fisicamente gli ebrei israeliani in carne ed ossa, sono sufficienti i loro libri, a prescindere dal loro contenuto. Sarebbero stati dalla parte di coloro che attaccarono Israele neonato.
Con una singolare coincidenza, il Parlamento italiano da poco inaugurato, non annovera nessuno, tra gli eletti, che possa anche lontanamente ricondurre a quel tessuto politico frequentato dai bruciatori di bandiere. Buon segno davvero. Ma fuori dal Parlamento questo tessuto italiano pro-boicottaggio e razzista accoglie il mondo del fondamentalismo islamico antisemita; quello amico di Ahmadinejad, degli Hezbollah e di Hamas.
E contemporaneamente, è di poche settimane fa la pubblicazione sul web, da parte di ambienti dell'estrema destra italiana, di liste di proscrizione di professori universitari ebrei, rei secondo il teorema antisemita fascista, di essersi opposti al boicottaggio dei loro colleghi israeliani dalle Università italiane, come già successo nella civilissima, si sarebbe detto un tempo, Gran Bretagna.
Un tessuto inquietante dunque, trasversale e minoritario, a cui l'intero panorama politico italiano, fatta eccezione per alcuni reperti archeologici ha reagito compatto, e che vedrà nella presenza di Giorgio Napolitano all'apertura della Fiera il suggello di questa coralità.
In verità chi vorrebbe chiudere la bocca a Israele e alla sua cultura nel sessantesimo dalla sua fondazione, non agisce per condannare questa o quella politica, ma per affrontare di petto, la questione del diritto di Israele ad esistere, ieri, oggi e domani, in quei luoghi, come stato ebraico. Chi come me, difende Israele, non deve però mai alimentare il luogo comune che la sua esistenza si giustifichi con un sentimento pre-politico, figlio del senso di colpa occidentale per la Shoah. Come vorrebbe il teorema di Ahmadinejad. No, Israele va difeso politicamente, come diritto del popolo ebraico ad una propria rinascita nazionale al pari degli altri popoli.
Israele rimane l'unica democrazia del medioriente, imperfetta certo come tutte le democrazie occidentali, ma è il paese, dove una commissione indipendente di valutazione può mandare a casa un capo di Stato Maggiore dopo una guerra, dove un cittadino arabo-israeliano che considera il sionismo una iattura, può venire eletto al Parlamento, dove una manifestazione di popolo può fermare una guerra, dove centinaia di militari riservisti e di leva, si rifiutano di servire il paese nei territori occupati nel 1967. Israele è il paese dove gli omosessuali palestinesi fuggono quando sono discriminati. Tutto questo, nel territorio immenso che comprende tutto il mondo arabo e islamico, e che circonda Israele, semplicemente non accade. Altro è dire che si contesta la politica del governo di Israele, o che per esempio la politica seguita da molti anni per quello che riguarda gli insediamenti, è una politica sbagliata, che allontana la pace, che il disimpegno unilaterale dall'occupazione della striscia di Gaza, non fu una mossa azzeccata; per l'indebolimento della leadership palestinese che ne derivò e per il potere che di conseguenza ha conquistato a Gaza il fondamentalismo militare di Hamas. Altro è dire che il problema della convivenza tra Israele e il futuro Stato palestinese non può venire da un'infinita pratica militare di azione e reazione, che procura orribili morti innocenti. Tutto questo senza mai dimenticare il pericolo di esistenza quotidiano che vive Israele, incastrato nel filotto di nemici che vanno dal leader iraniano, in odore di bomba atomica, ai suoi alleati del Sud del Libano, fino appunto alla leadership di Hamas. Che ogni notte ricorda agli abitanti di Sderot e Askelon, come siano efficienti i lanciatori di missili a Gaza.
Continuo a non immaginare quale posto avrebbero occupato nella storia i ragazzi di Torino, al tempo della proclamazione di Israele, ma so per certo che il loro posto oggi, se si provassero a bruciare una qualsiasi bandiera, in quasi tutti gli stati arabi che allora dissero no alla spartizione, sarebbe in galera senza diritto di parola.
Il posto invece di chi vuole la pace in quella regione, di chi la vuole per Israele e per i Palestinesi, una pace tra due diritti ugualmente legittimi e tra due stati, è proprio in ogni luogo dove si parla, si scrive e si ascolta. Anche con il nemico se serve.

E uno di Cinzia Leoni:

Il Riformista di giovedì 8 maggio sarà avvolto dalla bandiera d'Israele. Tutti la conoscono e qualcuno non la ama. Noi sì. Non vogliamo parlare di geopolitica ma di come nasce un simbolo. Le bandiere sono sempre frutto di un'intuizione. A volte di stratificazioni. Spesso di compromessi. Israele, un paese di appena sessant'anni, fatto da uomini e donne con il baratro alle spalle e l'urgenza di un simbolo, ha deciso tutto in una manciata di anni. Scegliere non dev'essere stato facile. Gli ebrei con le immagini ci vanno cauti. E quella sarebbe stata la bandiera del primo stato ebraico moderno. Nella Proclamazione dello Stato d'Israele del '48 il suo definitivo atto di nascita e la sua codifica: «Il Consiglio di Stato Provvisorio proclama con la presente che la bandiera dello Stato d'Israele sarà come illustrato di seguito. Avrà una lunghezza di cm. 220 e una larghezza di cm. 160. Lo sfondo sarà bianco e su di esso vi saranno due strisce blu, di una larghezza di cm. 25, per tutta la lunghezza della bandiera, a una distanza di cm. 15 sia dal bordo superiore che da quello inferiore. Nel mezzo dello sfondo bianco, fra le due strisce blu e a una pari distanza da queste, vi sarà una Stella di Davide, composta di sei strisce blu, della larghezza di cm. 5,5 che verranno a formare due triangoli equilateri, le cui basi saranno parallele alle due strisce orizzontali».
Il disegno è lo stesso della bandiera usata al primo Congresso Sionistico tenuto a Basilea nel 1897 e di quella usata sei anni prima per l'inaugurazione d'un istituto scolastico ebraico a Boston e prima ancora, a Rishon le Tzion, in uno dei villaggi agricoli fondati dai pionieri della prima "alyà".
David Wolfsohn, il leader sionista che nel 1906 successe a Theodor Herzl come presidente dell'Organizzazione Mondiale Sionista, così racconta la prima ideazione della bandiera della quale fu protagonista: «Un'idea mi colpì. Noi abbiamo una bandiera, ed è blu e bianca. Il tallit (lo scialle di preghiera) in cui ci avvolgiamo quando preghiamo: questo è il nostro simbolo. Togliamo questo tallit dalla sua custodia e srotoliamolo davanti agli occhi di Israele e agli occhi di tutte le nazioni».
Il simbolo del moderno Stato d'Israele è a tutti gli effetti la Menorah, il candelabro a sette braccia con i due rami d'ulivo e la scritta "Yisra'el". Indissolubilmente legato alla storia del popolo ebraico presente nelle fonti bibliche è il simbolo inciso nell'arco di Tito a Roma. Segno della sconfitta, dell'inizio della Diaspora e della religiosità ebraica. Ma è la stella al centro a completare l'idea di bandiera.
L'esagramma, sigillo di Salomone, o scudo di Davide, o "Magen David". La stella a sei punte, insomma, formata da due triangoli sovrapposti, non è un simbolo esclusivo ebraico. Già mandala e diagramma cosmologico nell'Induismo, nel Buddismo e nel Giainismo, simboleggia il Nara-narayana, l'equilibrio tra l'Uomo e Dio.
La Bibbia non ne fa nessuna menzione. La stella di Davide fa la sua prima apparizione nel Talmud Babilonese ma nel 1648 i giudei di Praga possono esporre una bandiera su cui campeggia la stella a sei punte su fondo rosso.
Non nasce come un simbolo esclusivamente ebraico ma finisce per diventarlo in modo radicale e unico. Sarà proprio la persecuzione nazista a fare del "Magen David" il simbolo inciso nella coscienza collettiva di questo secolo e di quelli futuri.
Di stoffa gialla, con la scritta Jude in tedesco, juif in francese, jood in olandese, cucita per legge sugli abiti di maschi e femmine sopra ai sei anni d'età, sempre bene in vista. Imposta come un marchio agli ebrei d'Europa, diventerà il simbolo degli ebrei del mondo e la bandiera del loro giovane stato.
Da sempre le bandiere sono modi per riconoscersi in battaglia. Noi, vestendo il nostro giornale con la bandiera di Israele, abbiamo deciso di riconoscerci. E soprattutto di non perdere la battaglia contro il pregiudizio e la discriminazione.

Segnaliamo anche l'interessante editoriale di Giovanni Sabatucci "Israele i pregiudizi dietro ai giudizi", pubblicato da Il MESSAGGERO e dal MATTINO

Dimitri Buffa su L'OPINIONE ,sui programmi del fronte dell'odio antisraeliano:

Dall’8 maggio gli anti semiti di sinistra trasformeranno il salone del libro di Torino in un terreno di scontro ideologico contro Israele, l’ospite d’onore della manifestazione che si invita a boicottare. Con la sponda ideologica di filosofi dal pensiero debole, anzi debolissimo, come Gianni Vattimo e con politici dall’opportunismo forte, se non fortissimo, come Marco Rizzo e lo stesso Oliviero Diliberto. Il giorno del casino dovrebbe essere il 10 come fanno pensare i messaggi di tam tam su internet nei soliti siti di Indymedia. E il protagonista dell’evento di boicottaggio è per l’appunto Indymedia Piemonte. In compenso quei quattro gatti di amici di Israele che stanno nella sinistra riformista fanno sentire disperatamente la propria voce. Come Roberto Della Seta, di religione ebraica nonché membro dell’esecutivo nazionale del Pd e senatore eletto in Piemonte. Che lancia un appello “perché l’inaugurazione della Fiera, cui sarà presente Giorgio Napolitano, sia l’occasione per un grande, collettivo grido di libertà in una città simbolo dei valori della democrazia italiana”.

“Torino medaglia d’oro della Resistenza, Torino democratica, Torino città della cultura e dell’incontro tra i popoli sventoli compatta la bandiera d’Israele - dice Della Seta - sarà la risposta migliore a chi, proponendo il boicottaggio alla rassegna, innalza le bandiere dell’intolleranza e dell’integralismo”. Tutte parole bellissime. Però Della Seta non sa, o non vuole sapere, che Napolitano farà un’apparizione fugace all’apertura del Salone, senza prendere posizione nella polemica. Inoltre il linguaggio dei volantini dei no global non lascia adito a speranze di resipiscenza collettiva. Ecco un esempio di come i “compagni” vengano chiamati alla mobilitazione: “Si avvicina la Fiera Internazionale del Libro di Torino, e con essa la mobilitazione della quale si va parlando da mesi per far sì che dall’8 al 12 maggio a Torino la questione palestinese abbia la massima visibilità, e si possa ancor più smascherare l’operazione di avallo delle politiche criminali di Israele che l’establishment filosionista continua ostinatamente a voler svolgere”.

E ancora: “Israele attua un vero e proprio politicidio - il tentativo di distruggere la soggettività sociale e politica stessa palestinese, anche con episodi di pulizia etnica - nei confronti di una popolazione smembrata, umiliata, oppressa, occupata. Ai palestinesi viene impedita ogni forma di organizzazione e di resistenza, di dissenso e di manifestazione”. Insomma l’aria che tira è questa, e ai no global arrivano le solite sponde ideologiche da partiti come quelli che componevano la Sinistra Arcobaleno, evidentemente non ancora convinti e contenti del responso delle urne che li ha cacciati dal Parlamento. Per Rizzo, Diliberto, Pecoraro e compagnia cantante, la vocazione extra parlamentare rimane una variabile indipendente. Come si diceva negli anni ’70. E tra nuove scritte brigatiste in mezza Italia e questa kermesse dell’odio in preparazione, ecco arrivare i primi problemi di violenza politica per il già disastrato ordine pubblico italiano. Per Berlusconi un grattacapo in più. E con questi ci vuole davvero tolleranza zero.

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