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L'Opinione Rassegna Stampa
29.10.2007 Chi intende realmente fermare l'Iran ? Lo si vedrà nei prossimi mesi
un articolo di David Harris, Direttore dell’American Jewish Committee

Testata: L'Opinione
Data: 29 ottobre 2007
Pagina: 0
Autore: David Harris
Titolo: «Iran, i nodi al pettine»
Da L'OPINIONE del 27 ottobre 2007,un articolo di David Harris, Direttore dell’American Jewish Committee :

Nelle oltre 70 riunioni che noi dell’AJC abbiamo avuto con i leader del mondo riuniti a New York per l’apertura dell’Assemblea Generale dell’ONU, l’Iran era in cima all’agenda. Fin dall’ultima Assemblea dello scorso anno, l’Iran ha continuato a sfidare la comunità internazionale: ignorando due risoluzioni (la n. 1737 e la n. 1747) adottate dal Consiglio di Sicurezza; dicendo all’ONU che non ha niente a che fare con la questione; aumentando il numero delle centrifughe per arricchire l’uranio; estendendo la portata dei suoi missili balistici; inasprendo la sua retorica belligerante. Pochi dei leader mondiali da noi incontrati hanno messo i fatti in discussione. Diversamente dagli anni precedenti, nessuno ha sostenuto che l’Iran è semplicemente uno stato incompreso che cerca di affermare il suo diritto a sviluppare energia nucleare a scopi pacifici. In privato, anzi, hanno espresso preoccupazioni circa le implicazioni di un Iran dotato di armi nucleari. Alcuni paesi erano ansiosi di inasprire le sanzioni il più rapidamente possibile, ritenendo che questo sia l’unico modo di far convergere sull’Iran l’impazienza crescente della comunità internazionale.

Gli Stati Uniti, in particolare, hanno fatto appello alle singole nazioni - e all’Unione Europea – affinché vadano oltre le decisioni del Consiglio di Sicurezza giuridicamente implementabili e presentino misure punitive supplementari. Francia e Gran Bretagna condividono largamente l’approccio americano. Alcuni altri paesi, tuttavia, avevano studiato l’argomento. Molti hanno asserito che fosse più importante per il mondo parlare con una sola voce attraverso il Consiglio di Sicurezza, anche se ciò voleva dire annacquare le misure contro l’Iran per accontentare le nazioni meno preoccupate, principalmente Russia e Cina. Altri hanno argomentato che quelle sanzioni economiche avevano scarse probabilità di costringere il governo iraniano a ripensare il suo programma nucleare, data la determinazione di Teheran ad attraversare la soglia nucleare, succeda quel che succeda.

Altri hanno protestato che, dati i loro estesi legami con l’Iran, era a loro che si chiedeva di prendere sulle spalle la gran parte del costo delle sanzioni, mentre altri paesi erano pronti ad approfittare dei posti liberi creati dal loro ritiro. Al riguardo, un ministro degli esteri ci ha mostrato una tabella che indica che il suo paese stava riducendo rapidamente il commercio bilaterale con l’Iran, mentre altre nazioni, incluso la Cina e gli Emirati Arabi Uniti, stavano altrettanto rapidamente aumentando i loro legami commerciali e bancari. Qualcuno ha suggerito che l’unica soluzione realistica fosse un accordo diretto Iran - Stati Uniti, siccome questo è quello che sta cercando Teheran. “Perché, dunque, adottare sanzioni economiche che danneggiano le esportazioni, aumentano la disoccupazione e creano attrito non necessario con l’Iran, quando la soluzione è altrove?” E quale sarebbe la natura di tale accordo Stati Uniti - Iran?

Secondo questi leader, in sintesi, Washington dovrebbe offrire all’Iran garanzia di sicurezza e riconoscimento del suo ruolo regionale in cambio della fine del programma di arricchimento nucleare iraniano. Altri hanno affermato che, in fondo, essi credono che gli Stati Uniti eserciteranno la scelta militare, “risolvendo“ così il problema, dunque perché fare ora altro che il minimo indispensabile? Altri ancora hanno detto che un altro giro di colloqui diretti dell’Unione Europea con l’Iran potrebbero riuscire nel gioco, anche se ciò significherebbe dare a Teheran altro tempo ancora, oltre ai quattro anni che già ha ottenuto da quando ebbero inizio i negoziati. C’è poi chi dubita che gli americani possano risolvere la questione e vedono il problema a partire dalla fine: loro non vogliono trovarsi sul lato sbagliato con l’Iran se a Washington, l’amministrazione Bush – imbrigliata dagli impegni in Iraq e Afghanistan e sfidata da un elettorato restio – opterà per non fare nulla. Altri, infine, vorrebbero rivedere l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica di Vienna (AIEA) riprendere l’incartamento sull’Iran, così come il suo direttore, il Dott. Mohamed El Baradei, ha cercato di fare, ignorando il fatto che una volta che il Consiglio di Sicurezza viene coinvolto, come è accaduto, questo genio non si può, e non si potrà, rimettere nella bottiglia.

Allora cosa succede ora? L’apparato internazionale di misure diplomatiche, politiche ed economiche è lungi dall’essere esausto. Molto ancora può essere fatto. Ma dipende, soprattutto, dalla volontà politica e dal riconoscimento che il sacrificio a breve termine di quelli che riducono i loro collegamenti con l’Iran potrebbe produrre un guadagno globale a lungo termine. Il segretario di Stato Condoleezza Rice, e il segretario al Tesoro, Henry Paulson, hanno annunciato il 25 ottobre nuove sanzioni contro l’Iran. Colpiranno il dipartimento centrale delle Guardie della rivoluzione (in particolare, il corpo al-Quds); otto individui ritenuti colpevoli di aver favorito il traffico di materiale nucleare e di aver fomentato la guerriglia in Iraq; alcune istituzioni finanziare chiave, che dovrebbero essere tagliate fuori dai rapporti finanziari con entità americane, ma anche, come ha chiesto Paulson, con gli altri Paesi “contrari al terrorismo internazionale”. Nelle prossime settimane, avranno luogo molti eventi. Primo, il Ministro degli esteri francese, Bernard Kouchner, ha fatto appello alle altre 26 nazioni europee per considerare le misure dell’UE contro l’Iran, e vuole discutere la proposta durante il prossimo incontro mensile dei ministri degli esteri.

Se l’Unione Europea agisse all’unisono, il messaggio potrebbe essere potente. Insieme, l’UE costituisce quasi il 40 percento del commercio estero dell’Iran, offrendogli annualmente miliardi di dollari in garanzie di credito all’esportazione, prodotti ad alta tecnologia e parti di ricambio non reperibili facilmente altrove, oltre ad essere uno dei principali investitori nel settore dell’energia in Iran. La chiave sta nel trovare un terreno comune fra le più grandi economie d’Europa, incluso Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna. Secondo, solo alcune settimane dopo l’incontro dell’UE, avrà luogo l’Assemblea generale dell’INTERPOL a Marrakech, in Marocco. Sull’agenda di quest’anno vi è una questione chiave, che riguarda l’avallo della decisione di marzo del comitato direttivo dell’INTERPOL di emanare ordini di arresto per cinque iraniani ed un libanese. Questi sono stati accusati dal governo argentino, dopo una lunga ed approfondita investigazione, in relazione all’attacco del 1994 alla sede del centro culturale della comunità ebraica a Buenos Aires. Ottantacinque persone furono uccise nell’assalto terrorista. L’Iran ha lanciato un’offensiva diplomatica per sfidare la decisione. Le 186 nazioni che aderiscono all’INTERPOL decideranno la questione. Ogni paese ha un voto. E’ richiesta la maggioranza semplice.

Terzo, l’attenzione si sposta poi di nuovo a New York. Il P-5 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) e la Germania ritornano dopo alcune settimane di considerazioni su una terza risoluzione di sanzioni economiche, in attesa dei risultati di ulteriori contatti tra l’AIEA e l’Iran e, non meno importante, tra Javier Solana, il capo della politica estera dell’UE, e l’Iran. Ma, in base agli esiti di questi colloqui, il P-5, per loro accordo, è deciso ad adottare una nuova risoluzione. Terrà la cornice di consenso costruita il 28 settembre scorso? Tutti gli occhi sono su Mosca e Pechino, che di fatto finora hanno ostacolato il percorso verso le sanzioni economiche. E quarto, singole nazioni e imprese potrebbero intraprendere passi supplementari. È probabile che includano: l’ulteriore riduzione delle garanzie di credito all’esportazione - una forma di assicurazione di rischio governativa – da parte di nazioni come Germania e Italia; più banche di primaria importanza seguiranno l’esempio di HSBC, UBS, Credit Suisse, Deutsche Bank, Dresdner ed altri nel tirarsi fuori dall’Iran; grandi compagnie, rispondendo alle esortazioni di governi o azionisti e temendo danni di reputazione, fermeranno il consueto business con l’Iran.

Un ministro degli esteri europeo argomentò che un inasprimento delle sanzioni avrebbe condotto inevitabilmente l’Iran alla guerra. Invece, il ministro esortava ad intensificare il dialogo con Teheran. Il dialogo come strumento di diplomazia ha avuto il suo posto, chiaramente. Ma dopo quattro anni di discorsi con Teheran, incluse le offerte generose da parte di Europa, Stati Uniti e Russia, l’unico autentico progresso ottenuto sta nell’avanzamento del programma nucleare iraniano. La nostra risposta al ministro è stata che è proprio l’irrigidimento delle sanzioni che potrebbe distogliere da un confronto militare con l’Iran. Spedendo un chiaro messaggio all’Iran che la sua attuale politica non è libera da costi, abbiamo un’opportunità reale di cambiare i fattori di calcolo dei principali decision-makers del paese. Ma “dialogo” senza l’inasprimento della pressione diplomatica ed economica diviene una formula di sicuro successo per la scelta rigida presentata al mondo dal Presidente francese Sarkozy: o bombardare l’Iran o una bomba iraniana. È una scelta che pochi dovrebbero gradire. I prossimi tre mesi riveleranno in maniera ineluttabile chi è preparato a fronteggiare la minaccia iraniana e chi non lo è.

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