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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Piotr Rawicz - Il sangue della Shoah 19/06/2006

Il sangue della Shoah – Piotr Rawicz
Casa Editrice: Giuntina


“Forgiato in un metallo scuro, magrissimo e dritto”, il Testimone siede a
disagio in un caffè di Boulevard Montparnasse. E racconta, socchiudendo
appena le “palpebre oblique, eccezionalmente oblique”. A raccogliere le sue
parole vi è il silenzio, a tratti infastidito, del Redattore. A lui
spetterà poi il compito d’imbastire il libro, cucendo tortuosi labirinti di
tragedia assieme a frammenti d’inattuale elegia.
Pubblicato nel 1961 in Francia, e finora mai tradotto in italiano, “Il
sangue del cielo” di Piotr Rawicz è un riuscito esperimento narrativo, che
mescola la crudezza di un’autobiografia attraverso la Shoah ai toni del
romanzo decostruttivista. Quando apparve, la critica lo proclamò subito
capolavoro espressivo, esercizio provocatorio al crocevia tra invenzione
surreale e ricordo impietoso.
Rawicz era nato nel 1919 a Leopoli, in Ucraina, e aveva attraversato
l’ordalia della persecuzione tedesca. Catturato dai nazisti nel 1942 e
torturato, era riuscito a nascondere la propria origine ebraica ed era così
stato internato ad Auschwitz “solo”per motivi politici, come nazionalista
ucraino. Alla fine del conflitto era giunto a Parigi assieme alla moglie e
lì – nel suo francese perfetto ma straniato – aveva rielaborato la propria
epopea negativa, scrivendo innanzitutto come reazione alla “solitudine
crudele” della capitale francese, e per guarire almeno in parte dalla
malattia dello sradicamento.
“Il sangue del cielo”descrive le fasi finali della liquidazione di un
ghetto dell’Europa orientale e poi la fuga di due amanti attraverso i
territori occupati dai nazisti. I tedeschi non sono quasi mai inquadrati
direttamente, ma le loro azioni appaiono di riflesso nel tracollo delle
vittime, della natura  e degli stessi paesaggi urbani, che sembrano
accartocciarsi sotto il peso della catastrofe. Questo senso panico del
lutto è espresso con frasi di ritmo diseguale, impastate d’invenzioni
linguistiche, di poesie, e di una fatale attrazione per le metafore di
disfacimento e decomposizione.
Pur nel sovraccarico di allegorie, Rawicz riesce a giocare abilmente con le
pretese di un’arte dello scrivere che vorrebbe mettere ordine nello
scandalo di quanto accaduto. Si rifugia così nell’antico galateo di una
civiltà ormai in frantumi, in cui i protagonisti si muovono come comparse
in un teatro senza copione. Non vi è più alcun Drammaturgo in cielo,
giacchè nell’universo rappresentato da Rawicz, Dio stesso si schianta nella
rovina, e anche la voce narrante può solo “coprire, annullare”
quest’assenza, con parole”che brulicano come insetti neri”.
Eppure il libro è attraversato da un’eccentrica forma di misticismo,
ispirato alle letture orientalistiche dell’autore, che fu anche esperto
sanscritista. Così l’elenco delle afflizioni patite dai protagonisti ebrei
si trasforma quasi in un “catalogo dei vuoti” di tono induista, una sorta
di Upanishad della Shoah che enuncia il cordoglio del reale.


Giulio Busi
Il Sole 24 Ore


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