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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Informazione Corretta Rassegna Stampa
04.10.2025 L’acca di Hamas
Commento di Daniele Scalise

Testata: Informazione Corretta
Data: 04 ottobre 2025
Pagina: 1
Autore: Daniele Scalise
Titolo: «L’acca di Hamas»

L’acca di Hamas
Commento di Daniele Scalise 

 
Daniele Scalise

Ogni volta che Hamas commette un crimine, i media omettono il soggetto. Quindi quando Hamas compie una strage, nel Tg sentiamo "sono morte decine di persone". Così si cancella anche la colpa dei terroristi, assieme al loro nome.

Partiamo da un lancio e da un titolo. Il lancio è quello di un’agenzia: “Nell’area X si contano numerose vittime.” Il titolo recita: “Tragedia a Gaza.” Una voce di un giornalista televisivo ripete: “Sono morte decine di persone.” La domanda che non arriva mai è la più semplice: chi le ha uccise? Il soggetto si dilegua. Al suo posto, un’aria di circostanza: “vittime”, “tragedia”, “escalation”, “pioggia di razzi”, “scontri”. Una lingua di gomma che rimbalza su tutto e non tocca niente. Basta un acca: togli “Hamas ha ucciso” e metti “ci sono state uccisioni”. L’agente evapora, il crimine si impersonalizza, la responsabilità si confonde. Morale: senza soggetto nessuno risponde.

            Il trucco è del resto antico. La grammatica offre due scappatoie, comode e rispettabili: il passivo e l’astrazione. Con il passivo, l’azione resta, l’autore si fa opzionale: “sono stati lanciati razzi” (da chi?); “ostaggi trattenuti per mesi” (da chi?); “civili colpiti” (da chi?). Con i sostantivi astratti, l’azione si trasforma in un fenomeno naturale: “violenza”, “tensione”, “detenzione”, “operazioni”, “ostilità”. Le parole si mettono il camice del neutro e si dichiarano innocenti. Il risultato è una cronaca che suona prudente ma è solo pavida: racconta gli effetti e censura le cause.

            La postura del bravo, del probo, del giornalista che si pretende ‘obiettivo’, qui recita così: “Non stiamo assolvendo nessuno, stiamo solo descrivendo i fatti con equilibrio.” Ma l’equilibrio non è neutralizzare i soggetti: è nominarli tutti, ciascuno per la parte di responsabilità. “Hamas ha rapito e torturato ostaggi” non è propaganda, è un dato. “Hamas ha lanciato razzi su aree civili israeliane” non è militanza, è descrizione attiva. Il bravo invece scivola nel lessico salvavita: “ostilità”, “spirale”, “fiammate”. Come se la storia fosse un clima e i morti fossero una perturbazione.

            Ci sono poi parole che, da sole, spengono la scena. “Tragedia” annuncia il dolore, non il colpevole. “Ciclo di violenze” suggerisce una necessità meccanica, non una scelta. “Militanti” attenua “terroristi”. “Brigate” suona militare, quindi quasi regolare. “Ala politica” introduce una rispettabilità d’ufficio. “Esecuzioni” diventa “eventi mortali”. “Linciaggio” diventa “disordini”. “Pogrom” sparisce in favore di “scontri”. Ogni sostituzione porta via un grammo di responsabilità. A forza di sfumare, il quadro non è più cupo: è vuoto.

            Chi legge una lingua senza soggetti impara una cosa sola: non c’è nessuno a cui chiedere conto. Se nulla ha un autore, tutto diventa “contesto”. E il contesto, definizione comoda, assolve chiunque abbastanza rapido da rifugiarsi nella nebbia. È un effetto educativo potente: abitua a credere che la violenza accada. Non che venga decisa, preparata, eseguita. Quando poi si pretende giustizia, appare fuori luogo: giustizia contro chi, se i verbi non hanno più attori?

            Nel caso degli sgozzatori di Gaza, l’acca pesa più del solito. Dire “Hamas ha ucciso” significa accettare tre verità grammaticali. Primo: Hamas è un soggetto, quindi un agente. Secondo: l’azione è voluta, non subita. Terzo: se c’è un agente, c’è responsabilità. E responsabilità chiama conseguenze. Ecco perché la lingua del bravo preferisce “vittime a Gaza” invece di “Hamas usa i civili come scudi”; “ostilità riprese” invece di “Hamas ha violato la tregua”; “prigionieri” invece di “ostaggi rapiti e seviziati”. L’acca è un dito puntato. Molti preferiscono tenerlo in tasca.

            La neutralità non chiede di attenuare i nomi, chiede di distribuirli con equità. Se Israele colpisce un obiettivo civile, si scrive “Israele ha colpito un obiettivo civile”. Se Hamas massacra famiglie, si scrive “Hamas ha massacrato famiglie”. Se il Jihad Islamico lancia razzi, si scrive “il Jihad Islamico lancia razzi”. Equità non significa “equivalenza”. E soprattutto non significa eliminare i soggetti per non dispiacere a nessuno. Quando i giornali accettano la lingua passiva come riflesso, non diventano neutrali: diventano complici della confusione.

            C’è poi l’uso cosmetico del “ma”: “Condanniamo gli attacchi, ma va ricordato il contesto.” Il contesto serve a capire, non a dissolvere. Se diventa un connettore di assoluzione, il discorso non è più spiegazione: è giustificazione. E la giustificazione, in politica, è una forma di complicità elegante. Il bravo non se ne accorge, o finge. Intanto il pubblico impara che ogni colpa ha una scusa pronta, basta aprire la dispensa del “però”.

            Ovviamente non è solo un problema di stile, ma una questione di responsabilità pubblica. La democrazia si regge su parole che dicono chi fa cosa e togliere il soggetto è togliere la possibilità di giudicare. È educare all’irresponsabilità. Nel lessico del bravo, il male accade. Nel mondo reale, il male si fa e chi lo fa ha un nome.

            L’acca di Hamas è la prova del nove. Se in un testo su civili uccisi, ostaggi torturati, razzi su case, quell’acca non compare mai, non è perché non serva ma, al contrario, è perché serve troppo. Serve a rimettere l’agente dove deve stare, al centro della frase, e quindi della responsabilità. La lingua, in fondo, è un atto politico elementare: scegliere il soggetto giusto e tenerlo lì, fermo, davanti agli occhi. Tutto il resto è nebbia. E nella nebbia, guarda caso, i bravi si aggirano felici e compiaciuti.


takinut3@gmail.com

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