Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Due pagine della Stampa, una accettabile, l'altra scatenata contro Netanyahu Cronaca di Francesca Del Vecchio
Testata: La Stampa Data: 12 settembre 2025 Pagina: 9 Autore: Francesca Del Vecchio Titolo: «Io, giornalista cacciata dalla Flotilla solo perché facevo il mio mestiere»
Riprendiamo dalla STAMPA del 12/09/2025, a pag. 9, la cronca di Francesca Del Vecchio, dal titolo: "Io, giornalista cacciata dalla Flotilla solo perché facevo il mio mestiere".
Francesca Del Vecchio
Nel mondo pro-Pal c'è sempre qualcuno più puro che ti epura. E così anche La Stampa, che dedica quotidiane paginate contro Israele (vedi a sinistra, dove non riconoscono neppure Gerusalemme come capitale di Israele, ma parlano di condanna "a Tel Aviv"), viene considerata troppo ostile dalla Global Sumud Flotilla diretta a Gaza. La sua inviata, Francesca Del Vecchio è stata espulsa e non potrà fare più la cronaca dalla flotta di barche di Greta Thunberg. Il suo reportage è comunque agghiacciante: emerge il quadro di un piccolo regime totalitario, con un'organizzazione militarizzata in cui gli attivisti ti dicono cosa puoi guardare o no, cosa puoi fotografare o no, cosa puoi dire o no. E ti ritirano anche il passaporto. Prendete con le molle tutte le successive cronache sulla Global Sumud Flotilla, perché saranno scritte solo dai giornalisti che loro approvano, quindi rifletteranno solo la loro propaganda, non la realtà.
«Giornalista pericolosa». È un'etichetta che non pensavo mi si potesse attribuire, quando ho accettato di raccontare l'avventura della Global Sumud Flotilla verso Gaza. Ma è ciò che è successo e che ha comportato la mia espulsione dalla missione.
Riavvolgiamo il nastro. Ad agosto vengo invitata da un'attivista, conosciuta mesi prima, a partecipare come giornalista alla spedizione verso Gaza. Ne parlo con la portavoce italiana, Maria Elena Delia, che mi dice: «Ne saremmo felici». L'obiettivo è raccontare la missione, luci e ombre. Provare a portare aiuti a Gaza è ammirevole, anzi doveroso. Ma è doveroso anche raccontare la verità.
Torno ai fatti: arrivo a Catania, luogo di partenza della spedizione italiana e del training per i partecipanti. Il mio giornale, La Stampa, apre una rubrica quotidiana sul sito, a mia firma: un diario di bordo, che comincia dalle attività di preparazione. Nel raccontare, parto dal "manuale" che ci hanno inviato e mi soffermo sul tema della "non violenza".
All'arrivo nel luogo del training, viene chiesto a tutti di consegnare i cellulari. Nei giorni successivi verrà chiesto anche di lasciarsi perquisire. Motivi di sicurezza, dicono. Il corso, tuttavia, non inizierà prima di un'ora e mezza e chiedo se sia possibile mettersi a scrivere restando fuori ed entrando al termine del lavoro. La risposta è no.
Quando il corso comincia, dentro ci sono altri giornalisti (estranei agli equipaggi) con tanto di macchine fotografiche e telecamere. Al termine della sessione – che comprende la simulazione di un abbordaggio e di un arresto – chiedo se ci siano contrarietà al fatto di scriverne. Mi viene detto di no, purché non entri nei dettagli. È accettabile. È la cronaca del primo giorno, con qualche vago riferimento di contesto. Ometto – perché non avrebbe aggiunto nulla – che gli organizzatori abbiano sorpreso un attivista con un sacchetto di McDonald's e abbiano chiesto ai testimoni di cancellare eventuali video. A posteriori, però, mi sembra indicativo del clima generale.
Il diario che scrivo dei giorni successivi è meno denso: nessuno vuole o può parlare, nessuno può avvicinarsi alle imbarcazioni, nemmeno accompagnato. La sfiducia è palpabile. L'unica cosa che si possa riportare sono i requisiti per la convivenza in barca.
Nel frattempo, la partenza viene rimandata. Chiedo di assistere a un turno di sorveglianza notturna alla flotta, con la promessa di scriverne solo dopo la partenza, una volta cessate le ragioni di sicurezza. Dopo un sì poco convinto, si passa alla latitanza: nessuno risponde più.
Dopo pochi giorni, la mia presenza viene messa in discussione: me ne accorgo perché vengo rimossa dalle chat di gruppo. Dopo qualche insistenza, mi chiama un membro del "Direttivo", Simone. Mi comunica la decisione di mandarmi via per aver rivelato «informazioni sensibili» che avrebbero potuto minare la sicurezza della missione. Sono incredula. Ottengo di riparlarne a voce con Maria Elena Delia, il giorno dopo, mentre decine di altri cronisti (estranei alla missione) al porto filmano le barche, i kit di Starlink non ancora installati.
Spiego le esigenze della mia professione. Mi dico consapevole che occorra cautela, ma insisto anche sul fatto che si debba trovare una sintesi. Concordiamo che, da quel momento in poi, ci sarà più dialogo. Penso che la crisi sia rientrata e mi avvio alla prima esercitazione in mare.
Poco dopo, mi rincorre un altro attivista, Giuliano. Con lui c'è Simone e una ragazza del Direttivo che non si presenta e dice: «Non possiamo fidarci di te». I toni sono accesi. «Sei una giornalista pericolosa, hai detto al mondo dove si tiene il nostro corso». Le sfugge un dettaglio: il luogo del training era noto a molti esterni all'organizzazione, a colleghi, a fotografi. Provo a spiegare, ancora, il valore del racconto giornalistico. Ma hanno già preso la loro decisione. «Sei pericolosa. Il tuo giornale ci ricopre tutti i giorni di m***a».
Ecco il punto. Capisco che potrei parlare per ore: non otterrei nulla. Mi restituiscono il passaporto – ritirato, come farebbe un organo di polizia –, mi cacciano letteralmente fuori dal porto, informandomi che non avrei potuto prendere l'autobus di ritorno insieme con gli altri. Sono le due del pomeriggio: resto sotto al sole per ore, senza sapere come rientrare a Catania. Mi tornano in mente le parole di Vittorio Arrigoni: «Restiamo umani».
Passo tutta la sera a fare autocritica. Rileggo i miei pezzi. Inizio a convincermi che la questione è solo una: il mio lavoro è stato considerato "non allineato". Quando ho accettato di salire a bordo della Flotilla, speravo di poter fare quello che la mia professione comporta: osservare e riferire. Senza addomesticare. Né farsi addomesticare. Non è stato possibile. Eppure, per me resta chiaro che quanto è successo non scalfisce la bontà della missione, l'intento umanitario. Essere espulsa, però, mi ha ricordato una cosa, che riguarda il ruolo del giornalismo: quando uno sguardo viene allontanato, perché non lo si considera "utile allo scopo", si perde un'occasione. Quella di capire, un po' meglio, il mondo che ci circonda.
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