Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
C’è del metodo nella follia di Trump Analisi di Siegmund Ginzberg
Testata: Il Foglio Data: 07 settembre 2025 Pagina: VIII Autore: Siegmund Ginzberg Titolo: «C'è del metodo nella follia di Trump: spiazzare gli avversari»
Riprendiamo dal FOGLIO del 07/12/2024, a pag. VIII, con il titolo "C'è del metodo nella follia di Trump: spiazzare gli avversari" l'analisi di Siegmund Ginzberg.
Siegmund Ginzberg
Donald Trump: follia, ma con metodo. E non è il primo caso nella storia. Lunghissima analisi di Siegmund Ginzberg su come la follia di re e capi di Stato nel passato è stata sfruttata come un vantaggio strategico, per confondere gli avversari e spiazzarli al momento buono
Pazzi saranno anche, ma c’è metodo nella loro follia. “ Though this be madness, yet there is method in’t”, per dirla col cortigiano Polonio a proposito delle bizzarrie del principe di Danimarca ( Amleto, Atto II, scena II). Donald Trump dice e fa cose da pazzo. Ma se è pazzo c’è certamente un metodo nella sua pazzia. Nancy Pelosi, all’epoca presidente democratico della Camera Usa, lo aveva definito, fuori dai denti “ deranged, unhinged, dangerous”, disturbato, squilibrato, pericoloso. La si è vista singhiozzare alla sua conferma, per la seconda volta, a presidente. Ne aveva ben donde. Aveva sottovalutato il metodo.
Il metodo di Trump è l’imprevedibilità, l’incertezza assoluta su quel che dirà e farà. E’ capace di dire una cosa e contraddirsi un momento dopo. E’ il suo punto di forza. Anche, anzi soprattutto, nei rapporti internazionali. Spiazza tutti fingendosi imprevedibile, matto, esattamente come fa Amleto nella tragedia di Shakespeare. Un suo predecessore, Richard Nixon il metodo lo teorizzava. Aveva addirittura coniato un termine per definirlo: The Madman Theory. “E’ la teoria del pazzo. Voglio che i nordvietnamiti credano che sono giunto al punto di fare qualsiasi cosa per finire la guerra. Gli faremo arrivare voce che ‘Nixon è ossessionato dal comunismo. Non riusciamo a frenarlo quando è arrabbiato – e lui ha la mano sul bottone nucleare’. E vedrete che nel giro di un paio di giorni Ho Chi Minh in persona verrà a Parigi implorando la pace”. A riferire il commento di Nixon è Robert (Bob) Haldeman, il suo capo di gabinetto. Pensava di vincere facendo credere ai nemici di essere tanto mentalmente instabile da buttare l’atomica su Hanoi. Effettivamente i vietnamiti si sedettero al tavolo del negoziato a Parigi, e quella guerra finì. Anche se le cose poi non andarono proprio come gli americani avrebbero desiderato.
“Abbiamo bisogno di imprevedibilità… Non voglio che sappiano quel che ho in mente” è il modo in cui la mise Trump in un’intervista al New York Times nel marzo 2016. Anche a lui ha sempre fatto comodo che lo credessero pazzo e capace di qualsiasi cosa. In un memorabile incontro con i giornalisti al Gridirion Club Dinner, il tradizionale appuntamento annuale a colpi di battute di spirito annunciò che si apprestava a incontrare Kim Jong Un, il leader nordcoreano che poco prima aveva definito “pazzo”, aggiungendo che “per quanto riguarda il rischio di trattare con un pazzo, il problema è suo, non mio”. Si può dire tutto, ma non che non abbia senso dell’humour.
Biden chiamava Putin “assassino”. Trump non l’ha mai definito né assassino, né dittatore, tanto meno “pazzo”. Di tanto in tanto lo chiama “amico”. Su chi dei due sia più imprevedibile, è una bella gara. Moshè Dayan, il ministro della Difesa di Golda Meir, sostenne che il miglior deterrente per Israele fosse farsi credere un “cane pazzo”. Ma mordere all’impazzata ha le sue controindicazioni: se non sei abbastanza cattivo può darsi che non ti credano; se lo sei troppo finisci col metterti contro il mondo intero.
E’ una vecchia storia. “Come egli è cosa sapientissima simulare in tempo la pazzia” è intitolato il capitolo 2 del Libro Terzo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Machiavelli. I pazzi non sono sempre quel che sembrano. E chi sembra pazzo non sempre lo è. Come spiega in modo mirabile Comma 22, il classico romanzo di Joseph Heller (del 1961). Il comma 21 del regolamento per gli aviatori Usa suona: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo” e il comma 22: “Chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. Si tratta di una norma regolamentare che, in realtà, non è mai esistita. Ma la dice più lunga che se fosse vera.
Hitler si era avvantaggiato del fatto che a Londra lo ritenessero tanto pazzo da scatenare la guerra se non si andava incontro alle sue pretese sui territori abitati dalla minoranza di lingua tedesca dei Sudeti in Cecoslovacchia. Il premier britannico Neville Chamberlain già nel 1936 aveva dato a Hitler del “dittatore pazzo”. Nel 1938, aveva lamentato che “il fato di milioni dipendesse da un solo uomo, e per giunta mezzo pazzo”. Il suo ministro degli Esteri,
Lord Halifax, diceva ai suoi interlocutori americani nel 1938 che “Hitler è pazzo”. L’ambasciatore in Usa, Neville Henderson, scriveva che “spinto dalla megalomania potrebbe avere superato la soglia della follia […] Il suo senso dei valori è così anormale che ogni argomento razionale con lui non funziona […] Sono fantastici la sua capacità di auto-inganno e la sua incapacità di accettare qualsiasi argomento che non coincida con le sue posizioni”. A Monaco gli cedettero perché erano convinti che fosse pazzo. Non è chiaro fino a che punto Chamberlain prendesse per buone le solenni rassicurazioni di Hitler che i Sudeti “erano l’ultima delle sue mire territoriali in Europa e non aveva alcun desiderio di annettere popoli di razze diverse da quella germanica”. Fu però questo l’argomento con cui cercò di vendere il compromesso (a dire il vero la svendita della Cecoslovacchia) raggiunto alla conferenza di Monaco. Chamberlain lo definì argomento “razzista”. Per lui era una garanzia. Non tennero alcun conto del fatto che modificare i confini avrebbe inglobato, reso inutili le linee di difesa, la Maginot ceca che impensieriva i generali di Hitler.
Chamberlain, come gli altri leader occidentali, desiderava sinceramente la pace. Al punto però da cadere nella trappola del wishful thinking. Temevano che Hitler fosse tanto pazzo, tanto incrollabile sulle sue rivendicazioni territoriali, da scatenare la guerra. In quel momento l’Inghilterra era impreparata. E la Francia pure. “Se non abbiamo aviazione militare siamo fottuti ( foutus)”, la lapidaria conclusione di Jean Monnet inviato da Daladier in America. L’opinione pubblica degli Stati Uniti di Roosevelt vedeva come il fumo negli occhi ogni idea di mandare di nuovo i propri boys in una guerra in Europa. Nemmeno prese in considerazione l’invio di forze di interposizione.
Il pazzo agli occhi del mondo era Woodrow Wilson. Sigmund Freud dedicò uno studio, rimasto a lungo inedito, al suo “caso psichiatrico”. Gli rimproveravano di aver scoperchiato il vaso di Pandora con la sua fisima dell’“autodeterminazione delle nazioni”. Il paradosso è che l’altro argomento con cui Chamberlain provò a convincere i suoi ministri ad approvare l’appeasement di Monaco fu che nei suoi incontri con Hitler non aveva notato “alcun segno di pazzia”. Altri tempi, altre circostanze. Ma non dice bene sulla convinzione apparentemente incrollabile di Trump che Putin voglia finirla con la guerra in Ucraina e poter fare un deal proficuo con lui.
Un altro caso: Krusciov minacciò di bloccare l’accesso degli occidentali a Berlino ovest, incastonata in pieno Germania comunista. Avrebbe potuto scatenare la terza guerra mondiale. C’era chi era preoccupato dell’instabilità psichica del leader sovietico. “[Krusciov] non è uno che calcola freddamente, ma reagisce emotivamente. Spesso è visibilmente ubriaco, e ci si può aspettare che commetta atti irrazionali. I precedenti leader sovietici erano stati per lo più dei giocatori di scacchi, Krusciov invece appare emotivo e perfettamente capace di agire senza valutare le conseguenze delle sue
azioni”. Così il segretario di Stato John Foster Dulles a una riunione del Consiglio di sicurezza del giugno 1956. Evidentemente si sentivano più a loro agio con la prevedibilità e la freddezza calcolatrice di Stalin. Erano convinti che Krusciov fosse “imprevedibile e spericolato”, “impulsivo e instabile”, “emotivo e impetuoso”, “incostante e imprevedibile”. La vecchia volpe Nixon, allora vicepresidente di Eisenhower, fu il solo a sostenere che l’“imprevedibilità” e l’instabilità fossero “finti”. Aveva ragione lui (così come avrebbe avuto ragione, più tardi, nel ritenere che ci si potesse mettere d’accordo con Mao Zedong). I britannici erano pronti a mollare. Eisenhower invece riteneva di non poter fare marcia indietro senza gravi danni alla reputazione e alla credibilità internazionale dell’America. L’ultimatum su Berlino venne lasciato cadere da Mosca senza conseguenze. Che Krusciov non fosse per niente pazzo fu poi confermato nella successiva crisi dei missili a Cuba.
L’intelligence Usa e quella britannica avevano studiato la psicologia di Saddam Hussein. Avevano concluso che avevano a che fare con “un giudizioso calcolatore politico, per nulla irrazionale […]. Benché le sue azioni talvolta appaiano talvolta agli occidentali ottuse e spericolate, Saddam è un protagonista razionale, che sceglie il corso delle proprie azioni per quelle che egli considera buone ragioni”. In particolare, “la volontà di controllare il proprio stato e di ergersi a campione del mondo arabo”. Il British Defense Intelligence Staff (Dis) lo diceva esaltato da figure come Nabucodonsor (il Nabucco di Verdi), il re babilonese che aveva conquistato Gerusalemme nel 586 a.C., e il Saladino, che la recuperò dai crociati nel 1187. Ma a fini interni più che internazionali, di costruzione del proprio culto della personalità, di rafforzamento del proprio potere. Un po’ come Putin che continua a far riferimento, per giustificare la guerra in
Ucraina, al Racconto dei tempi passati, attribuito a un monaco del XII secolo, che peraltro pare non fosse nemmeno russo, ma scandinavo. O come Netanyahu che trova giustificazioni bibliche alla conquista di Gaza. E’ un altro caso in cui c’è da chiedersi se ci sia o ci faccia. Tra parentesi, la Bibbia è piena di re pazzi o che fingono di esserlo.
Ma poi su Saddam avevano cambiato valutazioni, o piuttosto linea politica. Bush aveva dato a Saddam del “pazzo”. Il sottosegretario di stato Douglas Feith lo definì in preda a “passioni megalomaniache”. Un tantino più prudente la consigliera per la Sicurezza nazionale Condoleezza Rice, la quale sostenne che i suoi comportamenti mostravano che era “ostinato o delirante”, dove tutto faceva perno su quel “o”. Ne conseguiva che non poteva non volersi dotare di armi di distruzione di massa, anzi già ne aveva, ed era pronto a servirsene. Sbagliavano. Non le aveva, faceva solo finta di averle. Fosse stato un tantino più convincente nella finzione, forse non avrebbero attaccato l’Iraq. Così come non hanno attaccato la Corea del Nord.
Un altro leader arabo considerato pazzo era Muammar Gheddafi. Ronald Reagan lo chiamava “il cane pazzo del medio oriente”, “un clown matto”, “un fanatico imprevedibile”. La Cia lo riteneva dipendente da “droghe allucinogene”, “assolutamente incontrollabile”. Era megalomane, ridicolo, forse anche un po’ fuori di testa. Era crudelmente spietato nei confronti di ogni velleità di opposizione interna. Ma la sua pazzia consisteva, come nel caso di Saddam, nell’abbarbicarsi con ogni mezzo al potere. Solo in subordine nell’atteggiarsi a improbabile leader del mondo islamico. Nel 1986 gli americani avevano cercato di eliminarlo bombardando la sua residenza a Tripoli. Non ci erano riusciti. Fu ucciso solo venticinque anni dopo, nel 2022, mentre, nascosto in un canale di scolo presso Sirte, cercava di sfuggire a una ribellione incoraggiata dagli stessi europei che fino a poco prima lo adulavano e rabbonivano. Quando ormai aveva rinunciato sia a farsi l’atomica, sia al terrorismo internazionale (ad eccezione del terrore nei confronti di chi all’interno o dall’esilio minacciava il suo potere assoluto). Alla luce del poi ci sarebbe da chiedersi chi fossero i veri pazzi.
Devo gran parte di questi esempi a un saggio della studiosa della Pennsylvania State University, Roseanne McManus. Si intitola Revisiting the Madman Theory: Evaluating the Impact of Different Forms of Perceived Madness in Coercive Bargaining. Spacca il capello in quattro nel tentativo di stabilire un modello del perché nelle trattative internazionali alcuni leader riescono a prevalere facendosi passare per pazzi, e altri no. Daniel Ellsberg (l’ex analista del Pentagono noto per aver illecitamente diffuso i Pentagon Papers, sulle discussioni segrete all’origine della guerra in Vietnam, scomparso nel 2023) in una sua conferenza su The Political Uses of Madness era già giunto alla conclusione che nel grande gioco del ricatto nucleare ha più probabilità di successo quello dei contendenti che riesce a mostrarsi matto “in modo più convincente”. Può sorprendere (o consolare, a seconda dei gusti) che però finisca in genere male per quelli che si affidano un po’ troppo all’immagine da squilibrati, all’imprevedibilità, al capriccio, della loro prossima mossa.
Di pazzi che non sono poi tanto pazzi, e viceversa, è zeppa la storia e la grande letteratura. L’infermità mentale è oltretutto un’ottima scusa. Caligola viene dato per pazzo furioso dagli storici romani antichi. Questi scrivono comunque quando quello è già morto ammazzato, e non può più nuocergli. Avevano fatto lo stesso per suo zio Nerone. La storiografia più recente tende, se non a riabilitarlo, a giustificare le sue stranezze in termini di assai più “normale” lotta per il potere. Ci furono congiure conto di lui, non tutte immaginarie. Celebre la storiella secondo cui voleva nominare console il suo cavallo preferito, Incitatus. Suona però piuttosto come una provocazione verso il ceto senatorio che gli remava contro. I detrattori aggiungono che donò al cavallo una stalla di marmo, una greppia d’avorio, coperte di porpora e bardamenti di pietre preziose, e persino una casa con servitù e mobilio. Ma lo sfarzo non è di per sé prova di follia. E’ esibizione di potere. Non ci sono mai state tante vistose dorature, pure pacchianate kitsch, al Cremlino e nello studio ovale della Casa Bianca, quante da quando vi abitano Putin e Trump. Anche l’arricchimento personale e l’invenzione di sempre nuovi modi per fare cassa fa parte del gioco. Tra le sue spese folli ci fu la costruzione di un ponte di navi. Non sullo stretto di Messina, ma tra Pozzuoli e Baia (presso il capo Miseno). Era dotato di attrezzature costosissime. Persino di spiazzi con luoghi di sosta e alloggi, con tanto di acqua corrente. Non serviva a niente. Solo a far scena. A far sì che Caligola potesse vantarsi come artefice di “grandi imprese”, gloriarsi di “avere trasformato il mare in terra”. Cavallo a parte, non c’è niente di particolarmente nuovo nelle nomine scandalose. Come tutti i despoti l’imperatore Caligola aveva bisogno di circondarsi di gente fidata e spregiudicata. Con gran dispetto dell’establishment aristocratico, si affidava, per i lavori politicamente ed economicamente più sporchi, a ex schiavi, che gli dovevano tutto. Salvo scoprire che pure quelli complottavano ai suoi danni.
Tutto il mondo è paese. Anche gli annali cinesi sono pieni di imperatori pazzi. Tra questi, l’imperatore Tang, Wuzong. Ma anche nel suo caso la storiografia più recente tende ad attribuire la cattiva fama alla sua politica ossessiva di accentramento, e di contenimento del prepotere dei governatori militari regionali, e degli intrighi delle fazioni a corte. Parteggiava per i taoisti, perseguitando i buddisti (non a caso il suo principale detrattore è Ennin, un monaco buddista autore di un volume sui suoi viaggi in Cina nell’838 d.C). Wuzong viene accusato, tra le altre cose, di aver emanato un editto in cui ordinava l’incetta di cuori e fegati di quindicenni. Sarebbero serviti, pare, a preparare farmaci che gli garantissero l’immortalità. Questo è un tema costante nella storia degli antichi imperatori cinesi, a cominciare dal Primo imperatore Qin Shihuangdi. Ha a che fare con la questione della successione, tarlo inesorabile di tutte le dinastie, fino a quella iniziata da Mao. Qin Shihuangdi e Wuzong sono accomunati dalla diceria per cui sarebbero periti per overdose di elisir di immortalità. C’è chi nella lista ci mette anche Mao. Il grande timoniere divorava successori. Lo fa a modo suo anche Xi Jinping. Il problema successione è insoluto anche per Putin. Difficile appurare se sia pazzo o meno (c’è chi ha sostenuto l’una e l’altra cosa). Ha sinora preferito ostentare pazzia soprattutto per interposta persona, il suo proxy pro tempore Medvedev.
E’ evidente che a togliere il sonno a Trump non è Putin. Non è quel che succede a Gaza. Tanto meno è l’Europa. Sono quelli che lo minacciano all’interno. I democratici che in realtà non fanno molto per minacciarlo, semmai gli servono come capro espiatorio da additare per tutto quello che non va per il verso giusto. Ce l’ha soprattutto con la nomenclatura dell’establishment. Si è già liberato di quelli che non ritiene abbastanza fedeli ai vertici delle forze armate, nei servizi di intelligence e di sicurezza, nelle agenzie federali indipendenti, tra i responsabili della Sanità (clamoroso il licenziamento della direttrice dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, da lui nominata solo un mese prima, perché difendeva i vaccini). Licenzia persino la matematica. Tra le vittime celebri la responsabile delle statistiche sul lavoro. Pura follia? No. La guerra che lo preoccupa è una guerra civile. In America, contro i nemici domestici. Le ripercussioni internazionali ne sono il prolungamento. Non gli fa un baffo che Putin, Xi Jinping e Modi se la ridano in Cina alle sue spalle.
Trump ha zittito o ridotto all’impotenza gran parte dei governatori democratici (Gavin Newsom, il governatore della California, è tra le eccezioni, e potrebbe essere il suo rivale alle prossime presidenziali). Ha terrorizzato deputati e senatori del Partito repubblicano, il suo partito, abbastanza da ridurli all’impotenza. Sta prendendo da mesi d’assalto la Federal Reserve impallinando i membri del board uno dopo l’altro e sostituendoli, alla maniera di Caligola, con cavalli suoi. Anche cavalli pazzi come il teorico dei dazi Stephen Miran. Se potesse, strozzerebbe il governatore Powell con le sue mani. L’avrebbe già fatto se non temesse una reazione catastrofica dei mercati. Trump fa il pazzo, ma non è pazzo.
Re pazzo per antonomasia era Giorgio III d’Inghilterra. Lo fu a intermittenza. Di tanto in tanto dava di matto. Corte e medici disperavano. Poi, all’improvviso, appariva guarito, per periodi più lunghi di quelli di demenza. Era affetto, su questo convergono le testimonianze, da loquacità perniciosa. Diceva la sua su tutto, spesso sproloquiando, ma talvolta dicendo pane al pane e vino al vino. Balbettava nei momenti di lucidità, la sua logorrea era inarrestabile quando dava di matto. Cosa avrebbe combinato se avesse potuto postare sui social. Motivi per dar di matto ne aveva, eccome: fu il re che perse l’America, proprio dopo che l’impero britannico aveva spodestato Spagna e Francia da gran parte dei possedimenti americani. Gli storici anche nel suo caso divergono sul se ci fosse o, almeno in parte, ci facesse. Era ai ferri corti con l’establishment del suo paese, e con i suoi primi ministri, nonché con la famiglia, soprattutto il principe ereditario, che non vedeva l’ora di sostituirlo come reggente. Alan Bennett, nel suo capolavoro teatrale, La pazzia di re Giorgio, presenta un’estrosa scorribanda nei dialoghi a corte e nel suo entourage. Si potrebbe continuare all’infinito. Per un catalogo: The Madness of Kings: Personal Trauma the Fate of the Nations, di Vivian Green (St. Martin’s Press.1993).
Sono molti i re pazzi in Shakespeare. Ma non lo è il più cattivo di tutti, Riccardo III. Don Chisciotte è forse il matto più famoso e simpatico della letteratura occidentale. La sua insània è innocente, fa tenerezza rispetto alla locura del mundo con cui ha a che fare. L’“ ingenioso” hidalgo della Mancia è impazzito perché ha letto troppo. Più complesso il rapporto tra la sua follia e la saggezza contadina del suo scudiero Sancio Panza. La prime parole di Sancio nel romanzo sono a ricordargli la promessa fattagli se lo seguiva: un’isola da governare. Sancio la sua isola la ottiene. E la governa meglio di quanto si possa immaginare per un sovrano rozzo e analfabeta, un labrador senza arte né parte, e soprattutto senza physique du rôle. Barataria è un’isola immaginaria. Il nome richiama la parola barato, a buon mercato, e ha la stessa radice di baratteria (“Figura tradizionale di delitto prevista nel diritto marittimo del passato, che comprendeva il naufragio doloso, la falsa rotta, la distruzione del carico e degli attrezzi, il falso in polizza o nel giornale di bordo, il contrabbando”, dice la Treccani). Il capolavoro di Sancio governatore riguarda l’amministrazione della giustizia, allora in vendita al miglior offerente. Potrà vantarsi, al termine del suo incarico, di aver lasciato il posto senza essersi arricchito di un soldo. Non sappiamo come avrebbe agito in politica estera, perché l’isola è troppo insignificante per averne una. Ma alla “settima notte del suo governo” viene svegliato da isolani che gridano a squarciagola, con le spade sguainate: “All’armi! All’armi, signor governatore. I nemici sono penetrati nell’isola in gran numero…”. E’ una burla. Che mette fine al suo tentativo riformista (più follia della follia cavalleresca di Don Chisciotte?). Nel Mediterraneo di quei tempi scorrazzavano pirati di ogni fede, appoggiati ora dai turchi, ora dagli inglesi e dai francesi, in funzione antispagnola. Cervantes ne sapeva qualcosa. Fu per cinque anni prigioniero dei barbareschi ai Baños di Algeri (un carcere, niente a che fare con un’amena Riviera del Mediterraneo). Alla desolante pazzia del mondo risponde con l’arma dell’humour.
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