Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
La catena di montaggio della disinformazione Commento di Daniele Scalise
Testata: Informazione Corretta Data: 27 agosto 2025 Pagina: 1 Autore: Daniele Scalise Titolo: «La catena di montaggio della disinformazione»
La catena di montaggio della disinformazione
Commento di Daniele Scalise
Il raid di Nuseirat, per la liberazione di ostaggi israeliani, per i media è diventata "strage di civili". Anche se poi la versione mediatica è stata smentita e i media stessi hanno rettificato le notizie, il concetto è passato e l'opinione pubblica non ha più cambiato idea. La disinformazione mediatica è diventata una catena di montaggio, inarrestabile, il primo anello è costituito dalle fonti di parte, quasi sempre di Hamas.
La bugia, quando parte, viaggia in business class. La verità, se arriva, lo fa in terza classe e con ore di ritardo. Nel racconto mediatico su Israele, il flusso è sempre lo stesso: fonte di parte → agenzia internazionale → media nazionali → social network. Un nastro trasportatore che confeziona la notizia già pronta per il consumo, senza passare dalla dogana della verifica.
La forza di questo meccanismo sta nella sua apparente naturalezza: nessuno si sente complice, tutti si definiscono “solo riportatori”. In realtà, ognuno contribuisce a dare alla bugia una patina di legittimità che la rende resistente a qualsiasi smentita.
Fase 1 – La fonte di parte
Nel caso di Israele, la catena spesso inizia con Hamas o con organismi a esso collegati. Il “Ministero della Sanità di Gaza” – organo del governo di Hamas – diffonde cifre, accuse, immagini. Nessuna redazione internazionale lo presenta mai così: diventa “Ministero della Sanità” e basta, come se fosse la controparte sanitaria di un Paese occidentale.
Fase 2 – Le agenzie internazionali
Reuters, AFP, AP raccolgono e battono la notizia. Il virgolettato della fonte diventa titolo: “Raid israeliano provoca X vittime”. Le precisazioni (“secondo le autorità di Gaza”) scivolano in coda, dove pochi lettori arrivano. L’agenzia è lo snodo decisivo: la sua autorevolezza trasferisce alla notizia un sigillo che le televisioni e i giornali nazionali non mettono più in discussione.
Fase 3 – I media nazionali
Qui la notizia si trasforma in racconto domestico. I titoli diventano più emotivi, le foto più forti, le cifre più tonde. Se l’agenzia ha già impostato il frame, la redazione lo amplifica. Nessuno ha il tempo – o la voglia – di tornare alla fonte primaria, di verificare in modo indipendente. È più rapido confezionare un pezzo “di flusso” e passare al successivo.
Fase 4 – I social network
Una volta online, la notizia esplode. Titoli e immagini vengono rilanciati senza link, fuori contesto, con slogan che moltiplicano l’effetto emotivo. Quando, giorni o ore dopo, emerge la verità, il ciclo è già concluso: la smentita non ha alcuna possibilità di competere con il primo impatto virale.
Un caso concreto? Nuseirat, 8 giugno 2024
Quel giorno, l’IDF lancia un’operazione a Gaza per liberare quattro ostaggi israeliani. Poche ore dopo, il “Ministero della Sanità di Gaza” diffonde un comunicato: “Più di 200 civili uccisi in un massacro israeliano”. Reuters, AFP e AP rilanciano i numeri senza verificarli. Le principali testate – dal Guardian a El País – titolano sulla “strage” e sul “costo umano” dell’operazione, minimizzando il fatto che erano stati salvati quattro ostaggi rapiti l’ottobre precedente. Sui social, il racconto si riduce a una formula: “Israele uccide centinaia di civili per salvare quattro persone”.
Nei giorni seguenti, emergono dati diversi: molti dei morti erano miliziani armati, la cifra iniziale era gonfiata, e Hamas aveva usato i civili come scudi umani. Ma a quel punto l’immagine era già fissata: Israele come aggressore spietato, gli ostaggi come pretesto, e la realtà dei fatti relegata a note a piè di pagina.
Il problema non è solo che la verità arrivi tardi. È che, quando arriva, trova il campo occupato: l’immagine mentale si è già formata, l’indignazione si è già consumata, il giudizio è già stato emesso. Chi diffonde la smentita appare difensore di Israele, e quindi sospetto.
Questo sistema è una catena di montaggio perché ogni passaggio aggiunge un elemento di apparente solidità e credibilità: la fonte è “ufficiale”, l’agenzia è “affidabile”, il quotidiano nazionale è “autorevole”, il social network è “popolare”. Ma la materia prima, se è tossica, resta tossica. E una volta distribuita in milioni di copie, nessuna rettifica potrà mai bonificare il danno.
In guerra, la prima vittima è la verità. Ma nella guerra mediatica su Israele, la verità non muore per caso: viene sacrificata scientemente sull’altare della velocità, dell’emotività e di un pregiudizio consolidato. E in questo sacrificio, tutti – dal cronista distratto al direttore compiacente – hanno le mani sporche.