Israel Joshua Singer
La famiglia Karnowski
Adelphi
«Avevo un fratello più piccolo, Moshe, che era ancora in fasce quanrdo ci trasferimmo a Varsavia; una sorella che aveva tredici anni più di me e si chiamava Hinde Ester; e un altro fratello, Israel Joshua, che aveva undici anni più di me. Tranne Moshe, tutti noi divenimmo scrittori. Mio fratello scriveva, come me, in lingua yiddish». Così racconta Isaac Bashevis Singer la propria infanzia, all’ombra di quella corte dove il padre esercitava l’ufficio di giudice e dove sfilava un’umanità variegata, impagabile fonte d’ispirazione.
Poche lingue hanno subito un destino crudele e sanguinolento come lo yiddish, morto insieme ai milioni di vite che lo parlavano, dalla Polonia all’Ucraina, dalla Bielorussia a alla Lettonia, diventate fumo per le ciminiere dei forni crematori, nei campi di sterminio. Eppure, tanto nei libri di Isaac quanto in quelli di suo fratello maggiore Israel Joshua, morto nel 1944, lo yiddish dà e acquista vita, come se tutto il mondo ancora oggi continuasse a parlarlo. Ed è la storia di una coppia di fratelli, il cui destino (o Dio) fa sì che il minore abbia a surclassare il primogenito. E’ capitato a Esaù di subire le astuzie del piccolo Giacobbe. E’ capitato a Israel Joshua di vivere nell’ombra del più giovane e acclamato Isaac. Eppure c’è una linea di continuità, anzi di autentica fraternità, nei loro libri. Ma se quelli di Isaac sono noti e tradotti ovunque, a Israel è toccato in sorte una specie di oblio, che però diventa una straordinaria occasione di scoperta per i lettori, a distanza di tanti anni. La famiglia Carnowski uscì infatti nel 1943, ma scoperta di recente e tradotta in francese poco tempo fa, vede oggi la luce anche in italiano, nella puntuale e immaginiamo assai sudata traduzione dall’originale yiddish di Anna Linda Callow per Adelphi.
E’ una saga familiare di grande respiro, che copre due continenti e tre generazioni. E’ una vicenda al maschile di tre destini molto diversi fra loro, benché sul filo di quella continuità generazionale che è stata per millenni il terreno della storia ebraica. David, Georg e Jegor abitano tre dimensioni di questa esperienza: dallo shtetl, il villagio ebraico in Polonia, all’illuminata (ma ancora per un soffio) Berlino, a quella Goldene Medina, Eldorado d’oltreoceano che diventerà rifugio anche per la famiglia Singer.
Ma a differenza dell’altro grande libro di Israel Joshua, I fratelli Ashkenazi ripubblicati di recente in Italia da Bollati Boringhieri con una prefazione di Claudio Magris, questo nuovo/ vecchio romanzo ha una misura diversa, un filo conduttore angoscioso che pone il lettore in uno stato di inquietudine costante. Qui c’è infatti tutto il presagio del dramma che l’autore non fece in tempo a conoscere del tutto, accompagnato da un’illusione tenace e tossica dentro la quale vivono i tre protagonisti e con essi il lettore: quella dell’integrazione, dell’assimilazione, della consapevolezza (fasulla) che l’epoca dei ghetti, della chiusura, dell’emarginazione e dei pogrom fosse finita per sempre. Ed è con strazio crescente che la storia viaggia avanti verso quel futuro che sappiamo tutti di cosa era fatto, e indietro dentro una nostalgia a cui non sa ancora dare un nome.
Se David, il primo protagonista, non vede l’ora di abbandonare lo shtetl e abbracciare la modernità, suo figlio Georg sarà, anzi dovrà essere «tedesco fra i tedeschi» prima ancora che ebreo. E Jegor porterà il peso di un’identità mista, non meno problematica. Ma non sono figure astratte, queste. Con grande talento narrativo e una prosa che ha in sé ha già il presagio di quello che sta per succedere alla lingua in cui è scritta – è come se l’autore cercasse già di risuscitarla anche se allora non era ancora morta – Singer regala al suo lettore un grande affresco familiare fitto di volti, sentimenti, gesti, tragedie. Con l’ombra pesante di ciò che presto farà fallire tutte le illusioni di questi personaggi. Un libro ricco nel senso migliore del termine e per nulla ridondante, malgrado la mole di pagine.
ELENA LOEWENTHAL