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Antisemitismo in America 10/02/2014 -

Elena Fallo
Antisemitismo in America
Araba Fenice

"La rivoluzione in Germania dopo la guerra non sarebbe mai scoppiata se gli ebrei non l'avessero preparata. [...] Gli ebrei internazionali, i veri padroni dei poteri politici e finanziari del mondo, possono riunirsi in qualunque parte e in qualunque momento, in tempo di guerra e in tempo di pace, proclamando di non pretendere altro che di studiare e discutere i mezzi più propizi per rimpatriare gli ebrei dispersi in Palestina e deviando cosi, facilmente, qualsiasi sospetto che le loro riunioni siano indette con altri scopi"
Chi pronunciò queste frasi? Hitler nel suo Mein Kampf? Sbagliato. L'autore di queste parole è Henry Ford, il magnate dell'industria americana, famoso per aver costruito un'automobile economicamente e tecnologicamente accessibile a tutti, per aver introdotto la catena di montaggio all'interno della sua fabbrica, per aver contribuito in modo determinante alla creazione della società moderna. Ciò che non si conosce o di cui si sa molto poco è che Ford fu anche colui che per primo negli Stati Uniti fece pubblicare
I Protocolli dei Savi di Sion sul suo settimanale, il Dearborn Independent, che scrisse un'opera apertamente antisemita, L'ebreo internazionale e che ottenne una tale ammirazione da parte di Hitler da avere un proprio ritratto nell'ufficio del fürher. A volte, è proprio la Storia che crediamo ben nota a non essere come sembra.
Questo libro ci porta dentro la vicenda poco conosciuta di uno dei capitoli più oscuri dell'anima americana, forse uno dei più inquietanti del XX secolo. Per ricordarci che sarebbe potuto succedere e, soprattutto, che potrebbe succedere ancora.
"Gli Stati Uniti, apparsi la "terra promessa" la "nuova Israele" ai puritani e alle molteplici comunità protestanti delle élites del Nord, dei proprietari terrieri del Sud e dei pionieri dell'Ovest, parrebbero essere stati inassimilabili alla vicenda dell'antisemitismo euro-occidentale ed euro-orientale. Non è così, anche se in essi non si sono mai raggiunti gli estremismi pluriassassini genocidari dell'Europa e dell'Eurasia. Questo libro lo dimostra, e lo spiega, con una ricchezza d'informazioni e di fonti sinora in Italia, e non solo in Italia, sconosciute e poco note.  Anche gli Stati Uniti hanno fatto germinare  l'antigiudaismo religioso, l'emarginazione e il linciaggio dei giudei, il razzismo antiebraico a sfondo positivistico, l'invidia popolare antifinanziaria, la xenofobia negli anni delta grande immigrazione".

Di pura razza italiana 17/01/2014 -

Mario Avagliano
Marco Palmieri
Di pura razza italiana
Baldini & Castoldi


Alla fine degli anni Trenta, con la conquista dell'Etiopia e la proclamazione dell'Impero, l'Italia fascista sente il bisogno di affiancare alla nuova coscienza imperiale degli italiani anche una coscienza razziale. Ben presto dal "razzismo africano" si passerà all'antisemitismo, e nel 1938 in pochi mesi si arriverà alle fatidiche leggi razziali che equivalsero alla "morte civile" per gli ebrei, banditi da scuole, luoghi di lavoro, esercito, ed espropriati delle loro attività. Tutti gli italiani "ariani" aderirono, dai piccoli balilla che non salutavano più i compagni, a gente comune e alti accademici che volsero le spalle agli ex amici. La bella gioventù dell'epoca (universitari, giornalisti e professionisti in erba) rappresentò l'avanguardia del razzismo fascista. Molti di loro avrebbero costituito l'ossatura della classe dirigente della Repubblica, ma quasi tutti in quel quinquennio furono contagiati dal virus antisemita. Ecco perché per circa sessant'anni c'è stata una sorta di autoassoluzione nazionale che gli storici non hanno pienamente rivisto. Per restituirci un'immagine più veritiera dell'atteggiamento della popolazione di fronte alla persecuzione dei connazionali ebrei, Avagliano e Palmieri hanno scandagliato un'enorme mole di fonti (diari, lettere, carteggi burocratici e rapporti dei fiduciari della polizia politica, del Minculpop e del Pnf) dal 1938 al 1943.
Ne è emersa una microstoria che narra un «altro Paese», fatto di persecutori (i funzionari di Stato), di agit-prop (i giornalisti e gli intellettuali che prestarono le loro firme), di delatori (per convinzione o convenienza), di spettatori (gli indifferenti) e di semplici sciacalli che approfittarono delle leggi per appropriarsi dei beni e le aziende degli ebrei. Rari i casi di opposizione e di solidarietà, per lo più confinati nella sfera privata. Complessivamente in quegli anni bui molte persone si scoprirono di pura razza italiana e i provvedimenti razziali riscossero il consenso maggioritario della popolazione.

Rinascimento ebraico 07/01/2014 -

Martin Buber
Rinascimento ebraico
Mondadori


Martin Buber, uno dei più importanti filosofi, intellettuali e protagonisti del secolo scorso, diretto testimone delle drammatiche vicende che hanno segnato la recente storia del popolo ebraico, è tra i principali artefici della rinascita culturale e filosofica del sionismo; tutta la sua vita di studioso e la sua ricchissima produzione di filosofia e di storia della religione hanno avuto lo scopo di costruire un rinnovato ponte culturale tra ebraismo e cristianesimo, ed è questo il motivo della vasta popolarità e del consenso che lo hanno accompagnato. Della sua ampia e poliedrica produzione, questo volume documenta con una scelta di saggi l'attenzione che Buber dedica - nel primo ventennio del Novecento - al problema teorico dell'ebraismo e del sionismo, affrontato soprattutto dal punto di vista culturale prima che religioso. Tra i testi presentati, sono degni di nota i "Tre discorsi sull'ebraismo" (Praga 1909-1910), culto della gioventù ebraica che andò a farsi massacrare nella Grande Guerra; i "Discorsi di Praga e Berlino" (1913-1915), alle prese con la guerra incombente e poi con la guerra vera; i "Discorsi su sionismo e gioventù", a guerra conclusa e con la prospettiva improvvisamente reale - di una colonizzazione giovanile della Palestina. Diversi scritti qui proposti risultano inediti in Italia, e comunque anche quelli noti vengono presentati nella nuova traduzione della germanista Andreina Lavagetto.

Omaggio a Primo Levi 27/12/2013 -

Omaggio a Primo Levi

Se questo è un uomo
Einaudi

Primo Levi, reduce da Auschwitz, pubblicò "Se questo è un uomo" nel 1947. Einaudi lo accolse nel 1958 nei "Saggi" e da allora viene continuamente ristampato ed è stato tradotto in tutto il mondo. Testimonianza sconvolgente sull'inferno dei Lager, libro della dignità e dell'abiezione dell'uomo di fronte allo sterminio di massa, "Se questo è un uomo" è un capolavoro letterario di una misura, di una compostezza già classiche. È un'analisi fondamentale della composizione e della storia del Lager, ovvero dell'umiliazione, dell'offesa, della degradazione dell'uomo, prima ancora della sua soppressione nello sterminio.

 

The Devil That Never Dies 16/12/2013 -

Daniel Jonah Goldhagen
The Devil That Never Dies
Norton Pub

In attesa che esca la traduzione italiana segnaliamo il nuovo libro di Daniel Jonah Goldhagen e vi proponiamo l’ottima recensione di Jeffrey Goldberg tratta dal The New York Times.

In “The Devil That Never Dies,” Daniel Jonah Goldhagen reports that there has been a worldwide rise in lethal anti-¬Semitism. If he had to pick a role model for the new generation of Jew-haters, he might settle on an elderly Sunni cleric named Yusuf al-Qaradawi.
Qaradawi, who is based in Qatar, is an important spiritual adviser to the Muslim Brotherhood, but his fame and influence derive in large part from his popular show on Al Jazeera, the satellite television channel owned by the ruling family of Qatar. Al Jazeera has global reach: bureaus in many world capitals and an American cable news network. Qaradawi, the host of “Islamic Law and Life,” has been the network’s most famous on-air personality.
He is anti-American, sometimes bitterly so, but his anti-Israelism takes on extreme coloration. In 2009, in a sermon broadcast by Al Jazeera, he expressed an opinion of breathtaking vituperation. “Throughout history,” he said, “Allah has imposed upon the Jews people who would punish them for their corruption. The last punishment was carried out by Hitler. By means of all the things he did to them — even though they exaggerated this issue — he managed to put them in their place. This was divine punishment for them. Allah willing, the next time will be at the hand of the believers,” which is to say, Muslims.
For the past several years, we have been witness to the antics of the recently retired Iranian president, Mahmoud Ahmadinejad, who made himself into the world’s most famous Holocaust revisionist. Ahmadinejad denied the historical truth of the Holocaust while creating conditions for another, an egregious thing to do. But one thing he did not do was praise Hitler.
Qaradawi, in his sermon, pays lip service to the ideology of denial, but his pathological hatred of Jews moves into territory well past the borders of ¬Ahmadinejad-style anti-Semitism. Endorsing the Holocaust puts a person in a whole different moral category.
Three aspects of Qaradawi’s pro-Hitler commentary are noteworthy. The first is that he is Muslim, and from the Middle East. Christian Europe, and not the Middle East, has been the historic breeding ground for what Goldhagen, in his earlier, landmark book, “Hitler’s Willing Executioners,” labeled “eliminationist anti-Semitism.” The second is that Qaradawi — whose vile opinions would have been heard, in the pre-Internet, pre-satellite-television age, by pockets of extremist followers in marginal places — now has a worldwide audience.
The third troubling aspect of Qaradawi’s comment is that it did not result in his removal from Al Jazeera. Nor did it seem to diminish his influence. The most effective and disturbing argument Goldhagen musters in this new book is that the resurgence of rhetorically and sometimes physically violent anti-¬Semitism over the past dozen years or so is shocking in part because it does not seem to shock. Horrific accusations leveled against Jews across the Middle East and in Europe fail to excite the anger or disbelief of the non-¬Jewish masses and non-Jewish elites alike.
This is a fine point to make. Unfortunately, Goldhagen undermines himself by, among other things, allowing his anger to get the best of him. “The Devil That Never Dies” is written in a hyperventilating style, starting with its title. “The devil, after a period of relative quiescence, has reappeared, flexes his muscles again, and stalks the world, with ever more confidence, power and followers,” Goldhagen writes. “The devil is not a he but an it. The devil is anti-Semitism.”
Yes, we got that. As a general rule, heavy breathing is unnecessary, and even counterproductive, when a writer’s subject is atrocity, and much of Goldhagen’s book is a compilation of atrociousness: seemingly endless passages recount the awful things said about Jews over the past several years. Most of these statements are easily found on the Internet, where Goldhagen appears to have done much of his research, but there is real utility to his efforts — comprehensive catalogs of hate possess a kind of depressing power. I did not recall, for instance, that the Hamas leader Khaled Mashal said: “Before Israel dies, it must be humiliated and degraded. Allah willing, . . . we will make them lose their eyesight, we will make them lose their brains.”
Goldhagen does other useful things. He makes a strong case that anti-Semitism is a unique prejudice, in its staying power, in its ability to shape-shift, in the unlikely coalitions that spring up to advance its message (left-leaning Western gay activists aligning with gay-persecuting Muslim fundamentalists, say). Anti-Semitism is also rare in its ability to make otherwise smart people believe fantastical and idiotic things. No other religious or ethnic group has ever been blamed for both capitalism and Communism simultaneously, for example.
The calumnies against Jews have been the most damaging kind,” Gold¬hagen writes. “Jews have killed God’s son. All Jews, and their descendants for all time, . . . are guilty. . . . Jews desecrate God’s body, the host. Jews parented the Antichrist. . . . Jews sought to slay God’s prophet Muhammad. Jews are the enemies of Allah. Jews kill Christian children and use their blood for their rituals. Jews kill Muslim children. Jews wreak financial havoc in the countries in which they live. Jews have started all wars.” And so on.
That last item is aimed not only at Mel Gibson, but at Stephen Walt and John J. Mearsheimer, authors of “The Israel Lobby,” which Goldhagen describes as the “best cloaked major anti-Semitic tract in English of the last several decades.”
One of Goldhagen’s strongest arguments has to do with selective outrage as a leading indicator of anti-Semitism. He does not try to argue that criticism of Israeli government policies is necessarily anti-Semitic. But he has appropriate contempt for those who argue that Israel is a reincarnation of Nazi Germany, and he is appalled by the hypocrisy of the inter¬national community, which judges Israel by a separate, and higher, standard than it does other countries.
He cites Turkey as a telling example: “In a rational world, the Turks’ systemic and large-scale violence against and suppression of Kurds’ legitimate rights and national aspirations, not to mention the Turks’ genocide of the Armenians, and mass killings of Greeks and others, not to mention their invasion, dismembering and occupation of half a sovereign country, Cyprus, in 1974, . . . might have brought upon Turkey the world’s condemnation and generated in international organizations, including the United Nations, a preoccupation with its predations and the production of intensively negative beliefs and passions, including prejudice . . . similar to and perhaps far exceeding that against Jews. But it has not — not even 1 percent as much.”
Goldhagen’s strengths and weaknesses are on display in this previous (typically dense and over-intricate) paragraph. He makes a valid point, but the hectoring tone and the hyperbole — how did he reach the conclusion that Turkey is criticized 1 percent, and not 2 percent, as much as Israel? — undermine the message. Hyperbole also leads to inaccuracy, which is particularly unfortunate in a book whose subject, at its essence, is lying. He writes at one point, “Consider the mass murder in 1999 at a Los Angeles Jewish Community Center, where a vicious anti-Semite opened fire with an automatic weapon, injuring five people.” It was not, of course, “mass murder” at that Los Angeles J.C.C., because no one at the site was murdered.
But the shooting attack in Los Angeles was bad enough. So too is the excoriation of Israel by countries with terrible human rights records. And so too are efforts, by Muslim fundamentalists and far-right politicians, to make Europe uninhabitable for its last Jew, and to blame certain American Jews for bringing war upon their country. Goldhagen’s book has its uses, but today we need something decidedly better: a book on anti-Semitism that combines original reporting, accessible writing and a sense of restraint.

JEFFREY GOLDBERG
The New York Times

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