Tradurre l’ebraico con Elena Loewenthal
Recensione di Lucia Esposito
Testata: Libero
Data: 21/01/2024
Pagina: 24
Autore: Lucia Esposito
Titolo: Vi racconto la storia (d'amore) dell'ebraico

Riprendiamo da LIBERO di oggi 21/01/2024, a pag.24, con il titolo "Vi racconto la storia (d'amore) dell'ebraico", la recensione di Lucia Esposito.

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Lucia Esposito

Breve storia (d'amore) dell'ebraico – I libri di Eppi

S'intitola "Breve storia (d’amore) dell’ebraico" (Einaudi, pp.117, euro 12), ma non è né una grammatica dell’ebraico né un manuale di linguistica e non è neppure- come precisa la quarta di copertina- una «storia organica e filologicamente corretta di questa lingua antichissima». "Breve storia (d’amore) dell’ebraico" di Elena Loewenthal è il racconto di un’innamorata che lungo centodiciassette pagine svela i tesori di quest’idioma contagiando il lettore con la passione di chi, dopo più di quarant’anni, riesce ancora a stupirsi di fronte a certi suoni e a certi segni. È anche la confessione di come il lavoro di traduzione dall’ebraico all’italiano sia un corpo a corpo con ogni singola parola, una sfida estenuante e affascinante perché l’ebraico è essenziale eppure complesso, perché ogni volta spiazza il traduttore con un’accezione mai considerata in precedenza o una sfumatura sconosciuta, perché bisogna mettersi sempre in ascolto della eco che risuona oltre ciascuna lettera. Tradurre la lingua della Bibbia è come scavare a mani nude in una miniera e recuperare nuova materia viva e incandescente. «In questo libro», precisa l’autrice «racconto non una, ma due storie d’amore: quella per l’ebraico e quella per la traduzione».
Alla fine di questo viaggio non avrete imparato l’ebraico e forse non ricorderete neanche una delle tante parole di cui Elena Loewenthal- scrittrice, traduttrice e studiosa di storia e letteratura ebraica - racconta ma, come scrive lei stessa, saprete «qualcosa di più su come è possibile amare una lingua di un amore fatto di luce, senza tenebre».
E vi resterà il desiderio di rincorrere l’ebraico lungo i millenni e ritrovarlo proiettato nel futuro.
Per provare a raccontare questa lingua in poche righe partiamo da quello che non ha. Non ha le maiuscole e le minuscole («è democratica»), non ha la punteggiatura, i verbi così come li intendiamo e nemmeno le vocali nel testo scritto. «L’ebraico ha un sistema ingegnoso, codificato e flessibile al tempo stesso per combinare le lettere dell’alfabeto e dare senso al tutto.
L’universo semantico si fonda su delle radici formate da tre consonanti.
Ci sono cose in ebraico che lasciano talvolta a bocca aperta. Invitano a porsi davanti alla realà in un modo nuovo. Il silenzio, ad esempio, in italiano lo chiamiamo soltanto così, mentre l’ebraico conosce tre radici che dicono silenzio Wee •M*o,n SHQT, SHTQ e DWN. Sheqet è il silenzio di pace, shetiqah è il silenzio imposto, quando diciamo: zitti! Dom è il silenzio abissale. Quello del cosmo e talvolta di Dio. Come nella frase che è la più bella di tutto il racconto biblico, la voce del silenzio – qol demamah daqah. Questo è il silenzio che esprime la rivelazione divina perché Dio non è nel tuono o nella tempesta, ma lì, in quella “voce che è silenzio sottile”, in cui sta forse racchiusa tutta la poesia di sempre, in ogni lingua...». L’ebraico si legge e si scrive da destra verso sinistra. «Per chi non è mancino questo significa trovarsi davanti alla pagina bianca. Il Talmud dice che il testo va esplorato non solo nei capitoli, nelle frasi, nelle parole, nelle lettere e nei pezzi delle lettere ma anche - e forse soprattutto - negli spazi bianchi tra una lettera e l’altra. Lì, non meno che nel nero dell’inchiostro, si nasconde il senso. Questo si esercita in ebraico sia nell’infra-righe del testo, ma anche nel corsivo che stacca una lettera dall’altra. La scrittura non è mai un continuum ma un intercalare di segno scritto e di silenzio della pagina bianca», spiega Loewenthal.

Elena Loewenthal è la nuova direttrice del Circolo dei Lettori di Torino |  Artribune
Elena Loewenthal

È una lingua antichissima che è rinata un secolo e mezzo fa senza essere mai morta (il libro ripercorre la storia della sua «rinascita») ma è costantemente aperta al futuro. «È formidabile nella sua capacità di creare neologismi. Quando si è dovuto creare la parola per dire “treno” dopo millenni in cui l’ebraico era una lingua usata per la liturgia e la letteratura, si è applicato un suffisso nuovo alla radice che nella bibbia indica “carro”, “cavaliere”. Per noi è difficile da pensare, ma non esistono tempi del verbo. C’è un imperfetto che viene comunemente usato come futuro perché è un’azione in fieri e poi c’è un tempo perfetto che viene chiamato tempo passato. Il presente è solo in forma participiale: è una condizione, non è un’azione. Non dici “io mangio” ma “io mangiante”. L’ebraico dà molte sfide traduttive. L’italiano è una lingua così articolata nei modi e nei tempi di verbi che, a volte, bisogna anche prendersi delle libertà. Quando traduco un autore come Amos Oz, per esempio, non posso negargli tutte le potenzialità dell’italiano. Allora mi metto nei panni dello scrittore e faccio questo esercizio, se vuoi di incoscienza, immaginando cosa avrebbe usato dell’italiano se avesse scritto in italiano. Più un autore è grande, più è facile da tradurre perché la grande letteratura ti avvolge, ti conduce in qualche modo. L’esperienza più travolgente è stata certamente la traduzione di Una storia d’amore e di tenebra di Oz. L’ebraico è una lingua spiazzante e strabiliante in cui il significato sta solo in minima parte in ciò che è nel testo, il resto è tutto da esplorare». E alla fine del libro non conoscerete l’ebraico ma avrete voglia di mettervi sulle sue tracce.

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