Un incontro particolare 03/01/2023
Analisi di Daniele Scalise
Autore: Daniele Scalise
Un incontro particolare
Analisi di Daniele Scalise

Ebraismo siciliano dalle origini a oggi - QdS

E' alle soglie della pensione e dalla voce della donna traspare una qualche preoccupazione appena mitigata da una promessa di sollievo. Aver guidato per anni più di mille studenti non deve essere stato impegno da poco. Il collegio che fra poco consegnerà al suo successore è incastrato nel cuore dell'Italia, lontano dalle tensioni urbane ma non insensibile ai tormenti del mondo scolastico. Nel corso di una visita di cortesia, la conversazione converge sulle rispettive passioni, sugli interessi e i progetti che abbiamo coltivato, lei per la scienza pedagogica, io per l'ebraismo e per Israele.

Figlia del nord, la signora ha un piglio schietto senza che ciò minacci i modi cortesi. Nel mezzo della conversazione fa cadere una frase. Più che un cadere è un mormorare: "Quand'ero giovane ho trovato difficile avvicinarmi al mondo ebraico al punto da aver stabilito una distanza al limite dell'indifferenza".

Le chiedo come mai. La donna parla di una provenienza e una generazione che ben conosco perché in parte anche le mie: "Vengo da una famiglia di forte tradizione cattolica ma la religione non mi ha mai interessato perché l'ho sempre vista avvolta da finzioni, oscurata da riti noiosi e insensati, una religione fatta di minacce e punizioni da cui però non mi sono mai fatta soggiogare. Magari sarà colpa mia, della mia pochezza ma non sono mai riuscita a liberare la religione dalle molte interpretazioni fasulle, da una tendenza al compromesso che porta a peccare per poi a correre dal confessore in cerca di assoluzioni e salvezze impossibili. Mi sembrava più interessante dedicarmi ad altro. E prima di tutto ho cercato di dare senso all'esistenza impegnandomi nella costruzione di rapporti validi e impegnandomi sul lavoro".

Che tipo di rapporto ha vissuto con l'ebraismo?
La risposta è netta: "Come le dicevo, all'inizio me ne sono tenuta ben lontana perché percepivo che il discorso era inquinato da un eccesso di retorica. E la retorica, ben lungi dall'essere l'arte del persuadere e del bel parlare, è oggi uno degli imbrogli più fastidiosi che ci tengono in trappola".

Ancora non capisco, mi spieghi meglio.
"Ero consapevole che c'era stata una tragedia, la peggiore che l'umanità potesse immaginare e organizzare. Una tragedia che però a scuola, quand'ero studentessa, veniva solo accennata mentre all'esterno risuonava la grancassa delle ricostruzioni fantasiose. Sembrava che nessuno ne fosse stato responsabile. Tutti a vantarsi del proprio antifascismo, tutti eroici partigiani, tutti salvatori di uno, due, cento ebrei. Mi sembrava, ed era, una vera schifezza. Mi disinteressai alla storia che mi pareva taroccata".

Quale è stata la sua evoluzione, se mai ce n'è stata una?
"Col passare del tempo avevo l'impressione che quella rappresentazione passasse come la sola accettabile. I carnefici volenterosi - e cito non a caso il titolo del bel libro di Goldhagen che mi ha dato molto pensare - sembravano pacificati, soddisfatti che si fosse imposta la loro versione".

Eppure, non c'era solo la voce dei colpevoli e dei falsi costruttori di invenzioni.
"Io mi sentivo circondata e insieme nauseata. Consideri che sono cresciuta in un territorio dove qualche idiota omaggiava San Simonino. L'ebreo che conoscevo o era stato vittima di nazisti crudelissimi e compatito da italiani compassionevoli o l'erede di un popolo deicida. Per non dire dell'ultima versione, quella politica che negli anni Settanta andava per la maggiore e che identificava il popolo israeliano come la trasformazione della vittima in carnefice. In questo caso a salvarmi è stato il fatto che non mi sono mai fatto incantare dalle leggende della sinistra rancorosa. Però forse capirà che c'è poco da stupirsi se un'adolescente cresciuta in mezzo a tanta immondizia voglia scappare".

Cosa le ha fatto cambiare visione?
"La curiosità, che per me è come una febbre. Una febbre che a volte mi spossa ma dalla quale spero di non guarire mai".

In pratica?
"Ho ripreso in mano i libri di storia. Sono partita dalla Shoah ma non mi sono fermata. Da qualche parte avevo letto una frase che mi diede molto da riflettere e che diceva pressappoco così: noi ebrei siamo qualcosa di più che vittime. Che era poi quello che pensavo e penso di noi donne. Divento una furia quando sento dire 'prima le donne e i bambini' come se fossimo delle eterne minorenni e minorate. Come detesto sentire parlare di 'poveri ebrei', con quel tono untuoso di compatimento. Come non amo, viceversa, l'esaltazione dell'ebreo come essere dotato, perfetto, guerriero imbattibile ed eterno vincitore di premi Nobel. Gli stereotipi sono il nutrimento della retorica e la retorica è veleno. Ma vede, ciò che mi inquieta è la sorte dei giovani. Mi dico che se io, che mi considero una persona emancipata e libera, ho tanto faticato a uscire dal fango, dall'opacità e dalle menzogne, non so se ce la faranno le generazioni più giovani che mi sembrano meno attrezzate. Mi sono a lungo interrogata su come far arrivare un messaggio limpido, come stimolare la voglia di superare le superstizioni teologiche e ideologiche. Ho provato ma mi è sembrato di voler svuotare il mare con un cucchiaino".

Ognuno deve fare il suo ed è questo ciò che conta.
"Ma forse lei non sa quanto la scuola si agiti in un caos spaventoso e non solo per via del fatto che i tre quarti degli alunni preferiscono seguire Tik Tok sul cellulare piuttosto che la lezione di greco. C'è un problema più grave che ha a che vedere con le cancellazioni storiche e le ricostruzioni taroccate. Con la trasmissione di valori nulli. Con l'indifferenza e la stanchezza del corpo insegnante che è provato e sfiduciato. Di fronte a tutto mi consolo con un pensiero non proprio nobile: fra meno di sei mesi sarò fuori da queste mura".


Daniele Scalise