Disinformazione contro Netanyahu e propaganda contro Israele su Internazionale
Nel pezzo di Gwynne Dyer
Testata: Internazionale
Data: 18/09/2019
Pagina: 30
Autore: Gwynne Dyer
Titolo: L’affondo finale di Netanyahu alle elezioni in Israele

Riprendiamo da INTERNAZIONALE con il titolo "L’affondo finale di Netanyahu alle elezioni in Israele", il commento di Gwynne Dyer, scritto prima dell'esito del voto israeliano.

Quello di Internazionale è il solito articolo contro Israele e contro Benjamin Netanyahu, accusato di non volere la pace. L'ossessiva propaganda continua sul settimanale, secondo cui Netanyahu avrebbe stimolato la parte più oscurantista ed estremista dell'opinione pubblica dello Stato ebraico.

Ecco l'articolo:

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L’opera di Benjamin Netanyahu è quasi compiuta. Se vincerà le elezioni del 17 settembre e formerà l’ennesimo governo, il primo ministro più longevo della storia di Israele avrà assestato un colpo mortale alla “soluzione dei due stati” per il conflitto israelo-palestinese, nata con gli accordi di pace di Oslo del 1993. Hamas dovrebbe ringraziarlo per i suoi ripetuti servigi. Netanyahu e Hamas sono sempre stati quelli che i nostri amici marxisti chiamavano “alleati da un obiettivo comune”. Il primo ministro israeliano e l’organizzazione palestinese nutrono un profondo odio reciproco, ma condividono uno scopo: scongiurare la creazione di uno stato palestinese semindipendente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza prospettata dagli accordi di Oslo. A gestire la trattativa del 1993 era stata la sinistra israeliana, nella persona di Yitzak Rabin, eroe di guerra che voleva di cogliere l’occasione per siglare un accordo di pace permanente. Il suo interlocutore arabo era Yasser Arafat, terrorista diventato statista che guidava l’organizzazione laica Fatah, principale gruppo palestinese. Anche Arafat era disposto a trovare un compromesso per la pace.

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Benjamin Netanyahu

Radicalizzare la popolazione Naturalmente entrambi i leader dovevano affrontare una dura resistenza interna. I più ostili nei confronti di Arafat erano i fanatici islamisti del partito Hamas, mentre Rabin doveva temere soprattutto la destra ultranazionalista israeliana, di cui facevano parte le formazioni religiose ortodosse e gran parte dei coloni israeliani nei territori occupati. Gli accordi di Oslo hanno cominciato a sgretolarsi quando Rabin è stato assassinato da un estremista di destra israeliano, nel 1995. In quel momento si presumeva che Shimon Peres, ministro degli esteri del governo Rabin e premio Nobel per la pace insieme a Rabin e ad Arafat, avrebbe vinto le elezioni cavalcando l’ondata emotiva alimentata dall’omicidio. Ma la situazione era cambiata radicalmente tre mesi prima dell’avvio della campagna elettorale del 1996, quando tre attentati suicidi organizzati da Hamas avevano provocato la morte di 58 israeliani.
L’obiettivo di Hamas era quello di radicalizzare gli israeliani e spingerli verso i nazionalisti nemici degli accordi di Oslo, guidati da un certo Benjamin Netanyahu. Il piano ha funzionato perfettamente. Netanyahu ha formato il suo primo governo, e per cinque anni non si sono verificati altri attentati di quella portata. Netanyahu non era in combutta con Hamas, ma da ex soldato professionista aveva sicuramente capito la strategia dell’organizzazione. Da primo ministro ha fatto tutto quello che Hamas sperava, congelando gli impegni presi da Israele a Oslo fino al 1999, quando ha perso il potere. Tutto questo accadeva dieci anni prima che Netanyahu tornasse al governo, ma ormai la nuova strada era stata intrapresa. Negli anni successivi la soluzione dei due stati è stata riproposta soltanto per un breve momento. Dal 2009, quando Netanyahu è tornato alla guida di Israele, l’idea di uno stato palestinese è rimasta sempre un’utopia.

Piccola posta in gioco A questo punto non esiste più il rischio che la proposta possa riaffiorare, nemmeno se Netanyahu dovesse perdere le elezioni. La soluzione dei due stati è morta e sepolta. Probabilmente Hamas preferirebbe comunque Netanyahu a qualsiasi altro primo ministro israeliano, ma dal punto di vista dell’organizzazione palestinese la missione può dirsi compiuta. Ma allora qual è la posta in gioco delle elezioni in Israele? Non un granché, a dirla tutta. Alle elezioni dell’aprile scorso il partito di Netanyahu, il Likud, ha ottenuto la maggioranza insieme ai suoi consueti partner di governo (l’estrema destra e i partiti religiosi), ma non è riuscito a formare una coalizione. Un partito che era stato decisivo per formare la coalizione precedente, infatti, ha preteso la cancellazione dell’esenzione automatica dal servizio militare per i numerosi uomini ortodossi che studiano per anni nei seminari. Netanyahu non avrebbe potuto fare questa concessione senza perdere il sostegno dei partiti religiosi, così ha deciso di indire nuove elezioni. Il piano potrebbe funzionare: secondo l’ultimo sondaggio consentito prima delle elezioni, il blocco di destra dovrebbe ottenere una solida maggioranza di 66 seggi sui 120 complessivi del Knesset.
È possibile che il Kahol lavan, partito di centrodestra guidato dall’ex comandante delle forze armate Benny Gantz, ottenga più seggi rispetto al Likud e di conseguenza anche il diritto ad avviare per primo le consultazioni per la formazione di un nuovo governo, ma è anche probabile che il tentativo fallisca, perché secondo i sondaggi la coalizione di partiti che fa capo a Gantz, l’alleanza Blu e bianco (i colori della bandiera israeliana) dovrebbe fermarsi a 54 seggi. Dunque possiamo presumere che dal 17 settembre Netanyahu sarà nuovamente il primo ministro israeliano, e questo nonostante sia accusato di corruzione e nelle prossime settimane sia atteso dalle udienze preliminari. Netanyahu nega tutte le imputazioni e non sarebbe costretto a dimettersi fino a un’eventuale condanna definitiva in appello che potrebbe arrivare tra diversi anni. Ma come è possibile che Netanyahu continui a vincere? Oltre alle disavventure legali, il primo ministro ha ottenuto risultati poco entusiasmanti sul fronte interno (la maggior parte degli israeliani si considera in ristrettezze economiche), senza contare che dopo 13 anni la gente tende a stancarsi di vedere sempre la stessa faccia.

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