Il segreto del successo di Israele
Analisi di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio
Data: 21/01/2019
Pagina: 1
Autore: Giulio Meotti
Titolo: Esportare il modello Israele
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 21/01/2019, a pag.1 con il titolo "Esportare il modello Israele" il commento di Giulio Meotti.

Immagine correlata
Giulio Meotti

Nessuno lo ha mai visto, ma l’unicorno vive in molte leggende occidentali. E’ il celebre animale con un corpo di cavallo, la coda leonina e sulla fronte un unicorno attorcigliato. E’ presente sullo stemma reale inglese e negli arazzi dei più raffinati musei e palazzi del mondo, dai Cloisters a New York a Cluny in Francia. Lo si è incrociato sul grande schermo in “Fantasia” di Walt Disney o in “Images” di Robert Altman. Nel mondo della tecnologia, gli unicorni invece sono molto reali e indicano le start-up che valgono almeno un miliardo di dollari. Il termine è stato coniato dalla venture capitalist americana Aileen Lee nell’articolo “Welcome to the Unicorn Club” e da allora è decollato. Gli Stati Uniti e la Cina hanno 125 e 77 unicorni.

Immagine correlata

L’Europa ne ha 30. Gli israeliani, secondo il database di TechAviv, hanno creato ben 18 unicorni. Al recente concorso delle Nazioni Unite per le migliori start-up del turismo (tremila partecipanti da 132 paesi), quattro su dieci erano israeliane. Come è possibile che un paese di nove milioni di abitanti faccia in proporzione molto meglio di un continente di cinquecento milioni di persone? Il banchiere ebreo-tedesco Siegmund Warburg, durante la Guerra dei sei giorni del 1967, paragonò Israele alla Prussia del XVIII secolo. Warburg rimase colpito dal Weizmann Institute a Rehovot, il centro di ricerca fondato dal famoso chimico israeliano che diverrà primo presidente dello stato. Nell’anfiteatro di Rehovot, Warburg si soffermò su una citazione incisa su tavole di pietra: “La scienza porterà in questa terra sia la pace sia il rinnovamento, creando qui le sorgenti di una nuova vita materiale e spirituale”. La pace Israele ancora non l’ha trovata, ma il suo rinnovamento è senza precedenti fra le democrazie occidentali. Come ha detto l’oracolo del capitalismo americano Warren Buffett quando ha investito cinque miliardi di dollari in Israele, “non è importante se un missile distruggerà uno stabilimento, perché lo si ricostruisce: ciò che è importante è il talento dei lavoratori”. Il piccolo Israele è il più talentuoso dei paesi occidentali. Il paese è stato appena nominato il terzo più innovativo al mondo dal World Economic Forum. Israele raccoglie venture capital pro capite a un ritmo trenta volte superiore all’Europa. Israele è da poco diventato il terzo paese al mondo per numero di start-up sull’intelligenza artificiale, secondo solo a Stati Uniti e Cina, mentre Tel Aviv è il terzo maggiore hub dopo San Francisco e Londra. Israele ha il più grande giacimento al mondo, ma non di petrolio, quanto di cervelli e idee. Al Global Innovation Awards di Pechino, due start-up israeliane sono arrivate prima e seconda. Alvaro Pereira, capo economista dell’Ocse, ha detto che “negli ultimi quindici anni l’eco - nomia israeliana è cresciuta più rapidamente e in modo più coerente di quasi ogni altro paese”. Non sono soltanto ricette economiche, è un modello culturale e di società. Sembra che Israele abbia da insegnare molto ai paesi europei: Israele, il paese che detiene l’uno per cento della popolazione e il due per cento della terra di tutto il medio oriente, ma che tutti sognano di voler cancellare dalla mappa? Israele, condannato all’Onu ventuno volte di più del gulag nordcoreano? Il paese dei checkpoint, delle maschere antigas, delle batterie antimissile, dei rifugi, degli accoltellamenti, delle Intifade in cui c’erano più candidati al martirio che giubbetti esplosivi, dei confini chiusi, delle siringhe di atropina in caso di guerra chimica, dei riservisti e della leva obbligatoria? “In Israele siamo isolati, non abbiamo niente, né il petrolio né le risorse, così dobbiamo darci da fare”, dice al Foglio Ben Dror Yemini, columnist del principale quotidiano ebraico, Yedioth Ahronoth. “Appena hanno messo piede in questa terra, gli ebrei dovevano concentrarsi sulla costruzione di un paese. Ci siamo concentrati sulla desalinizzazione, l’energia solare e altro. Non avevamo opzioni. E questo è parte dell’ottimismo israeliano. Molti europei stanno andando bene, ma qui a Parigi dove mi trovo vedo molta depressione, non solo per i gilet gialli, gli europei non sorridono quasi mai. Noi israeliani oggi siamo leader mondiali in molti campi. E’ questo che noi non abbiamo, l’autoflagellazione. E anche gli arabi in Israele con cui puoi parlare non ti diranno di apartheid e sionismo, ma di quanto si trovano bene. Mia nonna è arrivata cento anni fa dal più primitivo dei paesi arabi, lo Yemen, non avevano niente. A Gaza oggi hanno i soldi, molti soldi, ma li impiegano nei tunnel. Paragona quanto investono nella vita delle persone e nell’industria della morte che è il terrorismo. Nessuno impedisce loro di leggere, informarsi, studiare, ma pensano solo alla vendetta e alla morte. In Israele abbiamo creato dal niente qualcosa che non ha uguali o precedenti al mondo. Per questo sorridiamo”. Israele stato dei paradossi. “Siamo il paese che più ha contribuito all’umanità e il paese più odiato da quella stessa umanità”, continua con il Foglio Ben Dror Yemini. “Israele è uno dei leader mondiali nello sviluppo di farmaci, sistemi di irrigazione (il primo al mondo nel trattamento delle acque reflue), nei brevetti (primo al mondo per quelli medici) e nelle pubblicazioni scientifiche (secondo al mondo nelle tre riviste più importanti). Non esiste un indice di ‘contributo pro capite all’umanità’. Ma se esistesse, Israele sarebbe al primo posto”.

Milioni di persone devono la vita ai sistemi di irrigazione e ai prodotti agricoli provenienti da Israele. “Non solo il Terzo mondo”, continua conversando con il Foglio il giornalista Ben Dror Yemini. “Israele è lontano dall’essere perfetto. Ma nonostante tutti i problemi, è un miracolo. Uno stato fondato da settanta comunità della diaspora, la maggior parte delle quali non sapeva nulla della democrazia. Uno stato di poveri rifugiati diventato una potenza mondiale nell’agricoltura e nell’irrigazione e nella depurazione delle acque e negli sviluppi dell’alta tecnologia. Uno stato che non vive della spada, ma della ricerca, dello sviluppo e dell’imprenditorialità. Uno stato in cui i discorsi sul boicottaggio e la sospensione degli investimenti nascondono il fatto che è il paese dove si investe di più al mondo”. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ad aprile affronta le elezioni più difficile della sua lunga storia politica, otto anni fa disse che Israele sarebbe entrato nel club dei quindici paesi più ricchi del mondo. Secondo l’Organizzazione per lo sviluppo economico, in un rapporto pubblicato pochi mesi fa, Israele ora è il numero ventuno e potrebbe raggiungere l’obiettivo prefissato da Netanyahu nei prossimi quarant’anni. Scorgere così lontano nel futuro è un’attività rischiosa, specie per un paese minacciato di distruzione come Israele, ma l’Ocse non prevede gli eventi. Si concentra sulle tendenze a lungo termine, in particolare quelle demografiche. Già, la demografia. A Netanya, sulla costa israeliana, c’è appena stata la fiera “Baby Land”. In tre giorni, 50 mila persone hanno percorso il centro congressi con i passeggini da tre bambini. Religiosi e laici, arabi ed ebrei, tutti in missione: comprare pannolini scontati, latte in polvere, lenzuola. Israele ha il più alto tasso di crescita della popolazione nel mondo ricco e sviluppato. Le famiglie israeliane hanno 3,1 bambini rispetto a 1,7 in altri paesi sviluppati e 1,3 in Italia. A questo ritmo la popolazione di Israele, oggi di quasi nove milioni di abitanti, salirà a 15 milioni nel 2048, senza contare l’immigrazione. Sarà grande come un medio paese europeo, mentre l’Europa sta perdendo popolazione. Anche tra gli ebrei laici, tre bambini sono la norma. Le famiglie con uno o due figli sono guardate con curiosità. Elly Teman, antropologa medica e docente al Ruppin College, dice che “in Israele l’intera base della società è familiare”. L’atteggiamento israeliano verso i bambini contamina anche gli immigrati, dice Teman. E fa l’esempio dell’ondata di immigrati arrivati dall’ex Unione Sovietica. Arrivarono con un solo figlio, plasmati dal declino demografico russo. Oggi mediamente ne hanno tre. Alcuni esperti israeliani ora paventano la minaccia opposta a quella dell’occidente colpito dalla birth dearth, la carestia delle nascite: Israele rischia l’esplosione demografica. All’Israel Forum for Population, Environment and Society (in ebraico Tsafuf, affollato), l’urbanista Rachelle Alterman ha tenuto una conferenza che descrive Israele fra quindici anni. Una distesa di cemento da Ashkelon, al sud verso Gaza, a Nahariya, a nord verso il Libano, sul modello di Singapore, Hong Kong, i Paesi Bassi e il Belgio. La Shoresh Institution, guidata dall’economista Dan Ben-David, ritiene che Israele sarà la nazione più affollata del mondo. In Israele di sicuro la crescita demografica è il grande traino dello sviluppo economico impetuoso. Israele è l’unico paese occidentale che ha ridotto il proprio debito in percentuale del pil nel 2012, quando il debito aumentava in tutti i paesi occidentali e in alcuni (come l’Italia) schizzava alle stelle. A causa del declino del debito, Israele è l’unico paese occidentale il cui rating è sempre aumentato dal 2008, quando scoppiò la crisi dei mutui subprime e il rating di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Austria, Belgio e Giappone si riduceva a causa di un enorme aumento dei debiti. Quando fu sottoscritto il trattato di Maastricht, i debiti di Israele erano il cento per cento del pil. Oggi sono la metà, tanto che il ministro delle Finanze Yuval Steinitz dichiara che “Israele guida il mondo in termini di riduzione del debito”. Il suo mercato del lavoro è alla piena occupazione. Il tasso di disoccupazione nel paese è di 4,1, come gli Stati Uniti, rispetto al 6,8 dell’Unione europea. “Israele è passato da un enorme debito e un’inflazione galoppante a un’eccedenza nella bilancia dei pagamenti e un’inflazione che vorremmo fosse più alta”, ha detto il governatore della Banca d’Israele, Karnit Flug. A novembre, il ministro dell’Economia Eli Cohen ha detto che Israele mira a entrare a far parte dei primi dieci paesi al mondo per pil pro capite. L’agenzia di rating Standard and Poor’s ha aggiornato il rating di Israele alla doppia AA, il più alto che Israele abbia mai avuto, come la Germania e altri 17 paesi. L’agenzia di rating, come aveva fatto già Moody’s, stima che l’economia israeliana crescerà del 3,3 per cento tra il 2018 e il 2021. Il settore dell’innovazione tecnologica israeliano sta crescendo più velocemente dell’offerta, portando a una carenza di 15 mila lavoratori necessari per coprire le posizioni, come ha rivelato uno studio dell’Israel Innovation Authority. Un rapporto di Deloitte&Touche ha dimostrato che in sei campi chiave – telecomunicazioni, microchip, software, biofarmaceutica, dispositivi medici ed energia pulita – Israele è secondo solo agli Stati Uniti per innovazione. Come riporta il Financial Times, “Israele spende di più in ricerca e sviluppo di qualsiasi altro paese sviluppato” e ha superato anche la tigre Corea del Sud, trasformando lo stato ebraico nella Hong Kong del medio oriente. Un programma statale che ha facilitato la crescita in questo settore è “Yozma” (in ebraico, iniziativa), istituito per liberare l’economia israeliana da un’eccessiva dipendenza dal settore pubblico. Secondo l’Ocse, è “il programma di maggior successo nella storia della politica di innovazione di Israele”. Ogni anno, le autorità israeliane organizzano la Fuel Choices and Smart Mobile Initiative, radunando start-up e innovatori da ogni parte del mondo. Senza dubbio Israele è più trivellazioni e mega infrastrutture. La recente scoperta di immense risorse di gas naturale al largo delle coste israeliane è stata una svolta per l’economia, e ha portato il paese all’indipendenza energetica. Il giacimento di gas naturale Tamar, con dieci trilioni di metri cubi di gas naturale, ora soddisfa il 95 per cento della domanda del paese. Centinaia di chilometri di linee ferroviarie saranno costruiti nel centro di Israele: è il più grande progetto infrastrutturale pianificato per i prossimi decenni, costerà centinaia di miliardi e permetterà di collegare regioni e città a Tel Aviv. Il paese non si ferma mai. Secondo Yaron Samid, uno dei grandi nomi delle start-up israeliane, imprenditore tecnologico direttore di consigli di amministrazione di aziende del valore di 500 milioni di dollari, fondatore di BillGuard che ha aperto la strada al crowdsourcing per proteggere i consumatori (una delle applicazioni di finanza personale in più rapida crescita nella storia), l’Europa ha molto da imparare da Israele. Lo stato ebraico è al 16esimo posto nel rapporto 2017-2018 del Forum economico mondiale sulla competitività, migliorando di otto posizioni la propria performance rispetto all’anno precedente. E’ la prima volta che Israele è tra i primi venti. “Israele è densamente popolato, è un grande cluster di compagnie tecnologiche, un microsistema, da Tel Aviv a Herzliya in dieci minuti di auto hai il 90 per cento delle start-up israeliane”, dice Samid al Foglio. “Questo è sicuramente un vantaggio che l’Europa non ha. E’ come la Silicon Valley per gli Stati Uniti. Ma c’è un aspetto culturale israeliano, che risale a 70 anni fa. Sto parlando con lei da un grattacielo di Tel Aviv, ma allora qui c’era il deserto e la gente venne a costruire un paese dal niente. I miei nonni sono tutti morti nella Shoah, in Germania, in Polonia, e i loro figli hanno fatto tutto dal niente. Un terzo elemento culturale è la facilità nell’ottenere denaro per aprire una start-up, e se fallisce ne apri un’altra. In Europa se fallisci, sei finito. Voi europei avete paura di fallire, in Israele no. Questa è cultura. Il quarto elemento è il servizio militare che si basa molto sull’high tech. Un diciottenne qui entra subito a contatto con un mondo speciale, e quando finisce entra nella società civile con una consapevolezza molto forte. Un ventunenne israeliano che ha finito il militare è il frutto di questa cultura. In Europa non sapete neppure cosa sia l’esercito. In Israele la prima domanda che ti fanno è: ‘Da quale unità vieni?’. In Israele entri in un qualsiasi bar e senti parlare di start-up”.

Come si è arrivati a tutto questo partendo da una economia socialista fatiscente? “Il più grande evento in 70 anni di storia economica israeliana si è verificato il 1 luglio 1985”, scrive Sami Peretz su Haaretz. “Quel giorno, l’economia ha subito un cambio di sesso: la più drammatica transizione da un’economia socialista a una capitalista che conosciamo”. Fu l’inizio del “pro - gramma di stabilizzazione economica” di Shimon Peres (il pil sarebbe passato da 30 miliardi nel 1984 a 300 nel 2014). L’economia fu aperta alle importazioni, il mercato valutario liberalizzato, il deficit ridotto e le imprese statali privatizzate. Ma già nel 1977 il ministro delle Finanze, Simcha Ehrlich, aveva avuto un’idea: liberare l’economia e rendere la vita migliore per la gente comune. Ehrlich, che possedeva una piccola fabbrica di ottica a Tel Aviv, era un uomo basso, dalle guance rosate e molto laconico. I media presero a chiamarlo “il seguace di Milton Friedman”, il guru del libero mercato che aveva vinto il Nobel per l’Economia. Ma Ehrlich non sapeva leggere e scrivere in inglese, né conosceva Friedman. Però aveva una visione: “Israele è troppo piccolo e troppo povero per mantenere uno stato sociale”. Al tempo, l’economia israeliana aveva più cose in comune con i paesi comunisti che con i paesi occidentali. La vignetta di un giornale israeliano, il Jerusalem Post, rifletteva bene le ansie del paese. Un israeliano cerca di spiegare il significato delle riforme liberiste a un altro. “E’ semplice”, dice il primo. “Lasciamo che la moneta israeliana diminuisca di valore, consenta lo scambio in dollari, le esportazioni diventano a basso costo e nel lungo periodo l’economia si rafforza”. “E nel breve?”, chiede il secondo. “Facciamo la fame”, risponde il primo. Le riforme di Ehrlich furono meno ambiziose del previsto, ma un vero “seguace di Friedman” come Benjamin Netanyahu, che si servì dell’aiuto dell’economista di George W. Bush John Snow come consulente, se ne sarebbe ispirato. Sotto Netanyahu, Israele ha calato le tasse dal 60 al 49 percento, ha ridotto drasticamente il welfare, ha alzato l’età pensionabile da 65 a 67 anni, ha privatizzato la compagnia aerea El Al, ha ridotto il ruolo dello stato nel settore telefonico, dell’elettricità e delle banche. Al tempo, l’economia di Israele era una bizzarra combinazione di cronico assistenzialismo e di high tech fiorito alla fine degli anni Novanta. Come scrive l’economi - sta americano George Gilder in “The Israel Test”, “il governo negli anni Novanta possedeva quattro grandi banche, duecento società e gran parte della terra. Le tasse di Israele salirono al 56 per cento dei guadagni totali, fra le più alte del mondo”. Da ministro delle Finanze, Netanyahu si trovò di fronte a un settore pubblico che rappresentava il 55 per cento dell’economia israeliana, rispetto al 45 per cento del settore privato, in netto calo. E lo paragonò a un uomo magro e in forma, il privato, costretto a portare un uomo pesante sulle spalle, il pubblico. “Se non cambiamo lo scenario, collasseremo”, disse Bibi. Così bloccò le assunzioni nel settore pubblico, ridusse la rete di protezione sociale, convinse i disoccupati a cercare lavoro, vendette il vendibile e costrinse i porti a competere. Come scrive Gilder, “in 25 anni – a partire da quelle prime modeste riforme fiscali della metà degli anni Ottanta – Israele ha compiuto la più travolgente trasformazione nella storia dell’economia”. L’arrivo tra il 1989 e il 2000 di un milione di immigrati avrebbe dato un’altra sterzata all’economia. La società ha assorbito tutti e oggi mostra livelli di coesione interna assente, ad esempio, in un paese come la Francia. Basta leggersi l’Israeli Democracy Index 2018. La percentuale di israeliani che definiscono la situazione generale del paese come “buona” o “molto buona” è la più alta mai registrata. Anche il 64 per cento dei cittadini arabi è soddisfatto. L’Indice di Sviluppo umano dell’Onu che da trent’anni assegna ai paesi un punteggio calcolato sulla base di parametri come reddito, aspettativa di vita e istruzione, colloca Israele in 18esima posizione su 188 paesi, entrando a pieno titolo nella categoria dei paesi a “sviluppo umano molto elevato”. Solo gli abitanti di Svizzera, Danimarca e Islanda risultano più soddisfatti della propria vita dei solitamente lamentosi israeliani. “La storia di Israele lo rende un’eccezione tra le nazioni”, dice al Foglio Nahum Barnea, decano del giornalismo israeliano, editorialista principe del maggiore quotidiano del paese, Yedioth Ahronoth. Nel 1996, Barnea perse il figlio Yonatan in un attentato terroristico di Hamas a Gerusalemme, quando su un autobus saltarono in aria 17 israeliani. “Sono passati 70 anni dall’istituzione dello stato, ma vediamo ancora il nostro paese come un progetto, una visione da realizzare, un sogno che dovrebbe diventare realtà”, dice Barnea al Foglio. “Questo è uno dei motivi per cui la maggior parte degli israeliani non dà per scontato il proprio paese, il proprio stato. Il suo destino, crescita, fallimento, successo, sono diventati una questione personale. Abbiamo assistito a un lungo periodo di successo economico, basato principalmente sul nostro settore hi-tech. La sicurezza, una questione importante in Israele, è migliorata. La vita è migliore che in qualsiasi momento nel passato. Come nazione di emigrati che sono venuti in Israele a mani vuote, possiamo apprezzare la differenza tra passato e presente. Ciò non significa che il nostro problema, come stato e come società, sia svanito. Israele è un paese senza confini riconosciuti. Un accordo che porrà fine al nostro conflitto centenario con i palestinesi non è in vista e ha effetti negativi sulla nostra sicurezza, morale e politica. L’Iran è un altro grosso problema”. Secondo Barnea, Israele come paese occidentale ha molte qualità da offrire alle altre democrazie: “Non sono sicuro se possiamo servire da modello ad altri paesi occidentali. Ogni paese ha la sua forza e le sue debolezze. Posso citare alcune delle nostre qualità: innovazione, ambizione, pensare fuori dagli schemi, scetticismo, spirito democratico, unità nazionale in tempi di emergenza”. “Ci sono differenze molto chiare fra la società israeliana e quasi tutte le società occidentali, siamo un paese occidentale – studi, innovazione, economia, Nobel – l’israeliano medio è come un italiano medio, vanta uno stile di vita occidentale, ma stranamente la demografia va da un’altra parte”, dice al Foglio Ofir Haivry, storico, vicepresidente dello Herzl Institute di Gerusalemme, fra i fondatori dello Shalem College, autore di saggi come “John Selden and the Western Political Tradition” per la Cambridge University Press. Haivry parla di un aspetto decisivo di Israele: il minor ruolo del welfare, rispetto all’occidente. “Negli ultimi anni, il tasso di natalità sta crescendo fra le famiglie laiche, non quelle religiose. Ci sono due elementi. In una società in conflitto, il tasso di natalità è più evoluto e forte, il boom delle nascite dell’Europa è stato dopo la Seconda guerra mondiale. Più una società si sente sicura, senza pericoli, più il tasso demografico scende. Puoi dare più risorse a te stesso quando sei in pace. In America dopo l’11 settembre 2001 c’è stato un forte tasso demografico, che negli ultimi anni è sceso. Oggi l’America è come l’Europa. Una società in conflitto è più coesa, porta più capitale sociale ad avere più figli. L’elemento centrale della società israeliana è la famiglia in una dimensione diversa da quella classica. In Israele, la famiglia è molto più importante e centrale dello stato. Nei paesi europei ci sono molti movimenti contro la centralità della famiglia. La religione ebraica ha festività in gran parte familiari, la Pasqua, il Capodanno, a parte il Kippur che è individuale, tutte le altre feste sono in casa. La continuità familiare in Israele è centrale, mentre in occidente non lo è più. Per il 90 per cento degli israeliani, la maggioranza assoluta dei laici, quando c’è la Pasqua si festeggia in famiglia. In Israele l’individualismo è molto temperato. Non è esasperato come in occidente. Le donne single che hanno un figlio in occidente sono molto comuni. Il padre non esiste. In Israele questo fenomeno è irrilevante. Anche le coppie gay in Israele sono quelle che hanno più figli di tutto il mondo occidentale. Fino al 2000-2001, in Israele esisteva un sostegno alla famiglia per ogni figlio. La crisi spinse Netanyahu a tagliare il welfare. E questo portò al crollo demografico fra gli arabi, che passarono da sei a tre figli, mentre fra gli ebrei aumentò”. La grande differenza fra Europa e Israele è dunque la relazione fra welfare e società. “L’Italia quando era un paese più povero e con meno welfare, aveva molti figli. Lo stato sociale in Italia e in occidente ha preso il posto della famiglia. Gli italiani hanno dimenticato come camminare da soli. In Israele quando lo stato sociale ha avuto meno soldi e risorse, c’erano ancora le tradizioni familiari a sostenere la società. Ogni responsabilità che si prende il welfare, la trasporta in società e l’individuo si sente deresponsabilizzato. Mio padre, orfano a nove anni, a quattordici è andato a lavorare. Il senso di responsabilità dell’educazione dei figli in Israele appartiene alla famiglia. La società in cui lo stato è più piccolo ha bisogno di aiuto dalle persone e dà una spinta alle persone, nel volontariato ad esempio, che in Israele è molto forte. Qui c’è sempre bisogno di difendere lo stato dai nemici, in occidente il senso del pericolo è scomparso, e la leva militare è un laboratorio sociale importante. Per i nostri giovani, lo stato non è una estensione dei diritti, ma della famiglia e della nazione”. Poi c’è l’aspetto religioso, forte in Israele e fragile in Europa. “L’Italia un tempo era cattolica, anche i comunisti erano cattolici. A tutti era chiaro che la cultura italiana era ispirata al cattolicesimo occidentale. Negli anni si è imposta l’idea che lo stato deve essere neutrale, secolarizzato. Avete chi vuole togliere i crocifissi, ma l’opinione pubblica è legata all’identità. Come in America c’è un laicismo esasperato. In Israele non è mai esistita una identità religiosa che non sia anche culturale e nazionale, ma gli ebrei nel mondo e in Israele sono in maggioranza laici, secondo standard occidentali. Il 90 per cento degli israeliani partecipa alla tradizione religiosa: la circoncisione non è obbligatoria ma il 97 per cento di noi la esegue, così come la mezuzah alla porta è nel 99 per cento delle case. E’ un po’ come fino a due generazioni fa la storia inglese che era intimamente connessa alla Church of England”. Uno studio del Jewish People Policy Institute ha rilevato che l’83 per cento dei cittadini ebrei di Israele considera la propria nazionalità “significativa” per l’identità. L’80 per cento dice che la cultura ebraica è “significativa”. Più dei due terzi (69 per cento) cita la tradizione ebraica come importante. “E questo rafforza Israele” continua lo storico Ofir Haivry. “C’è una connessione diversa fra uno stato civile e astratto e uno stato nazionale. Lo stato di Locke e Hobbes è uno in cui nessuno vuole combattere, lo stato occidentale è un apparato tecnico, a cui pago le tasse e che mi fornisce diritti. E’ una visione che crea un abisso fra l’individuo e la società. Invece fra gli israeliani lo stato è lo ‘stato della nazione ebraica’, e questo crea una realtà dove non puoi dividere lo stato dall’identità nazionale e culturale. In molti paesi europei, quello che lo stato ti fa sentire tutto il tempo è ‘non solo non sono interessato alla tradizione, ma la voglio combattere’. E’ questo ad esempio un difetto dell’Unione europea. Ho fatto il dottorato a Londra e ho visto come in un paese europeo tutti i sistemi statali siano indirizzati a combattere la cultura. In Israele è il contrario. Prendi l’immigrazione. In occidente c’è questa idea delle élite che lo stato deve essere ‘cieco’. Devo ricevere ogni migrante, anche se viene dalla società dove esiste la poligamia, e questa persona deve poterne beneficiare anche qui. Lo stato occidentale però non ha cultura e non sa come opporsi. In Israele siamo contrari a una immigrazione ‘cieca’. Se vogliono venire qui, noi diciamo che come ogni stato abbiamo il diritto di stabilire i criteri per l’accesso. In Inghilterra questi criteri sono professionali. Anche in occidente si potrebbe fare una forma di ‘legge del ritorno’ come in Israele per gli ebrei, ma solo se gli stati occidentali valorizzassero la cultura. Può l’Italia decidere ad esempio che vuole migranti che appartengono alla propria cultura? In Israele per questa ragione abbiamo ricevuto centomila neri dall’Africa di origine ebraica. I migranti africani economici invece non li abbiamo accettati. Ma tutti e due sono di colore. Abbiamo preso un milione di migranti dall’Unione Sovietica, l’equivalente della Francia che emigra in America, che ha portato a una crisi economica forte a causa di questa ondata, ma erano parte della nostra cultura. Come stato devo decidere quale migrante voglio. Poiché Israele è sempre più lo stato della nazione ebraica, e non ha un welfare state cieco all’identità, questo non lo porta a ingraziarsi la minoranza araba. E’ anche la forza dell’identità: la minoranza è protetta, sta bene, tutelata, ma resta una minoranza, non come in Europa”. In Israele non esiste il multiculturalismo alla europea. “Per avere successo, il multiculturalismo deve cancellare l’identità della maggioranza. L’egemonia deve finire. Poiché ci saranno dei bambini musulmani in classe, allora togliamo il crocifisso. Cosa comporta? Il multiculturalismo è un terzomondismo trapiantato in occidente. Gli europei, cattivi col colonialismo, devono accettare il trapianto anche in occidente. In Israele guardiamo a tutto questo come a un suicidio culturale. Posso capire la Germania che, a causa del nazismo, voglia cancellare la propria identità. Ma la storia italiana, coi suoi mille anni, non deve essere cancellata. Eppure questo fa il multiculturalismo”. Poi c’è la questione dell’innovazione. “Un fattore culturale di alto tasso di innovazione fra gli ebrei fa parte della nostra storia”, prosegue Haivry. “Ma anche nell’Europa occidentale fino a molti anni fa c’era molta innovazione, che è finita. La cultura occidentale è diventata anti innovazione. Il welfare crea anche qui una passività culturale e sociale che non aiuta l’innovazione. Gli israeliani diventano indipendenti molto presto, a 18 anni escono di casa. In Israele un trentenne che sta con i genitori, come in Italia, è impensabile. Dopo la leva da noi un ragazzo fa un viaggio all’estero per sei mesi o un anno. Non rientra quasi mai a casa dei genitori. Da noi non esiste il brain drain, la fuga dei cervelli, mentre in Italia siete diventati esperti in questo. In Israele abbiamo tagliato molto il numero di dipendenti dello stato, abbiamo alzato l’età pensionabile, abbiamo deregolamentato, abbiamo tagliato molti sussidi sociali. Non abbiamo inventato niente. E lo facemmo durante la Seconda Intifada, quando la nostra economia è entrata in recessione. Avevamo di fronte una scelta: cambiamento o declino. La rana se la metti nell’acqua bollente salta via. Se la metti a fuoco lento, ci muore senza accorgersene. Noi siamo saltati fuori. All’Europa direi: più identità e più responsabilità portano a più coesione, è questo che vi manca di più. Scrollatevi di dosso il multiculturalismo che sta vincendo la battaglia e vi fa perdere la guerra. In ebraico c’è un detto: ‘L’intervento chirurgico ha avuto successo ma il paziente è morto’. E’ questa l’Europa”. Secondo Yossi Klein Halevy, intellettuale ebreoamericano fra i più noti a Gerusalemme, collaboratore del New York Times e altre testate, Israele ha avuto successo perché ha saputo gestire le contraddizioni. “Siamo al centro dei paradossi umani”, dice Klein Halevy al Foglio. “Come coniugare sicurezza e democrazia? Siamo una democrazia sotto assalto dalla nascita. Siamo al centro fra laicità e religione. Siamo stato laico in terra santa. Siamo fra oriente e occidente. Siamo al centro degli scontri fra norme democratiche e bisogno di uno spazio culturale collettivo. E potrei andare avanti. La natura dell’identità israeliana è la gestione delle contraddizioni. Ho paura del futuro della democrazia israeliana e noi siamo più vulnerabili a causa della pressione delle minacce su di noi. Oltre i propri confini, Israele ha missili e tunnel che hanno il preciso scopo di distruggere il sogno israeliano, non di abbracciarlo come vorrebbero fare i messicani in America. Ma se guardo a questi 70 anni di esistenza di Israele, vedo la capacità di gestire la tensione. Se prendiamo la Cisgiordania, ritirarsi a un confine di dieci chilometri o mettere a rischio la democrazia e restare. Ho molte ansie. Ma l’Europa ha qualcosa da imparare da noi. Facciamo ogni giorno compromessi fra ideale e reale”.

La tentazione europea è dividersi lungo gli estremi politici, come sull’immigrazione, conclude parlando con il Foglio Yossi Klein Halevy. “Capisco la paura sull’immigrazione, ma l’estremismo politico non è più una opzione per l’Europa. Avete perso questa possibilità e avete bisogno di pragmatismo. C’è bisogno di sobrietà politica che è l’equilibrio fra autodifesa e principi. L’Europa e gli ebrei sono emersi dalla Seconda guerra mondiale con due strade opposte: l’Europa ha abdicato alla forza, gli ebrei hanno deciso di difendersi, l’Europa è fatalista, pessimista, noi ebrei che abbiamo perso un terzo della nostra popolazione abbiamo scelto la vita. Non è una decisione consapevole, conscia. L’Europa ha un ‘death wish’, noi israeliani l’opposto. Mio padre è un sopravvissuto alla Shoah, aveva quel tipo di pessimismo, nel 1945 decise di non voler mettere figli al mondo dopo quello che aveva visto. Ma alla fine ha avuto due figli. La nostra innovazione viene dalla qualità dell’immigrazione che abbiamo avuto dall’Unione Sovietica, che era l’élite della superpotenza sovietica. A quel tempo, Israele stava declinando economicamente e quell’immigrazione fu una forza enorme. Un’altra ragione è la centralità dell’esperienza militare in Israele, è un paese fondato sull’esercito ma informale, non militarizzato, saluti gli ufficiali con il nome e mai i gradi, è la capacità della società israeliana di sacrificarsi, coraggio, innovazione, che poi si rovescia nel settore civile. La creatività è strategica. Non conosciamo conformismo come in Europa”. Secondo David Schueftan, scienziato politico fra i più stimati in Israele, reduce da due anni di insegnamento alla Georgetown University e di cattedra all’Università di Tel Aviv e Haifa, dove dirige il programma internazionale di studi per la sicurezza, Israele sarebbe un grande modello “se soltanto l’Europa non ci odiasse. Sono sorpreso che ci sia un livello altissimo di antisemitismo in Europa. Voi europei non capite come mai abbiamo così tanto successo. Noi israeliani abbiamo imparato tanto dall’Europa, ora è il turno dell’Europa di imparare da noi israeliani. La nostra unicità viene da un mix di millenni di cultura ebraica, e dall’essere in un ambiente molto ostile e barbarico in cui dobbiamo difenderci. L’Europa non si difende più, pensa che sia compito degli Stati Uniti. Noi rispettiamo l’Europa per la sua cultura ed economia, ma non possiamo rispettarla quando cessa di battersi per quello in cui crede. Noi israeliani siamo arroganti, voi europei siete narcisisti. L’ottimismo in Israele si riflette nel numero dei bambini, il pessimismo dell’Europa nel suo suicidio demografico. Voi italiani avete un tasso di 1,3 nascite, Israele ne ha il doppio anche escludendo gli ultra ortodossi. Noi israeliani facciamo più del doppio dei bambini di voi italiani. Voi italiani siete così simili a noi israeliani, più dei tedeschi. E la ragione è l’ottimismo. Eppure ora avete bisogno di immigrati che vengono da una cultura radicalmente diversa. Ma state distruggendo la vostra cultura e retaggio. In Israele abbiamo portato qui un milione di persone dall’Unione Sovietica. Sono arrivati con un figlio o nessuno e oggi solo il 17 per cento dei russi ha un solo figlio. Si sono assimilati rapidamente. Grazie all’orgoglio nazionale”. Qui Schueftan introduce un altro aspetto. “L’Europa oggi è post nazionale e per molti europei la cultura nazionale è un male. Il nazionalismo non è sciovinismo o fascismo, è un grande elemento di solidarietà collettiva. E’ una forma di patriottismo temperato da una forte tradizione democratica e liberale. L’Europa si è persuasa che esista invece una solidarietà universale. Forse una piccola élite occidentale lo crede, ma le opinioni pubbliche no. Gli immigrati dal Nord Africa o dalle regioni subsahariane non possono far parte di questa solidarietà. L’Europa, come Israele, deve rivalutare l’importanza della cultura nazionale. Gli israeliani non sono fascisti o sciovinisti. La terza questione è limitare il liberalismo culturale, che è molto buono in teoria, ma che oggi è diventato radicalismo: negli Stati Uniti si chiama progressismo. Questa radicalizzazione porta a una rivolta populista. Serve una combinazione fra liberalismo e nazionalismo, come in Israele. Noi non abbiamo una polarizzazione della società come in Europa, con pezzi dell’opinione pubblica che non si parlano. In Israele incoraggiamo le persone a pensare da sole, senza disciplina, fin dalla prima età. Ai miei figli ho detto fin da piccoli che ero per loro un padre che si doveva conquistare il rispetto. I bambini israeliani domandano, non danno nulla per scontato. E questo porta a una cultura dell’innovazione e dell’imprenditorialità. A scuola, a casa, nell’esercito, nella società, impari a non essere d’accordo, a sfidare tutto, ogni opinione e idea consolidata. L’innovazione inizia quando dici ‘ho un’idea migliore’. Gli europei sono andati in vacanza rispetto al mondo reale, prigionieri della fantasia. Pensano che esista una cosa chiamata ‘comunità internazionale’. Imparate dal nostro realismo e uscite dalla vostra La La Land”. Jack Ma, il leggendario fondatore di Alibaba, è appena stato a Tel Aviv, dove a un forum economico ha detto: “Israele sa che la risorsa più preziosa al mondo non è il petrolio o il gas, ma il cervello umano. In Israele, l’innovazione è ovunque. Gli altri innovano per il successo. Israele innova per la sopravvivenza”. Considerando che ora si discute della sopravvivenza a rischio dell’Europa, che si crogiola nel proprio torpore e décadence, non ci farebbe male prendere a esempio da Israele. Che la La La Land diventi una Baby Land.

Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/ 5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante

lettere@ilfoglio.it