Addio a Tony Mendez, fece fuggire 6 americani da Teheran nel 1979
Commento di Gianni Riotta
Testata: La Stampa
Data: 21/01/2019
Pagina: 11
Autore: Gianni Riotta
Titolo: Addio all’artista della Cia che si fece beffa degli ayatollah

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/01/2019, a pag. 11, il commento di Gianni Riotta dal titolo "Addio all’artista della Cia che si fece beffa degli ayatollah".

Gianni Riotta descrive l'impresa di Tony Mendez come un gioco, ma non spiega davvero a fondo la reale situazione in cui erano gli ostaggi americani a Teheran. Meglio il film "Argo", chi non l'avesse visto ecco la buona occasione per vedere ciò che avvenne a Teheran grazie all'arrivo alla Casa Bianca di Ronald Reagan dopo i disastri di Jimmy Carter.

Ecco l'articolo:

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Gianni Riotta

Cominciò tutto con gli specialisti che a Hollywood lavoravano alle maschere de «Il Pianeta delle Scimmie» e poi avrebbero creato le magie di «E.T.», il premio Oscar John Chambers e il mitico Bob Sidell, artisti del make up che trasformano ragazzi in anziani e viceversa. Ma stavolta non si trattava di un colossal, c’erano sei vite da salvare, e il compito toccò a Antonio Joseph Mendez, «Tony», sangue italiano, gallese e messicano, passaporto americano, almeno quello ufficiale, perché la Cia, per cui lavorava, gliene girava altri senza problemi. Mendez, scomparso ieri a 78 anni, riuscì nell’impresa, arruolando gli amici di Hollywood, e non immaginando che le sue gesta sarebbero ritornate al cinema, nel 2012, quando «Argo», con Ben Affleck nella parte di Tony Mendez, vinse l’Oscar.

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Tony Mendez


Gli studenti iraniani rivoluzionari, agli ordini dell’ayatollah Khomeini, avevano preso in ostaggio 66 cittadini americani il 4 novembre 1979, saccheggiando l’ambasciata Usa a Teheran, e l’America aveva perso la testa. Il presidente Carter provò invano a liberarli con un blitz, l’umiliazione durò 444 giorni, finché, con il neo presidente Reagan, gli iraniani rilasciarono i prigionieri. Ma sei colleghi, guidati da un accorto sergente dei marines, erano riusciti a evitare la cattura e, alla macchia tra spie e miliziani feroci della Guardia Rivoluzionaria, s’erano rifugiati nelle residenze dell’ambasciatore canadese Ken Taylor e del suo braccio destro John Sheardown, nel quartiere chic di Shemiran, pendici del monte Elburz.

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La locandina

Mendez diceva di sé «Sono un artista. Mi guadagnavo la vita facendo il disegnatore, mio padre era morto in miniera. Un giorno rispondo a un annuncio anonimo, “Cercasi illustratore”, mi presento ignaro». Era la Cia, e Mendez, dopo Laos e Vietnam, diventa capo della Sezione Camuffamenti e, più tardi, della Divisione Grafica e Autenticazioni. L’amicizia con gli artisti del make up del cinema nasce così, agenti truccati con parrucche o nasi di plastica, passaporti ristampati con foto taroccate, vero e falso cambiati con un timbro, una persona viva che muore e ne resuscita un’altra, defunta da anni.

I primi piani
La prima idea di Mendez è bislacca: lo Scià Reza Pahlavi, arcinemico degli ayatollah, sta morendo di cancro, in fuga tra Usa, Panama ed Egitto. Mendez vuol fingere di aver in mano il «vero» cadavere dello Scià, il corpo di un poveretto, e offrirlo a Khomeini in cambio degli ostaggi. Il presidente Carter, scettico, boccia il progetto. La seconda scelta non è meno drammatica. I canadesi hanno paura di un raid contro le sedi diplomatiche, propongono incongrue manovre, fuga in bicicletta camuffati da turisti o la trasformazioni dei rifugiati in commissione Agricoltura Internazionale. Stavolta è Mendez a dir di no, troppo ovvia la comitiva di cicloturisti e, in inverno, i campi in Iran non si prestano a ispezioni. Tornato a Hollywood, crea il canovaccio di un film fasullo, «Argo», polpettone metà fantascienza, metà thriller, con il brullo panorama iraniano da sfondo. Fa stampare biglietti da visita, locandine, bustine per i fiammiferi, si sceglie passaporto canadese e famiglia irlandese, «tutti amano gli irlandesi», volando a Teheran come Kevin Costa Harkins, produttore che deve condurre i sopralluoghi per i set di una pellicola di successo. Se catturato, come agente Cia, rischia tortura, carcere, esecuzione.
Gli ostaggi, quando Harkins-Mendez li raggiunge, hanno paura, lui li rassicura con giochi di prestigio usando le dita e i tappi del vino, poi li guida in aeroporto. Il jet Swiss Air è in ritardo per un guasto, il doganiere sequestra tutti i passaporti in ufficio, per riportarli indietro sbadato, «Ero andato a farmi un tè». Le Guardie Rivoluzionarie perquisiscono i passeggeri, puntando gli stranieri: sono davvero la troupe di «Argo» o sono spie? Nel caos, nessuno controlla i visti di entrata, di cui i finti film-maker non sono in possesso. Un diplomatico si mette a leggere un giornale, dimentico di non parlare Farsi, poi chiama con il vero nome i compagni, rischiando di smascherare i nuovi cognomi dei passaporti approvati, in gran segreto, dal governo canadese.
Alla fine il volo decolla, e lasciato lo spazio aereo iraniano Antonio «Tony» Mendez ordina un Bloody Mary: «Liberi!». Il resto sono medaglie, libri, film, Oscar. Ma in lui resta la nostalgia di un mondo in cui la libertà passava per un disegno, un dito di fondo tinta, un timbro intinto nello scotch - sua trovata classica - perché questo si sentiva Tony Mendez, un artista della libertà.

 

 

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