I 'sionisti gentili' nella società americana dell’Ottocento 06/02/2018
Analisi di Giuliana Iurlano
Autore: Giuliana Iurlano

I 'sionisti gentili' nella società americana dell’Ottocento
Analisi di Giuliana Iurlano

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La storia della comunità ebraica americana costituisce, a suo modo, una sorta di “eccezione” rispetto alle vicende dell’ebraismo europeo, non fosse altro per il fatto che, molto prima del sionismo, approdò nel Nuovo Mondo, già nel periodo coloniale, l’idea di “Sion”, portata dai gruppi puritani e sostenuta nel tempo dai cosiddetti “sionisti gentili”, che, nel corso dell’Ottocento, abbozzarono i loro progetti per uno Stato ebraico. Mentre gli ebrei americani cercavano delle forme di organizzazione interna che li portassero a parlare con un’unica voce – cosa molto difficile, date le enormi differenze interne al movimento – di fronte ad alcuni gravissimi episodi che si verificavano in Europa, e mentre essi godevano già pienamente dei diritti civili e religiosi e lottavano per ottenere anche nei singoli Stati quelli politici (già riconosciuti a livello federale con la Rivoluzione americana), molti cristiani contribuirono ad alimentare un vivace dibattito sulla “Jewish Restoration”.

Le motivazioni, naturalmente, furono estremamente eterogenee: da quelle missionarie finalizzate alla conversione a quelle territorialistiche e politiche, che si ponevano il problema dell’immigrazione ebraica negli Stati Uniti in termini decisamente nuovi. Il proto-sionismo americano si nutrì soprattutto di progetti come quello di una colonia ebraica a Grand Island, “Ararat”, proposto – non senza grandi critiche – dall’ebreo di origini portoghesi Manuel Mordecai Noah nella prima metà del secolo, o come le esperienze di Am Olam (“Popolo Eterno”) e degli Chovevei Zion (“Amanti di Sion”), o di Ralph B. Raphael (degli Chovevei di Pittsburgh) e del medico di origini lituane Joseph Isaac Bluestone nella seconda metà dell’800; ma il proto-sionismo, con modalità diverse, fu sostenuto anche dai “gentili”, come i quaccheri Hezekiah Niles e Warder Cresson, o il presbiteriano londinese William Davis Robinson e il giornalista inglese sir Laurence Oliphant. Costoro erano tutti fermamente convinti che l’emancipazione non avrebbe garantito agli ebrei la fine delle persecuzioni, ma che solo nella società americana essi avrebbero potuto vivere in libertà e sicurezza. In alternativa, però, maturò gradualmente anche l’idea di uno Stato ebraico in Palestina. Fu soprattutto Oliphant a perorare, nel 1878, presso il premier Disraeli, l’istituzione di una società sotto il controllo britannico allo scopo di favorire l’insediamento ebraico in Terra Santa. Alla base dell’iniziativa di Oliphant vi erano, oltre al tradizionale interessamento cristiano nei confronti del popolo ebraico e all’abbandono della logica filantropistica, alcuni elementi di novità, primo fra tutti l’interesse britannico a sostenere la Turchia contro un’eventuale pressione russa nell’area. Il progetto prevedeva essenzialmente una solida alleanza tra il popolo ebraico e la Sublime Porta, alleanza che avrebbe potuto soddisfare gli interessi economici inglesi.

Naturalmente, Oliphant non era immune dallo stereotipo che attribuiva agli ebrei le leve della potenza economica e finanziaria, ma fu proprio questa sua convinzione a spingerlo a credere che anche le altre potenze cristiane europee avrebbero potuto favorire l’insediamento ebraico in Palestina. E, tuttavia, nonostante tutti i suoi sforzi diplomatici anche verso il Sultano, alla fine dovette rendersi conto di quello che già allora definiva come “integralismo islamico”: di fronte alla capacità di adattamento sviluppata dagli ebrei della Diaspora si ergeva la religione islamica “essenzialmente aggressiva nel carattere e tendente al proselitismo” (The Jew and the Eastern Question, dattiloscritto, probabilmente 1882), arrogante e fondamentalmente inconciliabile nei confronti delle fedi rivali, verso le quali aveva sviluppato l’idea della jihad, della guerra santa. Così concludeva Oliphant: “Se, allora, usiamo civiltà e cristianità come sinonimi […] è facile percepire le differenze sostanziali tra musulmano ed ebreo […]. Per quel che riguarda il musulmano, le influenze civilizzatrici, anziché renderlo mentalmente duttile, fanno insorgere in lui il fanatismo. Totalmente incapace di adattarvisi socialmente o politicamente, si trova isolato in presenza di una forza insidiosa di fronte alla quale non è in grado di resistere ed alla quale sente istintivamente di essere destinato a soccombere, a meno che non si opponga con successo alla sua avanzata usando la spada. […] L’ebreo, d’altro canto, non nutre sentimenti di ostilità per il cristiano, sebbene – Dio sa quanto – ne avrebbe motivo. La sua terribile battaglia per l’esistenza ha smussato le sue facoltà fino a fargli acquisire un meraviglioso istinto per la valorizzazione dei suoi vicini cristiani, senza tuttavia portarlo a sviluppare alcun odio nei loro confronti”. Insomma, già alla fine dell’Ottocento emergeva, nell’ambito della riflessione dei “sionisti gentili”, la possibilità reale di uno scontro di civiltà che avrebbe costituito un grande ostacolo alla realizzazione di uno Stato ebraico in Palestina.


Giuliana Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento. Collabora a Informazione Corretta