Usa-Israele, storia di un'amicizia 25/01/2018
Analisi di Antonio Donno
Autore: Antonio Donno
Usa-Israele, storia di un'amicizia
Analisi di Antonio Donno

A destra: Donald Trump con Benjamin Netanyahu

Essendo Trump un uomo di affari, “speriamo che egli apprezzi il fatto che gli Stati Uniti possano contare su Israele per la propria sicurezza” e che Israele “stia dando un contributo significativo agli interessi vitali americani” in una regione cruciale dello scenario internazionale. Così scrive il professor Hillel Frisch, docente alla Bar-Ilan University, su “BESA Perspectives” del 10 febbraio 2017. E, tuttavia, è diffusa l’idea, anche fra i politologi, gli uomini politici e gli studiosi di relazioni internazionali, che Israele riceva dagli Stati Uniti una quantità di aiuti militari ben superiore a quella concessa ad altri Stati più importanti – Germania, Giappone, Corea del Sud, oltre a vari piccoli paesi del Golfo Persico, e poi Polonia e Stati Baltici. Si tratta di una falsità. Lo scritto di Frisch va ripreso e commentato in quanto le recenti mosse del presidente Trump hanno scatenato una serie di accuse – false – tra le quali la sempre verde affermazione che Israele goda di una grande capacità militare grazie agli Stati Uniti e che, senza quegli aiuti, lo Stato ebraico, già fin dagli inizi della sua esistenza, sarebbe stato cancellato dalla carta geografica del Medio Oriente.

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Ora, è vero che nei primi anni della sua vita, Israele abbia goduto degli aiuti militari americani – esattamente come gli Stati arabi anti-israeliani hanno goduto degli aiuti militari sovietici – per la difesa della sua esistenza, con la differenza che gli arabi potevano contare su più di uno Stato foraggiato da Mosca, mentre Israele era solo di fronte alla multipla minaccia araba. Ma, con il passare dei decenni e con lo sviluppo economico del paese, Israele si è quasi totalmente affrancato dagli aiuti militari americani, cosicché essi, oggi, rappresentano una piccola frazione rispetto alla massa imponente che Washington concede ai propri alleati sparsi in ogni parte del globo; in primo luogo, il Giappone, poi la Germania, in parte più piccola l’Italia, ma poi l’Egitto, il Kuwait e il Bahrain; infine, i paesi del Baltico e dei Mari della Cina. In definitiva, il complesso degli aiuti militari americani, più le basi presenti in vari paesi, rappresentano un costo enormemente più alto rispetto a ciò che Washington concede a Israele. Vi è poi un aspetto di fondamentale importanza. Contingenti americani di varia entità sono presenti in Giappone, Corea del Sud, Germania, Kuwait, Qatar, Stati Baltici, Polonia e in altri luoghi per esercitare un potere di deterrenza rispetto a possibili nemici. Viceversa, Israele, circondato da nemici che ne vogliono la distruzione fin dalla sua nascita, conta esclusivamente sulle sue truppe per difendere i propri confini. Nessun aereo, nessuna nave, nessun soldato americano sono posti a difesa di Israele. Gerusalemme è totalmente autonoma nella difesa del proprio territorio e gli aiuti militari americani rappresentano – è necessario ripeterlo – una frazione molto modesta, si può dire ininfluente, delle capacità militari complessive di Israele. Questo è il risultato di decenni di lavoro, di costante sviluppo economico, di rafforzamento delle strutture sociali che hanno portato oggi lo Stato ebraico a competere con altre più potenti nazioni in ogni campo. L’apparato di difesa ha goduto, ovviamente, di questi importanti risultati. Le falsità che vengono propalate con monotona ripetitività su questo tema, come su molti altri, dimostrano soltanto che l’armamentario delle menzogne si sta esaurendo, nonostante i recenti patetici sforzi di Abu Mazen. Israele ha sviluppato un potenziale di difesa di altissimo valore tecnologico capace di operare una deterrenza costante ed efficace, soprattutto nei confronti del suo nemico principale, l’Iran. Ma quel che è ancora più rilevante è che Israele, da solo, è in grado di difendere gli interessi americani nella regione, in un momento particolarmente difficile per Washington a causa del colpevole disimpegno di Obama negli otto anni della sua presidenza. I “boots on the ground” americani sono presenti in molti teatri della scena politica internazionale, ma non in Israele, piccola nazione in un contesto regionale in ebollizione, ma ben consapevole della sua forza.


Antonio Donno


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