'Nicola Chiaromonte. Una biografia', di Cesare Panizza 18/01/2018
Recensione di Antonio Donno
Autore: Antonio Donno

Cesare Panizza
Nicola Chiaromonte. Una biografia
Roma, Donzelli, 2017, pp. 321

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La copertina

Leggere il libro di Cesare Panizza su Nicola Chiaromonte (1905-1972) è facile e difficile nello stesso tempo. Facile, perché l’attenta, minuziosa ricostruzione della vita e del pensiero del lucano – sulla scorta di una grande pregevole documentazione, raccolta in molti anni di ricerca – ti porta in ambiti intellettuali oggi dimenticati; difficile, perché si giunge alla fine del libro domandandosi, pagina dopo pagina e talvolta con impaziente attesa, qual era il senso profondo della sua concezione del mondo. E, finalmente, nelle ultime righe del libro la risposta: “Il più radicale principio della coscienza individuale” era l’asse portante della sua esistenza e del suo lavoro di intellettuale, oltre che della sua concezione profondamente morale della vita. Parlare della concezione del mondo appare oggi fuori tema, ma negli anni del dopoguerra gli intellettuali occidentali ne fecero la ragione del loro operare nella società.

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Cesare Panizza

Profondo conoscitore del mondo classico, in special modo greco, da cui traeva importanti lezioni per il mondo contemporaneo, Chiaromonte si dissociò dal Cattolicesimo, con grande dispiacere della sua famiglia, per immergersi, anche volontariamente, nel ruolo dell’intellettuale scomodo, e perciò poi “ignorato in vita e dimenticato dopo la morte”, come scrive Panizza. In verità, non è vero che sia stato ignorato in vita, perché ebbe un ruolo di punta in molti dibattiti del tempo; fu artatamente ignorato soltanto perché era un personaggio non inquadrabile negli schemi delle fazioni intellettuali e, quando era in disaccordo, ne usciva senza indugio, compiendo un’altra tappa nel “proprio cammino di ‘autoliberazione’” e ripudiando il leit motiv di quegli anni: prima, il mito dell’azione, che aveva caratterizzato il fascismo, e poi l’inquadramento in formazioni politiche in lotta tra di loro. Il suo rifiuto del comunismo fu totale; ma il rifiuto riguardò anche i movimenti intellettuali che ponevano la storia come la levatrice del progresso e la sede del trionfo della ragione.

Lo strumento di questo processo sarebbe stata la politica, ma Chiaromonte rifiutava nettamente queste concezioni, un rifiuto che Panizza sintetizza con grande acribia: “Siamo in presenza […] di un attacco a quello che gli parve il punto di contatto fra le ideologie totalitarie e una certa concezione della civiltà e della storia, che ha smarrito ogni capacità di misura morale sostituendola con criteri di valutazione arbitrari, stabiliti di volta in volta e basati su una concezione utilitaristica, approdante o all’estremo del relativismo o al più totale nichilismo”. Il trasferimento della famiglia Chiaromonte da Rapolla, in provincia di Potenza, a Roma dette la possibilità a Nicola di immergersi in un ambiente intellettuale più consono alla sua formazione e alle sue aspirazioni.

Si avvicinò all’antifascismo di Gobetti e a «Rivoluzione Liberale», poi al «Mondo», conobbe gli intellettuali antifascisti del tempo, Paolo Milano, Adriano Tilgher, Alberto Moravia e molti altri, ma, sebbene la loro amicizia gli fosse preziosa per molti motivi, Chiaromonte non condivideva il loro ottimismo su un rinnovamento totale dell’Italia e dell’Europa dopo il crollo del nazismo e del fascismo; anzi, scrive Panizza, cogliendo bene il turbamento e l’irrequietezza intellettuale di Chiaromonte, “la crisi che Chiaromonte vedeva delinearsi era quella della ragione nella sua pretesa capacità di comprendere totalmente l’irriducibile complessità del mondo umano”. I suoi interessi per la letteratura e soprattutto per il teatro lo portarono poi a collaborare con «Solaria» e con «Oggi», ma questi continui passaggi stavano a significare che Chiaromonte era “sempre più manifestamente insofferente del clima della cultura italiana” e spesso della pesantezza che l’antifascismo esercitava nella libera espressione culturale scaturita dalla fine del regime fascista e della guerra, compromettendo “il valore della vita individuale”, che sola avrebbe potuto superare “la crisi della coscienza europea”. Di conseguenza, l’azione politica in sé non poteva che produrre, come nei personaggi di Malraux, “l’obliterazione della loro esistenza”, condannandosi “alla solitudine, rinunciando a sperimentare la loro umanità, e alla sconfitta, rimanendo schiacciati dalla logica della situazione che essi stessi hanno contribuito a creare nell’assurda pretesa di dominarla nella realtà così come la comprendevano nel loro intelletto”. Era, ad esempio, secondo Chiaromonte, la situazione dei militanti di “Giustizia e Libertà”, organizzazione da cui egli si distaccò. L’antifascismo di Chiaromonte, come quello di Rosselli, aveva una valenza soprattutto morale, perché l’idea totalitaria aveva infettato la coscienza europea ben prima dell’avvento del totalitarismo politico e soprattutto essa avrebbe pervaso la civiltà europea ancora per molto tempo, nella forma della supremazia dello Stato sull’individuo per mezzo dell’“imbottimento di crani”.

Questa acquisizione intellettuale di Chiaromonte è decisiva, perché rappresenta la svolta nella sua concezione del ruolo dell’individuo nella società; ancora meglio, della responsabilità dell’individuo verso se stesso. Fu nella sua amata Parigi che egli giunse a queste conclusioni, a ragione delle quali giustamente Panizza parla di un Chiaromonte libertario. Definizione che può essere considerata la più adeguata a connotare la storia intellettuale del lucano, perché il vero compito degli antifascisti era quello di produrre “il superamento della ‘crisi morale’ in cui era sprofondata la civiltà occidentale”. In questi suoi convincimenti ebbe un ruolo fondamentale Andrea Caffi e la lettura dei testi di Proudhon, Herzen e Simmel. La successiva amicizia con Tasca e con Silone contribuì a rafforzare gli esiti della sua riflessione. Soprattutto Ignazio Silone. Poi, New York, un approdo fondamentale per Chiaromonte, dove giunse il 9 agosto 1941 e dove incontrò Paolo Milano e conobbe Gaetano Salvemini. Qui strinse amicizia con i più importanti intellettuali americani del tempo, Mary McCarthy, Hannah Arendt, Dwight Macdonald, alla cui rivista, “politics”, iniziò a collaborare. In questo clima cosmopolita, egli si allontanò dagli “antifascisti patriottici”, “che riteneva rappresentassero la causa principale della disastrosa crisi della civiltà dell’Europa”, e in cui egli venne a elaborare la convinzione che “il male del totalitarismo non fosse sanabile con la sconfitta militare dell’Asse […]”.

Il clima intellettuale americano era, in effetti, ciò che Chiaromonte cercava. Era un clima aperto, di alto profilo intellettuale, attento ai fenomeni letterari e politici della più varia natura. Benché Panizza affermi che l’integrazione di Chiaromonte nella scena intellettuale americana fosse effettiva, ma “reversibile”, la realtà fu che egli visse negli Stati Uniti la stagione più proficua della sua carriera. Oltre che su “politics”, scrisse su varie riviste americane, per lo più radicali, cioè critiche della politica estera di Truman e del ruolo americano nella guerra fredda. Le pagine che Panizza dedica alla permanenza di Chiaromonte negli Stati Uniti sono fondamentali. Qui, veramente, egli trovò consonanza intellettuale per le sue idee circa la preminenza della “rinascita morale” dell’Occidente dopo la caduta del nazismo e del rifiuto del nuovo totalitarismo comunista, che considerava l’azione politica – violenta – come il momento di nascita di una nuova storia dell’umanità. Il saggio di Macdonald, The Root Is Man, divenne il manifesto di quello che può essere definito il nuovo umanesimo della cultura occidentale, un umanesimo non politico, ma profondamente morale, libertario, come Chiaromonte aveva sempre sostenuto. In effetti, la sua critica al confronto sempre più acuto tra le due potenze e alla politica di risposta continua degli Stati Uniti alle provocazioni sovietiche gli sembrava stolta e controproducente.

Benché egli non conoscesse le idee dei libertari americani del tempo – gli esponenti della Old Right americana, Frank Chodorov, Frank Hanighen, Felix Morley, Henry Regnery, Henry Hazlitt, Suzanne La Follette, John Chamberlain e tanti altri, e le loro riviste – proprio la Old Right era la punta avanzata della critica all’impegno americano nella guerra fredda e al ruolo asfissiante dello Stato, che in quanto tale era la causa delle guerre. Proprio Chodorov affermò: “L’eterodossia è una condizione necessaria di una società libera”. Ma Chiaromonte non era, appunto, un eterodosso? Anche se il lucano non prese mai in considerazione le tesi isolazionistiche, come quelle degli esponenti della Old Right, tuttavia molte posizioni di Chiaromonte si avvicinavano a quelle degli Old Rightists, soprattutto l’individualismo. Ma, al di là delle etichette, il lucano condivideva con Camus, che conobbe a Parigi dopo gli anni americani, “’la riconsacrazione’ dell’uomo alla creazione artistica e alla riflessione morale, facendo un passo indietro rispetto alla presenza nel dibattito pubblico” e all’impegno politico. Così, anche la sua adesione al Congresso per la libertà della cultura e poi la fondazione, insieme a Ignazio Silone, della rivista “Tempo presente”, che faceva parte di un circuito europeo di riviste del Congresso, dettero la possibilità a Chiaromonte di esprimere pienamente le sue concezioni, che la partecipazione ad altre riviste sia in Europa, sia negli Stati Uniti gli aveva permesso di fare solo in parte: “Silone e Chiaromonte condividevano una genuina istanza antitotalitaria che orientava la loro riflessione sulla politica e la storia e sulla funzione dell’intellettuale, in direzione – il siloniano habeas animam – della difesa della coscienza individuale e della ricerca di ciò che nell’uomo trascende la contingenza storica”. Questa eccellente sintesi del pensiero di Chiaromonte, che Panizza propone al lettore quasi alla fine della sua opera, richiama alla mente – scrive sempre Panizza – certe tradizioni democratiche tipiche dei paesi anglosassoni (e qui il riferimento all’esperienza americana del lucano è evidente) fondate sull’“individualismo libertario”, nemico di ogni “costruttivismo rivoluzionario” e, nello stesso tempo, di ogni ribellismo fine a se stesso, come avvenne negli anni ’60. Comunque, l’esperienza americana fu fondamentale per Chiaromonte. Il libro di Panizza ha il pregio, non sempre presente nelle biografie, di coniugare il percorso di vita del lucano con lo sviluppo del suo pensiero; e la cultura americana gli dette infine l’ubi consistam da lui sempre cercato e mai trovato: “Era infatti consapevole di come negli Stati Uniti la riaffermazione del principio dell’autonomia della coscienza di fronte al conformismo politico e sociale trovasse un fondamento in una precisa tradizione, dove si mescolavano componenti diverse, di derivazione politica e religiosa, capaci di originare se non un ethos naturalmente democratico, gli anticorpi alla degenerazione […] un elemento del tutto assente nell’Europa continentale”.


Antonio Donno