La migliore biografia di Primo Levi, di Ian Thomson 03/01/2018
Recensione di Giuliana Iurlano
Autore: Giuliana Iurlano

La migliore biografia di Primo Levi, di Ian Thomson
Recensione di Giuliana Iurlano

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Ian Thomson, Primo Levi. Una vita, Milano, Utet, 2017, pp. 806

Raccontare la vita di uno scrittore non è semplice, soprattutto quando si tratta di una persona come Primo Levi, un uomo complesso pur nella linearità della sua storia, segnata però da quella crasi incommensurabile che è stata Auschwitz. Eppure, Ian Thomson – la cui opera biografica è stata tradotta solo recentemente in italiano (Primo Levi. Una vita, Utet, 2017), pur essendo uscita già nel 2002 in Gran Bretagna – riesce a ripercorrere con estrema discrezione la storia umana di Levi, entrando quasi in punta di piedi e con grande delicatezza anche in quegli aspetti più personali della sua vita. Ma l’opera di Thomson è anche una importante “biografia della scrittura” di un autore (un “narratore-artigiano”, come egli stesso amava definirsi), di uno scienziato umanista dai tratti talvolta rinascimentali, di un narratore che sa adoperare un linguaggio piano e concettualmente chiaro per raccontarsi e per raccontare sia gli eventi più terribili della storia umana, sia gli aspetti più prettamente scientifici legati alla sua professione di chimico. Insomma, il ritratto che Thomson fa di Primo Levi risulta essere multidimensionale, perché le prospettive interpretative e descrittive più salienti che emergono sono quelle di “testimone” e di “scrittore” del Novecento. Si tratta di due piani che si intersecano e che non sempre si accordano. Levi, il protagonista-testimone di Auschwitz, segue – anche se in modi e forme diverse rispetto ad altri sopravvissuti – un percorso molto particolare di racconto di quella esperienza estrema che fu la Shoah. Anche lui, dopo il viaggio di ritorno che lo riportò a casa, sente il bisogno impellente e quasi rabbioso di parlare, di dire, di raccontare per capire e far capire agli altri l’Evento Inenarrabile; ma, al contrario di molti altri, non si darà mai per vinto, non permetterà mai all’oblio di prevalere, perché in lui c’è già l’urgenza dello scrittore che cerca le parole più adatte e gli elementi semi-finzionali che facciano da puntello – un puntello estremamente realistico, peraltro – ad un evento per il quale effettivamente non sembra esserci un linguaggio adatto a rappresentarne la disumanità massima emersa proprio nel cuore della cultura occidentale, quella cultura che, magistralmente ma anche paradossalmente, aveva elaborato a livelli altissimi, con la “soluzione finale”, un processo di taylorizzazione sia delle mansioni esecutive sminuzzate che, soprattutto, delle coscienze di ogni “banale” uomo comune.

Di fronte al “silenzio di Dio” e al “balbettio” di un linguaggio non ancora pronto a restituire una realtà inimmaginabile, l’ateo Levi è invece in grado di trovare le parole giuste e di offrirci, con Se questo è un uomo, una testimonianza unica, nella quale lo sguardo attento dello scienziato si coniuga con quello dell’appassionato umanista, che proprio nelle humanae litterae può ritrovare il germe della sua dignitosa umanità. Ma Levi è anche un chimico, appassionato di fisica, che nella materia dell’universo sa scorgere i processi di modificazione, di trasformazione, di evoluzione anche più profondi. Come scienziato, è attratto dalla metamorfosi e dalle sue estreme potenzialità: di conseguenza, la sua osservazione del mondo circostante – e, soprattutto, di quel mondo apparentemente chiuso e compatto, ma in realtà “perforato”, che è, per usare la definizione di David Rousset, l’“universo concentrazionario” – gli offre gli strumenti metodologici per mettere a fuoco la conditio inhumana descritta da Jean Améry. Il “ritrarsi della parola”, dunque, non è affatto prerogativa di Primo Levi, che, invece, della parola si nutre, la pondera, la affina e la attaglia quanto più possibile al suo pensiero, al suo sentimento e al suo dolore, collocandola in tutta la sua tragica interezza nella Storia. Per un uomo di scienza come lui, attratto sin da bambino dalla razionalità illuministica e positivistica, sperimentare il mondo “altro” del lager – in cui si attua, proprio grazie alla modernità razionale, la irrimediabile scissione tra “umanesimo” e “umanità” – ha tracciato una strada di non ritorno, uno spartiacque etico ed esistenziale, che Thomson ha saputo ricostruire con efficacia magistrale.

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Primo Levi

Lo sbigottimento del pensiero occidentale, dopo la cacciata dei fantasmi millenaristici grazie alla scienza, si è tradotto in solitudine profonda, in vortici disequilibranti per l’uomo del Novecento, profondamente solo e ormai orfano di paradiso e inferno. “Dei due – avrebbe detto George Steiner – l’inferno si dimostrò il più facile da ricreare”: e Primo Levi quell’inferno “ricreato” lo ha attraversato tutto, lasciandone testimonianza, ma anche raccontandolo da grande narratore. Levi ha combattuto molto per la sua scrittura: in un altalenante percorso fatto di ombre, di euforie, ma anche di grandi delusioni (come il “gran rifiuto” einaudiano del 1947), il suo capolavoro vide la luce. Era stato realizzato – come ricorda Thomson – grazie a una sua graduale maturazione e con diverse fasi di stesura: dal racconto orale quasi compulsivo “forte come la fame”, che lo faceva sentire come un bardo tornato dai confini della civiltà con un messaggio urgente per i suoi uditori (è di questa prima fase la sua autoidentificazione con due esuli leggendari, Odisseo e Tibullo), alla poesia con cui estirpò la rabbia che aveva dentro e che lo attanagliava, trasformandola quasi in invettiva per i dimentichi (come in Shemà), alla fantascienza (come nel racconto I mnemogogi, in cui, come il protagonista, diventa un “suscitatore di memorie”), fino ad una pubblicazione medico-scientifica sull’organizzazione igienico-sanitaria nei lager. Il daimon, la “scintilla divina” di socratica memoria, pervadeva completamente Levi, anche nelle fasi di crisi della scrittura o in quelle in cui egli credeva di aver esaurito completamente gli argomenti da trattare. Erano periodi tremendi, in cui quell’uomo fisicamente gracile e fiero si lasciava andare al “male oscuro” che lo perseguitava da sempre e che, col tempo, lo avrebbe portato a fare una scelta estrema. Ma il fuoco creativo – che intanto si nutriva di grande impegno civile e di profonda attenzione per la realtà nazionale e internazionale del suo tempo, anche facendogli prendere posizioni nette e controcorrente – continuava ad ardere impetuosamente, pur seguendo impennate crescenti o ricadute talvolta psicologicamente rovinose. Levi, però, si è sempre rialzato, riuscendo a rielaborare anche la sua disperazione in termini letterari e poetici e riemergendo a pieno titolo, proprio come lui voleva, dal dantesco girone “dei dannati della terra”.

La tregua – scritto in uno dei periodi più sereni della sua vita – rappresenta una sorta di “purgatorio” dopo l’“inferno” monocromatico di Auschwitz, che pure gli aveva servito “su un piatto d’argento” il materiale da raccontare. Esso segna un passaggio letterario importante, perché si struttura nella forma tradizionale del “viaggio” di omerica memoria, ma anche come una sorta di pellegrinaggio allegorico ed etico, in cui non mancano elementi eroicomici in un contesto policromo, il cui titolo lascia supporre solo una breve parentesi – una tregua inquieta, appunto – in attesa di altri momenti difficili e crudeli. Ma il viaggio purgatoriale di Levi aveva un’altra valenza originale: esso fu uno dei primi, infatti, a dare una descrizione dall’interno dell’Unione Sovietica post-bellica (cosa che costò a Levi delle critiche pungenti da parte dei russi, che lamentavano il fatto che l’autore non avesse fatto alcuno sforzo per comprendere la “nuova Russia sovietica”, quella che aveva gloriosamente sconfitto il nazi-fascismo).

L’outsider Levi riuscì a vincere il Premio Campiello nel 1963 e, come ogni volta dopo la pubblicazione di un’opera o dopo un grande successo, ricadde nella rete invischiante della depressione, che gli toglieva la speranza di poter scrivere ancora, una volta esaurite le sue storie personali. A ciò s’aggiungeva – ricorda Thomson – la grande sfida che aveva davanti a sé, quella che gli avrebbe impedito di essere bollato come “autore univoco”. Doveva cominciare a scrivere d’altro: era questa la nuova prospettiva che gli si presentava. Diventare “autonomo” da Auschwitz, cominciare a scrollarsi di dosso lo scomodo ruolo di “testimone” e diventare uno scrittore a tutto tondo. Non era un percorso né semplice, né facile. Thomson insiste spesso su questa duplicità – certamente voluta e sottolineata dallo stesso Levi – nella sua scrittura: favolista fantascientifico, da una parte, e cronista di guerra e testimone, dall’altra. La scissione tra la fabbrica di vernici e la macchina da scrivere, tra la scrittura e gli impegni familiari, fu utilizzata da Levi come una “altisonante mitologia personale” prodotta da un centauro dalla doppia personalità. In realtà, le Storie naturali pubblicate nel 1966 ebbero il grande merito di fare da apripista ad altre importanti esperienze letterarie, come quella di Italo Calvino nelle Cosmicomiche, sulla cui copia autografata e donata a Levi vi si legge “a Primo Levi, che ha percorso questa strada prima di me”. Un altro grande tentativo di uscire fuori dal ruolo di “testimone” fu Il sistema periodico (1975): sin da giovane, Levi era stato fortemente attratto dalla tavola periodica degli elementi ed aveva sempre reagito con forza a coloro che consideravano la chimica un tema “arido” per un testo letterario. Quest’opera, sviluppando una serie di racconti in ordine alfabetico secondo la tavola periodica, avrebbe dovuto raccogliere una vasta gamma di generi letterari, senza omettere l’umorismo: il tutto in una elegante prosa asciutta e funzionale. Qui, il tema della metamorfosi – che nella letteratura antica e moderna aveva sempre lasciato una forte traccia – assume un’originalità inaudita e, soprattutto, i riferimenti ai classici diventano fondamentali. Come già Lucrezio aveva fatto nel De rerum natura, quando l’osservazione della natura era diventata poesia lirica e il silenzio dell’antica physis si era fatto talvolta “entusiasticamente” tragico, innalzandosi a una visione epica dell’infinito, così Levi traspone in chiave letteraria gli elementi di una natura in perenne trasformazione, un classico tema goethiano, questo, che aveva trovato un fondamento scientifico alla fine del Settecento con la scoperta della chimica dei gas da parte di Priestley e Lavoisier, e che era stato sussunto sul piano filosofico – attirandosi, di conseguenza, le critiche pungenti di Hegel – anche da Schelling, che si era proposto di ricostruire l’unità della natura dall’inorganico all’organico.

Il progetto leviano era effettivamente in anticipo sui tempi e, come ricorda Thomson, Levi dovette attendere un decennio prima che la sua opera fosse apprezzata all’estero. L’altro tentativo di mettersi alle spalle Auschwitz fu fatto da Levi con La chiave a stella, una vera e propria celebrazione dell’etica del lavoro, sicuramente un aspetto distintivo del carattere torinese, ma anche un ricordo dell’educazione fascista ricevuta durante l’infanzia. E, tuttavia, la cura e la precisione nei dettagli descrittivi e tecnici – un risultato dovuto all’insistenza di Levi di voler parlare con gli operai più umili dello stabilimento – riaffermavano, secondo Thomson, il suo “credo letterario”, che gli imponeva di dover partire proprio dall’essere umano se si voleva veramente indagare l’umanità nel suo complesso. Lo svolgimento della vita di Levi scorre, nella ponderosa biografia, tra il riconoscimento all’estero del suo lavoro di scrittore, una serie sempre più consistente di conferenze e interviste radiofoniche e televisive, la riduzione teatrale di alcune sue opere, l’incarico di collaborazione a “La Stampa” (il giornale torinese che, durante il ventennio fascista, aveva con forza sostenuto la politica razziale del governo), l’attribuzione di premi importanti (il “Bagutta” nel 1966 per Storie naturali; lo “Strega” nel 1979 per La chiave a stella; il “Campiello” nel 1963 per La tregua e nel 1983 per Se non ora, quando?, il “Marotta” per I sommersi e i salvati nel 1987). La pubblicazione de I sommersi e i salvati avvenne nel giugno del 1986. Il libro chiude la trilogia di Auschwitz, riportando Levi al suo ruolo di testimone della storia, ma anche ponendolo al centro di una riflessione approfondita sulla natura della barbarie contemporanea. Tuttavia, la drammaticità di quest’opera interrompe la metafora dei gironi danteschi: dopo aver descritto l’“inferno” di Auschwitz in Se questo è un uomo e il “purgatorio” ne La tregua, non vi è alcuna risalita al “paradiso”, bensì un vero e proprio ritorno all’“inferno” dei sopravvissuti: è proprio la condizione di chi si è salvato che dev’essere indagata, “conosciuta” e “capita” senza infingimenti. Tra i morti e i sopravvissuti si erge un cono d’ombra, la “zona grigia” della collaborazione consapevole o inconsapevole, dell’indifferenza o della diminutio culpae, della demonizzazione massima (che spinge la Shoah verso l’abisso del Male assoluto, prodotto da esseri a loro volta “non umani”) o, a contrario, delle idee “alleviatrici”, che tendono a trovare forme di giustificazione difensiva dell’accaduto.

Ma la Shoah sta in qualche modo “nel mezzo”, perché è un prodotto tutto umano e, soprattutto, è stata resa possibile da una rete di piccoli passaggi intermedi di cui l’uomo “normale” non si è reso conto, o non ha voluto rendersi conto. Il nuovo “inferno” leviano sta qui, in quella “zona grigia” che procura vergogna a tutti i sopravvissuti per il semplice fatto di essere usciti vivi dal campo e di appartenere a quella stessa specie che ha creato Auschwitz. È vero, come sostiene Thomson, che “se la scrittura di Se questo è un uomo era stata rigenerante, un viaggio dalla sofferenza alla consolazione, I sommersi e i salvati non ebbe un tale effetto catartico” (p. 679): il primo libro era pieno di speranza nella perfettibilità dell’uomo e la conoscenza di ciò che era accaduto nei lager avrebbe potuto – così almeno il ventottenne Levi pensava – impedire che qualcosa di simile accadesse di nuovo; ora, invece, cinquant’anni dopo, tutto sembrava di nuovo possibile perché la barbarie albergava nel cuore stesso dell’umanità. Ecco, allora, che la memoria doveva diventava un vero e proprio dovere morale, un kantiano imperativo categorico, uno “Zakhor” rivolto soprattutto alle giovani generazioni. Levi – un ebreo ateo, che si è trovato ad essere travolto dalla persecuzione razziale senza nemmeno aver riflettuto mai prima di allora sulla sua identità ebraica – comincia ad avvertire il peso della responsabilità che un testimone ha di fronte al mondo, un mondo che cambia velocemente, ma che rimane sempre uguale nella sua potenziale barbarie. Nella prefazione a Il canto del popolo ebreo massacrato di Itzhak Katzenelson, Levi aveva mostrato soprattutto di apprezzare la poesia intitolata “O Cieli!”, in cui un Giobbe moderno si rivolge a Dio chiedendo disperatamente il “perché” dell’accaduto, senza ricevere risposta alcuna: “Alle domande del Giobbe moderno nessuno risponde, nessuna voce esce dal turbine. Non c’è più un Dio nel grembo dei cieli ‘stupidi e vuoti’, che assistono impassibili al compiersi del massacro insensato, alla fine del popolo creatore di Dio”. Ora, lo stesso Levi avverte la sensazione di essere uno “spazio cavo”, un vuoto profondo e infinito senza più vita.

Tornano alla mente ancora i versi immortali di Lucrezio: “Pensa che prima di noi si è consumata una parte / del tempo eterno, senza toccarci. / È questo lo specchio che Natura ci offre / dopo la morte: il futuro. / Vedi tu forse in quel vuoto niente di triste, / un segno che ti spaventi? / o non è quella una quiete più certa del sonno?”. L’11 aprile 1987, all’età di 68 anni, Primo Levi mise fine alla sua vita. A commento della sua morte, Thomson avverte che “Levi e i suoi libri non sono sovrapponibili. Semmai, il suicidio di Levi ci ricorda che la vita di un artista non procede in parallelo con la sua arte” (p. 722). Al di là delle ipotesi che possono essere fatte, resta tutta intatta la vita e la storia di un uomo che ha attraversato a testa alta i momenti più tragici del Novecento e che ha saputo raccontarceli con estrema lucidità e con magistrale perizia letteraria. Entrare nella sua vita non era un compito facile, ma credo che Ian Thomson abbia assolto pienamente il suo compito di biografo.


Giuliana Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento. Collabora a Informazione Corretta