Daniel Pipes: 'Victory over Palestinians'
Analisi di Antonio Donno
Autore: Antonio Donno
Daniel Pipes: 'Victory over Palestinians'
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Daniel Pipes

Gli accordi di Oslo del 1993 sono stati un totale fallimento. Ne sono convinti sia gli israeliani sia gli stessi palestinesi, ma con prospettive opposte. Soprattutto, hanno rappresentato un formidabile errore politico e diplomatico da parte degli israeliani, Rabin in testa. Questa è la constatazione iniziale di “Victory over Palestinians”, un documento scritto da Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum (MEF) e pubblicato sul numero di gennaio del 2017 di “Commentary”. Il 9 novembre, il “Jerusalem Post” ha ripreso quel documento e lo ha rilanciato per una discussione pubblica.

Che cosa significa il titolo del documento e soprattutto come Israele potrà ottenere questa vittoria? Innanzitutto, occorre partire dalla constatazione inoppugnabile che il tanto sbandierato “processo di pace”, che sarebbe iniziato proprio nel 1993, è stato un vuoto diplomatico gigantesco, di cui hanno usufruito soltanto i palestinesi. Le concessioni che Israele ha fatto ai palestinesi in quella circostanza hanno avuto un duplice effetto, il primo sfavorevole a Gerusalemme, il secondo favorevole a Ramallah. Infatti, le concessioni sono state interpretate dai palestinesi come un segno di debolezza da parte di Israele e ha incentivato l’idea della possibilità del rigetto dell’esistenza dello Stato ebraico; al contrario, l’accettazione del compromesso da parte di Israele ha messo fine alla politica che per 45 anni, fino al 1993, aveva dato esiti molto favorevoli allo Stato ebraico. Infatti, sin dalla nascita dello Stato i governi israeliani hanno regolarmente applicato il concetto e la pratica della deterrenza. La risposta immediata, robusta, implacabile inflitta ad ogni azione, di qualsiasi tipo, operata dai palestinesi ai danni di Israele, ha prodotto un esito chiarissimo: “Mentre gli israeliani hanno costruito un paese moderno, democratico, ricco e forte, il fatto che i palestinesi, gli arabi, gli islamici e, in modo crescente, la sinistra lo abbiano continuamente rigettato ha prodotto una sorta di montante frustrazione”. Così, la deterrenza, unita ai progressi ben visibili di Israele in ogni campo, ha determinato nei palestinesi un senso di sconfitta e di amara consapevolezza che Israele fosse indistruttibile.

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Benjamin Netanyahu

Questo fino agli accordi di Oslo del 1993. Quegli accordi, scrive Pipes, hanno prodotto nei successivi governi israeliani un senso di impazienza, di desiderio di concludere un accordo definitivo con una controparte che invece non aveva alcuna voglia di fare questo passo. L’idea della distruzione dello Stato di Israele era sempre lì, nella testa dei palestinesi, e il comportamento dei governi israeliani li confermava nella loro speranza. Da una parte, Oslo concedeva degli evidenti benefici ai palestinesi, dall’altra rinsaldava il loro progetto di conquista. “Quando i palestinesi – sostiene Pipes – vivevano ancora sotto il diretto controllo di Israele prima di Oslo, l’accettazione di Israele era andata crescendo nel corso del tempo contemporaneamente alla diminuzione della violenza politica”. Libertà di ingresso, accesso ai luoghi di lavoro, applicazione giusta della legge, sviluppo dell’economia palestinese senza alcuna dipendenza dall’aiuto estero, incremento del numero delle scuole e degli ospedali erano le caratteristiche del lungo periodo di controllo israeliano della West Bank e di Gaza. Dopo Oslo, tutto si è dissolto. I palestinesi si sono convinti che Israele stesse cedendo: “Ciò che convenzionalmente era definito il ‘processo di pace’ dovrebbe essere chiamato più accuratamente ‘processo di guerra’”. Si trattò non di una guerra in senso stretto – anche se gravi episodi di violenza sono stati frequenti a partire dal 1993 – ma di un progressivo progetto di delegittimazione di Israele. Un fallimento che lo stesso Rabin così definì: “Non fai la pace con amici. La fai con nemici ripugnanti”.

La ricerca di una pace definitiva fu per i palestinesi un segnale di demoralizzazione e debolezza. Al contrario, scrive Pipes, fare la pace con i nemici significa soltanto fare la pace con nemici che sono stati sconfitti. La storia ha dimostrato questa dura verità in modo inoppugnabile. Fino alla fatidica data del 1993, gli arabi hanno perso tutti i confronti armati con Israele: 1948-49, 1956, 1967, 1973 e 1982; ma, dal 1993, tutte le concessioni fatte ai palestinesi hanno prodotto soltanto una maggiore ostilità verso Israele, in primo luogo per mezzo della delegittimazione. Come uscire da quest’impasse? Secondo Pipes, occorre tornare alla vecchia, produttiva politica della deterrenza, che porti i palestinesi ad accettare Israele e a mettere da parte il rifiuto. Occhio per occhio, dente per dente. Questo è l’elenco delle risposte da dare: - in caso di danni procurati da azioni palestinesi, sottrarre il costo delle riparazioni ai 300 milioni di dollari di tasse che Israele trasferisce all’Autorità Palestinese; - limitare l’accesso alla West Bank in caso di azioni volte a delegittimare Israele in campo internazionale; - bruciare il corpo di un terrorista palestinese ucciso e sotterrare le ceneri in modo anonimo; - in caso di incitamento alla violenza da parte di un leader palestinese, impedirgli di ritornare nei territori palestinesi; - incrementare la costruzione di abitazioni nella West Bank in caso di uccisione di israeliani; - quando le armi in dotazione dell’Autorità Palestinese vengono utilizzate contro gli israeliani, sequestrarle e impedire che ne vengano fornite altre e, se ciò continua ad accadere, distruggere l’infrastruttura di sicurezza palestinese; - sospendere l’erogazione di acqua e di elettricità da parte di Israele in caso di reiterazione della violenza; - occupare militarmente le aree da cui provenissero azioni militari di notevole consistenza. In definitiva, una pace vera con i palestinesi potrà essere ottenuta solo costringendoli con queste misure ad accettare gli ebrei, il sionismo e Israele. Soltanto in questa maniera il popolo palestinese, ora sotto il giogo di un odio che lo porta a vivere una vita grama, fanatica e senza prospettive, potrà ritrovare il significato della propria esistenza perché si convincerà che “Israele è lì, per sempre, e non farà mai marcia indietro”.

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