La Giordania ha paura della Palestina 29/04/2010
Autore: Mordechai Kedar

"La Giordania ha paura della Palestina ", analisi di Mordechai Kedar
( traduzione e adattamento di Antonella Donzelli e Avi Kretzo )


Re Abdallah di Giordania, Mordechai Kedar

Da alcune settimane il re Abdallah di Giordania recita il seguente mantra: se i negoziati tra Israeliani e Palestinesi non progrediranno, se Israele non rinuncerà a Gerusalemme e non evacuerà tutti gli insediamenti in Cisgiordania, allora scoppierà la guerra. Il re che parla un inglese britannico perfetto dà l’impressione di essere un leader equilibrato e responsabile, per il quale la porta della Casa Bianca è sempre aperta.
Ci sono Israeliani che sostengono che l’approccio del re giordano nei confronti d’Israele sia lo stesso che aveva il padre Hussein, venuto nello stato ebraico alla vigilia della guerra del Kippur (1973) per avvertire Golda Meir del pericolo imminente. Per questo motivo essi spingono il governo israeliano a rinunciare a Gerusalemme e a smantellare gli insediamenti come intima il re Abdallah.

Tuttavia, l’entusiasmo di Sua Maestà per la nascita di uno stato palestinese e la sua improvvisa trasformazione in ‘paladino’ dei Palestinesi nascono dalla sua preoccupazione non tanto per la Palestina, quanto per il suo regno. Va notato, infatti, che il governo giordano in questi giorni sta revocando la cittadinanza a migliaia di Palestinesi che abitano in Giordania da decine d’anni.
Il re Abdallah non ignora la scissione tra l’autorità palestinese e Hamas, avverte i contrasti all’interno dell’Olp, nota il fermo rifiuto di Abu Mazen di sedersi al tavolo con Netanyahu e da ciò capisce che nel prossimo futuro non verrà costituito alcun stato palestinese nelle Giudea-Samaria e nemmeno a Gaza. Il caparbio attaccamento d’Israele a Gerusalemme e il deciso rifiuto palestinese di fondare uno stato che non l’avrà come capitale fanno dedurre al re giordano che la questione tra Israeliani e Palestinesi è giunta a un punto morto.

In assenza di uno stato palestinese, emerge l’eventualità di stabilizzare in modo permanente la situazione attuale, che vede tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano un’entità politica, cioè uno stato binazionale in cui vivranno Arabi ed Ebrei grazie a un accordo politico.
A tanti questa sembra la soluzione preferibile, che risparmia ad entrambi i popoli le sofferenze legate alla rinuncia di parte del territorio, all’evacuazione delle città e al disegno di nuovi confini.  Quest’idea sta prendendo vigore nei circoli intellettuali accademici e la Giordania osserva preoccupata come il sogno dello Stato Palestinese indipendente stia svanendo.

In questo scenario il re giordano teme che riemergerà con forza l’idea e lo slogan della ‘patria sostitutiva’, cioè quella che vede in Giordania la vera patria palestinese (dove in effetti i Palestinesi sono in maggioranza, oltre il 70% della popolazione, regina compresa, n.d.t.), nella quale i Palestinesi realizzeranno la loro aspirazione all’indipendenza.
Quest’idea ha un fondamento storico: dopo aver ricevuto il mandato dalla Società delle Nazioni (divenuta poi l’ONU) nel 1920, la Gran Bretagna ha diviso la terra promessa agli Ebrei come focolare nazionale tra l’Emirato della Transgiordania (l’attuale regno di Giordania) e la Palestina-Eretz Israel. Il mandato, però, non prevedeva questa suddivisione, né i Britannici avevano l’autorità per attuarla: pertanto, la costituzione dell’Emirato della Transgiordania non è legittima, e quindi neppure il regno di Giordania d’oggi.
Oltre a ciò, la costituzione dell’Emirato era destinata a fornire terre e a creare ‘cariche’ alla famiglia di Sharif Hussein e ai suoi figli Abdallah e Feisal della Mecca, allora amici dei Britannici, che erano stati cacciati dai Sauditi dalla zona dell’Hijaz (regione nord occidentale della Penisola Arabica dove si trovano Mecca e Medina, n.d.t.). Per questo, la ‘giustizia’ della storia dovrebbe proclamare l’annullamento di questi abusi britannici e la restituzione della terra del regno di Giordania ai Palestinesi. In effetti, poiché la stragrande maggioranza degli abitanti della ‘patria sostitutiva’ sono d’origine palestinese, perché non dovrebbero essere loro i padroni di casa, invece di alcune tribù di beduini che si sono impadronite delle terre con la benedizione britannica?

Ecco perché re Abdallah non si preoccupa in realtà della Palestina, ma del suo regno: uno stato palestinese e ovest del fiume Giordano (territori considerati occupati da Israele dopo il 1967, n.d.t.) metterebbe fine all’idea della ‘patria sostituiva’ e legittimerebbe il suo regno. A chi importa, se sarà soltanto Israele a pagare il prezzo della costituzione di questo stato?

A questo punto sarebbe logico porre a re Abdallah una domanda molto semplice: se la Giordania è così interessata a far nascere uno stato palestinese nella Giudea-Samaria, con capitale Gerusalemme, perché non l’ha creato quando ne aveva la facoltà, cioè durante i settemila giorni tra il 1948 e il 1967, mentre dominava su queste terre?  

Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
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