Gilad Shalit: ma non a tutti costi 29/11/2009
Autore: Mordechai Kedar
GILAD SHALIT: NON A TUTTI COSTI
di Mordechai Kedar
( traduzione e adattamento di Antonella Donzelli e Avi Kretzo)

Gilad Shalit è prigioniero di Hamas da più di tre anni e ogni giorno che passa in quest’inferno è un’eternità. I suoi carcerieri hanno un solo scopo: usarlo come merce di scambio e ricattare Israele per ottenere la liberazione di terroristi condannati legalmente, agli occhi dei quali l’uccisione di Ebrei non è un reato ma una buon’azione. Se Israele si fosse sempre rifiutata di trattare con i terroristi, forse oggi Shalit sarebbe un uomo libero, perché una posizione ferma, decisa, rigida nel rifiuto di liberare terroristi non avrebbe incoraggiato questo tipo di sequestri. Purtroppo lo Stato ebraico negozia con i terroristi e finisce per piegarsi alle loro richieste, anche se non a tutte. Ciò diventa per i terroristi un incentivo a reiterare sequestri di civili e militari per un business fruttuoso. I terroristi liberati non diventano certo “Giusti fra le Nazioni”: un monitoraggio e un’analisi dettagliati della situazione dimostrano che la stragrande maggioranza di loro, una volta in libertà, ritorna all’attività terroristica. Questa considerazione dovrebbe bastare da sola a far desistere Israele da questa politica di scambio. Prendiamo come esempio gli Stati Uniti: essi non vengono a patti con il terrorismo e questo ha reso del tutto sconveniente il rapimento di loro cittadini. Per questo, nonostante che in giro per il mondo si trovino moltissimi Americani, molti più degli Israeliani, oggi è piuttosto raro sentire che un americano è stato sequestrato da terroristi. Da 25 anni Israele rilascia terroristi in cambio di militari rapiti e ogni volta si riaccende il dilemma se è lecito negoziare per la liberazione di un uomo, di fronte all’elevata possibilità di una strage futura. È giusto che il governo metta in libertà oggi quelli che saranno gli assassini di domani? Dall’altra parte, per ogni nostro soldato rapito c’è una famiglia che vuole riaverlo e si chiede perché la guerra d’Israele contro i suoi nemici venga fatta sulla pelle del loro caro. Che cosa diremo dunque ai ragazzi che si arruolano: che in caso di sequestro faremo di tutto per liberarli, anche se il prezzo sarà altissimo? Fino a che punto scalfiremo la loro motivazione, se sin dall’inizio sapranno che, in caso di rapimento, saranno destinati a rimanere in mano nemica? C’è anche da considerare la questione della popolarità dei Primi Ministri, coloro che devono assumere queste decisioni. Sappiamo bene che l‘indice di gradimento di un uomo politico è la sua preoccupazione principale: egli farà di tutto per preservarlo e incrementarlo perché al momento del voto gli elettori gli tributeranno riconoscenza o ingratitudine per le azioni che avrà compiute. È degli ultimi anni la tendenza popolare a manifestare e promuovere iniziative a sostegno della liberazione di ostaggi: cartelli pubblicitari, articoli e annunci su giornali, appelli radiofonici e televisivi, dimostrazioni davanti alla casa del Primo Ministro, volantini nelle cassette della posta, adesivi sulle automobili e nastri legati a ogni palo. Chi partecipa a queste attività sicuramente lo fa in buona fede e mosso da un sincero desiderio di portare a una rapida liberazione dei rapiti. Tuttavia, queste azioni apparentemente positive danneggiano gravemente l’esito delle trattative, perché il nostro Governo, sotto queste pressioni da parte del pubblico e dei mass media, non può fare altro che cedere ai ricatti dei nostri nemici. E più la pressione aumenta, più cresce la possibilità di piegarsi alle richieste esose della controparte. Ogni volta che si cede s’incoraggia un prossimo rapimento, perché l’appetito del nemico aumenta sempre di più, e con esso le pretese. L’elemento nuovo e determinante entrato con forza in questo scenario sono i mass media. Più precisamente, quella parte della comunicazione che preme sul Governo per imporre la propria agenda politica in nome di quella che viene definita “libertà di stampa”, remando contro l’interesse pubblico e nazionale. Chi conosce le tecniche del commercio in Medio Oriente sa bene che, quando una delle due parti mostra segni di ansia e impazienza, il prezzo sale. In questo caso, il panico e le attese che noi stessi abbiamo creato fanno impennare i costi a un livello che non possiamo permetterci. Che cosa saremo disposti a pagare al prossimo rapimento? Un quartiere intero di Gerusalemme per un soldato e mezzo quartiere per un civile? “Allah è con chi è paziente”, credono i Mussulmani. Invece noi occidentali siamo impazienti, vogliamo tutto e adesso. Il nostro comportamento nei confronti di Hamas, Hesbollah e la Siria dimostra la nostra incapacità di comprendere le regole della negoziazione in Medio Oriente e i nostri nemici, che se ne rendono conto, non ci pensano due volte ad alzare la posta. Anche la nostra concezione del tempo e il nostro “orologio politico” sono completamente diversi da quelli dei nostri vicini. Da noi la durata media di una legislatura è di circa tre anni, perciò, se il Governo in carica vuole realizzare qualcosa di concreto, deve lavorare sotto pressione, in una corsa contro il tempo che i nostri nemici percepiscono al volo. Invece, coloro che credono che Allah aiuti chi non ha premura, sanno soffrire e attendere con pazienza l’agognata vittoria. Questo loro atteggiamento li rende ai nostri occhi degli esseri irriducibili, non ricattabili e quindi invincibili. Soltanto un popolo convinto di percorrere un giusto cammino, di far parte di un disegno storico e di avere una missione; un popolo capace di resistere al dolore e pagarne il prezzo, solo un popolo così può sopravvivere in Medio Oriente.


Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
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